Racconto di Carlo Giarletta

(Terza pubblicazione – 11 marzo 2021)

 

 

Il personale paramedico si divertiva con lui. Lo punzecchiavano, toccavano all’occasione un suo punto debole. Vincenzo Ferlisi, ricoverato nella Residenza Sanitaria Assistita “San Calogero”di Naro, paesino agricolo con testimonianze barocche in provincia di Agrigento, era un vecchio di ottantaquattro anni. Infermo ma di convinto spirito fascista, non sopportava né i comunisti in generale ed in totale, né di percepirne la rivelata e dichiarata presenza intorno a sé, veri o falsi che fossero. In tal modo, di sinistra tendenza si professavano operatori ed infermieri, quelli che volevano stuzzicare di più il malandato canuto.

“Don Vincenzo, lo vede quello?”

“Eh…”

“Pure lui è un compagno!”

“No!”

“Sì, compagno è. Vero, Carmelo?”

“Sì, Peppe, sono per la bandiera rossa.”

“Disgraziato! Disonesto!”

Al paziente non si rizzavano i capelli soltanto per debolezza. Se provocato, infatti, il Ferlisi, le pupille le spalancava. Anche se questa smisurata apertura durava pochi attimi, prima che il soggetto ricadesse nello stato di abbattimento di persona con il fisico minato.

“Signor Ferlisi, qua dentro sono tutti comunisti.”

“Io ti sparo! Disgraziati e disonesti!”

Il direttore del Centro di ricovero, don Enzo, era un prete. Eppure…

“Don Vincenzino, lo sa che il direttore è comunista?”

“Disgraziato!”

“E pure questi due, li vede? E’ vero che siete compagni?”

“Vero, vero è, siamo fedeli al partito, falce e martello!”

“Venduti! Venduti e svenduti!”

Il ricoverato era di fede politica nera, perché il fratello era stato ammazzato dai rossi. Lo aveva raccontato il paziente stesso. Avvenne al tempo del balletto grottesco che spopolava per strade, rifugi, macerie, rovine, campagne, città, paesi, diffuso in particolare a decorrere dal 2° semestre del 1943 tra fascisti, repubblichini, comunisti, partigiani, tedeschi-nazisti, disertori, sbandati e affini, buona parte dei quali dal credo politico più o meno annacquato, falso-falsato o sofisticato & adulterato. Quell’avvenimento aveva segnato don Vincenzino. L’uomo non poteva perdonare e dimenticare l’assassinio del congiunto; il dolore per la perdita era confluito nel conforto, nella ragione e nella voglia di vendetta supportati dall’appartenenza al partito di estrema destra.

“Signor Ferlisi, se fa il bravo, lo accontentiamo.”

“Me lo devi portare! Io ti ordino!…”

“Ah, ah, mai dire ti ordino, don Vincenzo!”

Pativa il peso dell’infermità, l’ultraottantenne rimpicciolito dai malanni. Malgrado le impennate di reazione, condizionate dalla spossatezza fisica, il malato tuttavia sembrava crogiolarsi nel subire lo sfottò.

Un operatore sanitario appoggiava la bocca al braccio e produceva un lieve suono di pernacchio: “Don Vincenzi’…Prr!!”

“Signor Ferlisi, ma se lei si sentisse male ed io fossi l’unico che la può soccorrere, si farebbe aiutare da me pure se sapesse che sono un compagno? Che dice, va?”

“Io prima ti sparo e poi chiamo a un altro!”

Un giorno che era di turno per pulizia, manicure e pedicure in particolare, al vecchio sofferente ma indomito non quadrava bene la situazione. Allora egli non smentì il suo atteggiamento da galletto:

“Se non la finite, ora vado a casa, piglio la pistola e vi sparo a tutti in testa!”

2

“Posso avere pane e formaggio? C’è qualcuno che mi dà pane con formaggio?”

La signora slava di altra epoca mostrava i segni del tempo. Incartapecorita nella pelle e nella mente, lei, Danicka Bajovich, voleva dimostrare a tutti quelli che le capitavano a tiro di parole e discorsi semivaneggianti di essere padrona di casa. Si sentiva a casa sua, proprio lì, nella Residenza Sanitaria Assistita.

“Senta, senta! Ma che fa non sente? E’ sordo o fa il sordo?!”

L’operatore, l’addetto alle pulizie, l’infermiere, il medico di passaggio, uno qualsiasi tra questi destinatari dei richiami della vecchia tirava dritto.

“Neanche questo ci sente. Ma qua sono tutti sordi?!

Le pressanti richieste, dettate dalle voglie della ancien femme, includevano anche un altro feticcio cibario: le banane. Se priva di controllo, la signora dei Balcani era capace di divorare no time no limits più frutti a più riprese.

“Vorrei delle banane. Qualcuno mi dà delle banane?”

“Signora Danicka, a quest’ora?”

“Perché, che ore sono?”

“Sono le quattro e si mangia alle sei.”

“Ma io ho fame adesso!”

“Adesso non è possibile. Le fanno male.”

“Ma che sta dicendo?! Le banane non mi fanno male, è frutta!”

Ai richiami e reclami inascoltati o mal ascoltati, seguivano velate minacce dettate dal frullo cerebrale del momento. Lo spauracchio che la donna agitava davanti agli indisciplinati, quelli che non rispettavano il suo ghiribizzoso volere, era la figura carismatica del coniuge:

“Qui dentro non funziona niente, lo dico a mio marito!…”

Ma c’era un grosso particolare che la contraddiceva. Il consorte era morto da tempo e la Bajovich, coniugata La Loggia, aveva dimenticato e rimosso l’evento. L’uomo aveva esercitato la funzione di direttore sanitario del manicomio provinciale di Agrigento. Pertanto rifulgeva la sua luce come una personalità in campo medico. Secondo le regole dei giochi di società il dottor Franco La Loggia pascolava nei campi riservati ai vip cittadini. Nomen omen, era un’autorità in provincia ed in regione, riconosciuto, incensato ed invidiato per la sua posizione sociale. Malgrado la pessima fama della struttura sanitaria. Un trucido ostello per i pazzi, sputtanato a seguito di inchieste giornalistiche, individuato più come luogo di massima incuria e ricettacolo di maltrattamenti e sevizie che di cure adeguate, raggiunto da inchieste e procedimenti giudiziari.

“Senta, senta, signore, lei è di qua?”

“No, sono venuto in visita.”

“Ah, ma io non la conosco. Lei conosce mio marito?

“No, signora. C’è un mio parente ricoverato qua.”

“Beh, visto che lei ha tempo da perdere e qua non viene mai nessuno di quelli che lavora, me lo farebbe un piacere? Venga nella mia stanza.”

“Ma, guardi che non vogliono che intervenga qualche persona di fuori.”

“Ooh, si tratta solo di regolare la voce del televisore! Venga, venga!”

“Ah, va bene.”

Il malcapitato entrava nella stanza della ricoverata, in pochi secondi effettuava l’operazione sollecitata e poi usciva, sempre con la ricoverata che gli stava col fiato sul collo.

“Ecco, ha visto che non era difficile? L’ha fatto pure lei che non è capace!”

Una volta la vecchia chiamò una giovane di circa vent’anni, magra e slanciata, con i capelli rossicci, che non lavorava nella struttura medica. Forse il colore della chioma della ragazza turbò la paziente.

“Senta, bella signorina!”

“Buon giorno, signora. Ha bisogno di qualcosa?”

“Puttana!”

Nel passato dell’avvizzito raffinato mausoleo mal ambulante aveva trovato molto spazio il mondo del cinema. Da comparsa o poco più, e non come attrice importante secondo il suo millantato credito, lei era rientrata persino nel cast di qualche film di Fellini. Testimonianze al riguardo apparivano su Internet. E per altre pellicole, non mancavano gustose attestazioni. Immaginare Danicka giovane, bisogna ammetterlo, significava tratteggiare i dati somatici di una donna fascino munita. Amante del sesso o freddina? Probabilmente lei non si mostrò insensibile a spupazzamenti-richieste-avances-ricatti sessuali da parte di addetti ai lavori nel campo delle movie star. Tra i vari interludi e passaggi della sua vita cinematografica, ci fu un meeeting col botto. La successiva conoscenza, seguita immediatamente da una breve ma tostissima relazione, la condusse per mano nell’alto entourage del sistema. L’uomo delle stelle era un grosso produttore, ma nessuno poteva fare una scommessa vincente sul suo nome. Non lo ricordava nemmeno Danicka. Circolavano soltanto supposizioni, voci, illazioni sull’identità. Tra i possibili circolava il nome di Ponti, qualcuno azzardava De Laurentis, altri tiravano in ballo Cristaldi e il caso restava irrisolto. Ad ogni modo, finito il menage, la Bajovich ricadde tra le figuranti di piccola caratura.

Tornando al dottor La Loggia, marito ufficiale e garantito, c’è da aggiungere una creazione. Lui fece un figlio con la moglie. Dopo una ventina d’anni il giovane morì in un incidente d’auto. La madre, da ricoverata nell’R.S.A., non ricordava niente. Anzi pensava che il ragazzo fosse ancora vivo e scorrazzante nella sua fuoriserie sportiva fotti autovelox. Coniuge e figliolo uomini veri e non fantasmi, dunque. Con questo abito mentale, secondo la donna, i due costituivano una scelta, spesso di comodo, un appiglio a cui aggrapparsi ed una buona carta da giocare in generale.

Un giorno fu un’infermiera dell’R.S.A. a fare il bluff con la vecchia fuori di testa. Si trattò di una contromossa spiazzante per parare un’ennesima lamentela.

“Qui dentro non va niente per il verso giusto! Lei non è efficiente! Faccio intervenire mio marito, sono la moglie del dottor La Loggia!”

“E io sono la figlia!”

“Come, la figlia?!

“Sissignora, sono la figlia!”

“Ma signorina, non dica queste cose! Io non ho mai avuto figlie femmine con mio marito!”

“E io le dico che sono la figlia del dottor La Loggia! E gli vado a parlare anche io!”

La signora dei Balcani stranamente si ritirò con la coda tra le gambe. Qualcosa non doveva quadrare di certo nei suoi schemi mentali compromessi. Forse la presa di posizione, inventata dall’infermiera, le insinuò un dubbio accompagnato da un senso di sconforto. La ricoverata si chiamò fuori, si estraniò ancor più e lasciò cadere l’insorgente battibecco.

In un’altra occasione venne fuori il giudizio lapidario della old woman sulla nipote di uno dei pazienti. La ragazza si mostrava eccentrica, sembrava una stravagante.

“Signorina, lei è degna di stare nell’ospedale di mio marito!”

E un pomeriggio non mancò l’orgoglio etnico, la fierezza di un’appartenenza, sparati in faccia al parente di un ammalato. Avvenne dopo un brevissimo scambio di vocaboli nella lingua madre di Danicka.

“Ah, allora lei è croata?”

“Io sono serba, non sono croata!!”

“Scusi, signora.”

“Non lo ripeta più se no la denuncio!”