Racconto di Luana Troncanetti

(Prima pubblicazione)

 

Febbraio 2020

«Nina, còremio, sei pronta? Annàmo?»

Còremio, ma senti te ‘sto mollaccione!, sembra canzonarlo la Tramontana che gioca tra i comignoli della Garbatella. Tutte le sere Giovanni e Nina escono prima di cena. Soltanto gli ingrati, quelli scemi sul serio, i distratti o troppo indaffarati, non piazzano mai il naso all’insù per godersi l’incanto dei tetti romani.

Lo sanno tutti quelli dei lotti vicino casa loro, sono faccende che non sfuggono alla gente di qui. Ogni sera, all’imbrunire, camminano affiancati. Il braccio di lei incastrato a quello del marito, il bastone di Giovanni a sorreggere gli acciacchi condivisi. C’è qualcuno che vorrebbe interrompere quella passeggiata tenera e qualcun altro che lo blocca nell’intento, gli fa cenno con gli occhi che va bene così. Lassali perde, che male c’è?

Ottobre 1971

Nel primo pomeriggio di un ottobre bollente, Nina si era fermata a bere al nasone piazzato proprio davanti alla bottega di Giovanni. Lui si era arrestato col martelletto a mezz’aria su un mocassino di vacchetta, la gola più secca della ragazza mai vista prima nel quartiere. Lei restò curva a lungo sulla fontanella per spegnere l’incendio della sete, eppure non bastò.

Con la sinistra imprigionò i capelli in alto sulla nuca, chiuse la destra a conca. Prese a lanciare manate d’acqua sul collo con una sensualità che le restò appiccicata sulla pelle a vita. Passò alle braccia nude, al viso, manco si trovasse nell’intimità del suo bagno e non per strada. Sollevò la testa, infine. A occhi chiusi, per godersi meglio la frescura. Sparò fuori un sorriso da oscurare il sole e poi s’incamminò. Danzava sulle ballerine di pelle rossa, alta com’era non sapeva cosa farsene dei tacchi. Quella me la sposo, pensò Giovanni con gli occhi arpionati alla sconosciuta che si allontanava a passi leggeri verso piazza Brin.

Rivide la sua Nina qualche giorno dopo. China, stavolta, a bere alla fontana della Carlotta poco distante dal liceo. Era di spalle, la riconobbe dalle scarpe color ciliegia. Teneva i capelli raccolti in una coda di cavallo come le studentesse appena uscite dal Socrate, ragazzine con la cinghia dei libri fra le braccia e lo splendore della gioventù impigliato alle gonnelle.

Camminavano ridendo a piccoli gruppi compatti, a seguirle c’erano i fischi ammirati dei ragazzi e il sole benedetto di un’ottobrata romana senza fine. Benedetto fu anche l’inciampo con cui Giovanni franò ai piedi di Nina. Si era incantato a fissarle il collo scoperto mentre beveva, perse l’equilibrio e il pacchetto da consegnare a una cliente troppo viziata per ritirare l’ordine in bottega.

Le scarpe rotolarono fuori dalla scatola.

«Le ho fatte io.», dichiarò il ciabattino già rincoglionito d’amore. Avrebbe voluto mozzarsi la lingua per quell’uscita.

«Belle, grazie! Oggi a scuola non volevo andare, sai? I tacchi non li porto. Ho sempre sete, e tu chi saresti?»

Giovanni imparò più avanti che lei giocava con le parole, mescolava le affermazioni alle domande, replicava in ritardo come i bambini distratti o quelli troppo furbi, una cosa che poi lo avrebbe fatto impazzire di rabbia e ridere di cuore. Scoprì solo in quel momento i piccoli segni che incorniciavano il sorriso di quella che aveva creduto una ragazza. Aveva già trentacinque anni, Nina. Dieci esatti più di lui. Somigliava a una delle tante pischelle appena uscite dal liceo, solo che sedeva in cattedra. Una supplente, casa sua era il Trionfale. Ancora non sapeva che alla Garbatella avrebbe trascorso il resto della vita.

Febbraio 2020

Nina stasera è stanca. Fa freddo, c’è troppa confusione bella in giro. La festa per i cent’anni del quartiere non è roba per vecchi. Escono ogni sera per mezz’ora, tanto ci vuole fra andare e tornare, inclusa la pausa sulla panchina per riposare i troppi anni. Quei trenta minuti, adesso, le sembrano un’eternità. Tranne in caso di pioggia, lei a quell’abitudine non rinuncia mai. È stanca, ma non ha il cuore di deludere Giovanni.

L’uomo le fa una carezza sui capelli, poi l’aiuta a mettere il cappotto e le aggiusta la sciarpa attorno al collo.

«Annàmo?»

«Annàmo…»

Scendono le scale con cautela, sono evasi dal carcere della fretta diversi lustri fa. Nonostante la curvatura degli anni, Nina lo sovrasta ancora di dieci centimetri. Si incamminano verso Piazza Ricoldo da Montecroce. Ad aspettarli c’è la fontana del loro primo incontro e la Scala degli Innamorati dove Giovanni le aveva rubato un bacio, mesi dopo, piazzato un gradino più in alto di lei per raggiungere le sue labbra.

Un calzolaio e una professoressa di greco e latino; lei più vecchia di dieci anni, poi! L’invidia delle megere sfinite dai matrimoni diroccati giurava che, di lì a qualche anno, Giovanni – bello come nessun altro nel quartiere – sarebbe andato a caccia di carne più fresca. Era inevitabile, succede sempre. Invece còremio lui non l’ha mai tradita.

Non c’è mai stato motivo, o voglia, mai un attimo in cui abbia girato la testa per annusare un profumo che non fosse quello della moglie. Nessuno avrebbe mai scommesso che sarebbero durati per quasi mezzo secolo. E invece.

Figli non ne hanno avuti, la loro famiglia è la gente della Garbatella. Quelli dei lotti vicini fanno a turno, la strada da percorrere non è molta. Tempo, poi, per Nina e il sòr Giovanni si trova e basta. Stasera è toccato a Massimo seguirli, da ragazzino è stato a bottega per un po’ e vuole un bene dell’anima al vecchio ciabattino.

Li osserva da lontano, è seduto da dieci minuti sulla panchina e parla con sua moglie. Si ricorda tutto, lui: le litigate, le ballerine rosse, la prima volta che sono stati nudi pelle a pelle e ancora non erano sposati, le chiacchiere degli invidiosi, l’affetto degli amici.

Aspetta con pazienza, Massimo, l’attimo in cui Giovanni si smarrisce all’improvviso. Succede ogni sera: perde la parola, il senso dell’orientamento, tutto se stesso. Incolla lo sguardo sulla Carlotta che continua a zampillare acqua dalla bocca e tace. Si incurva, abbassa la testa sul petto, passa le mani fra i capelli. Rialza il capo e sorride a Nina, la rassicura che va tutto bene.

Allora l’uomo che li ha seguiti esce dal suo nascondiglio. Si avvicina alla panchina e chiede cauto.

«Annàmo, sòr Giova’?»

«Dove, Massimi’?»

«A casa vostra, ve riaccompagno io. Dàtemeer braccio, così ve tiro su.»

«Grazie, fijo. Una mano all’età mia fa sempre comodo.»

L’ottantenne si lascia sollevare. Una volta in piedi, però, non muove un passo. Aspetta.

«Annàmo?» ripete Massimo con più dolcezza.

«E Nina? Nina nun l’aiuti?»

«Ci avete ragione… nun so’ mai stato cavaliere come voi.»

Massimo si curva verso la panchina, porge il braccio al nulla e aspetta il giusto tempo della finzione prima di rimettersi in cammino insieme al calzolaio.

Giovanni rammenta tutto: la prima volta pelle a pelle, le ballerine rosse, tutti i baci e ogni litigata. L’unica cosa che non vuole proprio ricordare è che Nina è morta cinque anni fa.

Dicembre 1971, due minuti dopo il loro primo bacio

«Sarò io la prima ad andarmene, è matematico Giova’. E dopo come fai?»

«Prima te… mica è detto! Se fosse, io nun te mollo. Qualcosa me invento, còremio. Nun te preoccupà.»

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