SEGNI

Racconto di Andrea Scagliarini

(Prima pubblicazione)

 

Ho deciso di non uscire più e di vivere chiuso qui dentro come un eremita. Ricordo un vecchio film in bianco e nero che descriveva la vita di uno stilita. C’era un uomo solitario che viveva nel deserto in cima a una colonna e respingeva tutte le tentazioni. Non aveva bisogno di nulla e alla fine si ritrovava in un locale di New York. Io vivo alla Garbatella e difficilmente potrei ritrovarmi da un’altra parte. Non ho più soldi, non lavoro da oltre un anno. Non incontro più nessuno. Persino il mio cane se n’è andato e non posso biasimarlo.

Ieri, nella mia camera, ho cominciato a tracciare dei segni verticali sui muri bianchi, con un pennarello nero, dall’alto verso il basso. Sono segni tremolanti, che dicono molto di me. Sono salito su una sedia per lavorare meglio, ma il pennarello era vecchio, è finito subito e allora ho smesso. C’era qualcosa di profondamente Zen in quel gesto. La padrona di casa quando vedrà tutto questo comincerà a urlare come una prefica, a strapparsi i capelli, mi chiederà i danni. Dirà che da me proprio non se l’aspettava. Me lo diceva anche la maestra per mortificarmi di fronte ai compagni. Ma io non parlerò, rimarrò in silenzio. Ho deciso di non parlare più.

Mentre contemplo i miei segni aniconici sul muro ripenso a una persona che ho conosciuto molti anni fa. Quando ero un ragazzo, i miei genitori e i nostri vicini di casa chiamavano un anziano decoratore per applicare la tappezzeria. L’osservavo lavorare in silenzio e infine eravamo diventati amici anche se era decisamente più vecchio di me. Per noi era Mimmo il tappezziere. Tutti lo chiamavano tutti così. Mi aveva raccontato che da giovane era stato in carcere; a bottega diceva. Le prime sigarette le ho fumate con lui all’insaputa dei miei genitori. Per stare alla larga dalle cattive compagnie si era trasferito al Nord, in una grande città. Lì aveva incominciato a rigare dritto e a lavorare come decoratore. Quando era ispirato, prima di stendere la carta da parati, scriveva con la matita una poesia sul muro. In carcere aveva cominciato a scrivere versi e quell’abitudine non lo aveva abbandonato nemmeno da uomo libero. Si sentiva un poeta, un poeta decoratore. Mi domando se da qualche parte ci siano ancora le sue parole sotto una carta da parati a fiori. Come un uomo primitivo aveva lasciato una traccia della sua esistenza disgraziata su una parete che nessuno avrebbe visto. E anche i miei segni sul muro non li vedrà nessuno.

Questa mattina, ho deciso di continuare il mio lavoro con una biro. Possiedo biro di diversi colori. Blu, rosse, nere. Ne possiedo persino una con l’inchiostro verde come Neruda. Ma voglio lavorare anche con la matita. Ho trovato una matita rossa e blu come quelle che usavano le insegnanti di latino e greco al ginnasio. Con questa il segno si fa più netto deciso, marcato. Scorre bene. Una riga rossa e una riga blu. È un peccato che non ci sia qualcuno a osservare il mio lavoro. Vorrei scattare delle foto, ma ho il cellulare scarico da giorni. Forse, non ho più neanche il cavo per ricaricarlo oppure l’ho stappato in un momento di rabbia. Non importa, e poi non saprei a chi mandarle.

Sto per terminare la parete bianca sopra il letto quando sento suonare il citofono. È un suono ripetuto, disturbante, prodotto con insistenza, con l’arroganza di chi ha fretta e vuole subito una risposta. Significa che per qualcuno sono ancora vivo. Spero non sia la guardia medica. Sarà mia sorella Greta che, quando si ricorda, porta le medicine a quel matto di suo fratello.