Racconto di Maria Luisa Trippitelli
(Prima pubblicazione 21 giugno 2021)
No, non è facile scrivere di te. Anche se sono anni che ci penso.
Non è mai stato facile spiegare agli altri quale fosse il sentimento che ci legava, e perché ci legava. Il sentimento che legava me e i miei fratelli, ancora bambini, a questa signora un po’ più anziana dei nostri genitori, con la quale non c’erano legami di sangue.
Ma c’era e c’è ben altro, che va oltre il sangue: c’è quel sorriso che ci spunta sulle labbra oggi, a noi tre fratelli, noi due sorelle già oltre i sessant’anni, e nostro fratello che ci si avvicina. Ci sono quei tuoi intercalari così singolari, o quel tuo buffo modo di pronunciare i nomi inglesi, che ancora dopo più di 50 anni ci fa ridere, ma anche commuovere. E noi a chiederti in continuazione di pronunciare Spencer Tracy, o Katherine Hepburn, ci cascavi sempre, e noi giù a ridere, che avessimo 12 o 30 anni. E per noi il 31 dicembre non è l’ultimo dell’anno, ma è la festa del tuo compleanno. Anche oggi.
Eravamo una giovane famiglia in cerca di un appartamento in affitto, nel 1967; papà, dirigente di Tribunale appena trasferito a Rimini, mamma, insegnante di lettere, trasferita anche lei, e tre marmocchi al seguito, nove, sette e cinque anni. Marmocchi che nessun proprietario voleva in nessun appartamento. La risposta era sempre quella: ottime garanzie, certo, due dipendenti dello Stato, ma tre bambini …Tre bambini no, ci dispiace. Due, tre, quattro volte. Manco fossimo tre coccodrilli.
Papà ha quasi perso le speranze, quando l’agente immobiliare lo chiama in ufficio: le ho fissato un appuntamento, venga, il secondo piano di una villa a due, vicinissimo al mare, un appartamento da favola, un bel giardino per i suoi figli.
E papà va all’appuntamento, più che altro per cortesia nei confronti dell’agente immobiliare; sa già che quando nominerà i tre bambini …… l’appartamento sfumerà, come gli altri.
La casa è davvero bellissima: grandi spazi, marmo ovunque, parquet nelle camere da letto, un salone che oggi ci fanno due bilocali, un giardino grande e ben curato, la spiaggia veramente a cinque minuti, i proprietari, una decina d’anni più anziana dei nostri genitori lei, molti di più lui, una figlia all’università, sono gentili e sorridenti. E papà si complimenta per la casa, è davvero bella, però ….. però che cosa? Dice il proprietario. Però abbiamo tre bambini, la più grande va in quarta elementare ….
Ed è li che cambia la nostra vita, ed è lì che alla nostra mamma biologica si affianca lei, la donna che ci ha amato, cresciuto, sgridato, che ha gioito per i nostri successi, i primi fidanzati, gli esami, la laurea, le comunioni, i matrimoni, alla quale abbiamo confessato cose inconfessabili; perché la signora sorride a mio padre, ma come! Tre bambini! Che bello, sono anni che non abbiamo bambini qui, se la casa le piace, è sua.
E la casa è stata nostra: tu, sei stata nostra.
Ci hai amato da subito, ed è stato naturale; il primo ricordo che ho della casa nuova sei tu, sulle scale, con un grembiule smanicato a fiorellini, di quelli che oggi nessuno mette più; capelli castani, perché ancora li tingevi; hai una sigaretta accesa, in mano, quella sigaretta che ti porterà alla tomba, ma che per anni siamo corsi a comprarti in tabaccheria, perché una volta le sigarette si vendevano anche ai bambini, mica come adesso. E per tanti anni, da grandi, abbiamo poi provato a farti smettere, ma figuriamoci se ci siamo riusciti.
E noi ti abbiamo amato fin da subito, di un amore viscerale, esclusivo, che non riuscivamo neppure spiegare alle amiche; ma chi è, tua zia? La tua madrina? Nulla di tutto questo, sei la nostra “padrona di casa”, che detto così fa ridere, perché sei stata e sei un’altra mamma.
Si può amare un’altra mamma?
Sì, si può. Noi tre fratelli lo sappiamo.
Le porte di ingresso ai nostri appartamenti non avevano la chiave; era sempre aperto, era una casa sola.
Sin da subito, tornati da scuola, si prese l’abitudine del “mangio di sotto”; perché tu cucinavi e come cucinavi! E al ritorno a casa, ci si documentava su che cosa ci fosse da mangiare “di sopra”, nel nostro appartamento, e “di sotto”, da te. Che vincevi sempre, ovviamente: mamma insegnava, sempre di corsa, tornava all’una passata, due maccheroni al volo, il giorno libero e la domenica l’offerta era diversa. Ma “di sotto” la tua tavola offriva tutti i giorni pasta fatta in casa, polpette che mai più se ne mangiano così, e gli ossobuchi … oh, gli ossobuchi! Ancora quasi quasi sento il profumo. Anche del tuo ragù, se mi metto d’impegno, sento ancora il profumo; e i dolci, le frittelle a carnevale, la ciambella appena sfornata.
Anni 60, anni 70; i bambini crescevano, e con loro cresceva il nostro amore reciproco, la nostra consapevolezza di avere un porto sicuro in ogni momento.
Ci sono state le nostre prime comunioni; tu ci hai pettinato e messo le coroncine in testa, davanti al tuo specchio, nella tua camera.
Ci sono stati i brutti voti a scuola (non i miei) e i miei fratelli si rifugiavano giù da te, per sfuggire alle sfuriate di papà; e lì sei sempre stata il nostro avvocato, il nostro mediatore, pronta a far ragionare papà e a limitare i suoi divieti (niente sabato pomeriggio in centro, o niente televisione, o niente calcio). E ci riuscivi sempre.
Sei stata la nostra banca: i primi soldi guadagnati con i lavoretti estivi li conservavo in una busta che tenevi in un cassetto. E così i miei fratelli: per costringerci a risparmiare, per non averli sempre a disposizione, per farci “qualcosa di meglio”.
Anni in cui in ogni famiglia c’era un solo televisore, per cui di corsa giù di sotto quando si trasmettevano le “fesserie” che papà ci impediva di guardare: le prime soap, come Sentieri, o il mitico Dallas, che guardavamo in religioso silenzio ed estatica ammirazione, fuggendo da qualche impossibile Tribuna Politica, una noia mortale che però mamma e papà apprezzavano tanto.
E noi neppure ci chiedevamo se magari anche voi “di sotto” avreste voluto vedere Tribuna Politica, ma c’era Dallas, o Rischiatutto; era naturale che tu dicessi le bambine vogliono vedere Dallas, e nessuno fiatava.
Ricordo le sere davanti al tuo televisore; ricordo una terribile sera del 1976, il terremoto in Friuli, la casa aveva tremato violentemente, tutti in giardino; e poi tutti nel tuo tinello, e camomilla a volontà; e la tua voce tranquilla, che ci manda a letto senza paura.
Ti rivedo lavorare a maglia, veloce e precisa senza neppure guardare i ferri, presa anche tu dalle avventure di JR e Sue Ellen, e ovviamente lavoravi per noi: maglioni, sciarpe, berretti col pon pon che con orgoglio sfoggiavamo in giro in bicicletta durante i nebbiosi inverni riminesi.
Insieme guardiamo (un evento mondiale!!) tutta la trasmissione del matrimonio di Diana e Carlo d’Inghilterra, davvero un evento raro per i tempi; tutte e tre, io, Paola e te, rapite davanti allo sfarzo, alle teste coronate, agli abiti eleganti.
A maggio vai a Chianciano, con tuo marito, per quasi un mese, tutti gli anni. E parti sempre con una valigia vuota, che riempi di cose che ci porti: prima giocattoli, poi cose carine, ricamate. Un anno ci porti le bamboline Furga che vanno tanto di moda, nei primissimi anni 70. Che dire ….. io la mia ce l’ho sul comodino, da allora. Ho 62 anni, ma periodicamente lavo il vestitino, per evitare che si sbiadisca, e anche il faccino della bambolina.
E’ strano: sembra ieri, eppure è già la nostra storia. I ricordi si accavallano, si fanno largo nella mente, qualcuno più prepotente dell’altro. Qualcuno meno.Qualcuno più bello degli altri.
Alla fine degli anni 70 siamo tre adolescenti, anzi io, la più grande, nel 1977 mi iscrivo all’università. E qui, non sei riuscita ad aiutarmi nella mia disperazione; la disperazione di essere costretta ad una facoltà che non volevo, che non mi piaceva, ma alla quale papà mi costrinse. A nulla valsero pianti e suppliche e musi lunghi; papà aveva deciso giurisprudenza, quindi addio sogni di gloria, ovvero di lettere classiche. E nessuno ha potuto nulla per darmi una mano ad osteggiare la volontà superiore. Neppure tu.
L’università fatta da pendolare, Rimini Bologna tutti i giorni; il treno alle 5.45, e tu alle 5 e un quarto sei per le scale, scendo e mi porgi una tazzina di caffè. Per quattro lunghi anni, sino alla laurea, quando siedi elegante nelle sale di Via Zamboni, aspettando la proclamazione.
E gli anni passano, finchè il tuo marito adorato ci lascia improvvisamente; e da allora, le parti si invertono: tu sei sempre stata il nostro sostegno, oggi noi siamo il tuo. A turno dormiamo con te, andiamo assieme al cimitero, con le nostre prime automobili, e tu insisti per mettere il pieno.
Lavoriamo, tutti e tre; siamo fidanzati, tutti e tre; non abitiamo più “di sopra”, ma bussiamo alla tua porta tutti i giorni, anzi io ho le chiavi, per un caffè, un pranzo, o una cena, o per rimanere a dormire con te. Da quando sei rimasta sola non sei più la stessa; cucini poco, e solo se ci siamo noi. Spesso entro con le mie chiavi e sei al buio, la televisione spenta, il lavoro a maglia buttato in un angolo.
La nascita della bimba di mia sorella ti rimette un po’ in sesto; è il 1991 e, nonostante il tuo ormai risaputo dolore alle ossa, voli per il corridoio dell’ospedale per vedere la bambina, con un gran mazzo di fiori in mano. “Ma non ti facevano male le gambe” ti dico. “Non me ne ricordo più” mi dici.
Ma è stato un attimo: ogni giorno mi accorgo che perdi il gusto di vivere, di fare, di stare in compagnia. Un declino che non si ferma. O, per meglio dire, si ferma quando hai neanche 74 anni.
E non voglio più ricordare oltre. Ma nel 1995, quando nasce mio figlio, tu non ci sei più. Quanto avrei avuto bisogno di te, invece, quanto avrei voluto lasciarti il bambino, tirare fuori di nuovo lo spirito che ci ha cresciuto, quanto vorrei, oggi, una tua fotografia col mio bambino.
Tu non amavi neppure farti fotografare, non ti è mai piaciuto, per cui abbiamo di te solo foto ufficiali, comunioni, lauree, matrimoni.
Ma non ho bisogno di una fotografia, perché ti ho nella mente e nel cuore. Perché spesso ti sogno, ancor oggi che ho più di sessant’anni; e nel sogno sei sempre quella di “una volta”, quella attiva, che non sta mai con le mani in mano, cucina, lava, stende, pulisce i vetri, guarda la televisione, strappa le erbacce dal giardino, pontifica contro la vicina di casa, spettegola con me e Paola su questo e quello. E, in genere, quando ti sogno mi accade qualcosa di bello.
Perché la mia vita non sarebbe stata la stessa senza di te, ma neppure la tua senza di noi.
Estranei vivono oggi nella casa “di sopra”. Gente che non saprà mai che cosa è stata la vita in quella casa quando eravamo una sola famiglia, quando il sentimento che ci legava non portava neppure gelosia alla nostra “vera” mamma, perché per lei eri una sorella maggiore, e non un’antagonista. A te ci lasciava bambini con la febbre, mentre lei andava a scuola, sicura che i suoi occhi sarebbero stati i tuoi.
E tutto è cominciato con un agente immobiliare che non si è arreso, ed un giovane dirigente di Tribunale che è andato a quell’appuntamento senza alcuna speranza, sol per cortesia.
Sorrido sempre pensando a te, e non sono triste, perché ho avuto un privilegio di vita e di sentimento vero, perché anche tu sei stata mia madre,
Ciao, Angela.
Racconto bellissimo. Complimenti.
Un racconto molto bello e coinvolgente, Complimenti e vedrà che avrà anche la laurea in lettere