Racconto di Rosa Sivi

(Prima pubblicazione)

 

 

Gli scienziati sono ancora impegnati ad individuare l’anello di congiunzione tra la scimmia e l’essere umano, tra due specie incluse entrambe nello stesso regno, quello animale. Che dilettanti! mi sembra una bazzecola rispetto al ben più arduo banco di prova che il mio caso, qualora fosse noto, li sottoporrebbe.
Sì, perché io ero uomo, e ora sono ascensore. Sbalorditivo, vero?
Che sappia io, sono l’unico individuo, o come mi si vuole chiamare, a cui sia capitata una sorte simile. Ma non è detto, non posso escludere che in giro ci siano già altre bizzarrie come me, ascensori ex uomini, o ex donne.
E a questo punto, posso pure pensare che altri oggetti abbiano un passato da umani. Ma non voglio correre troppo, anche perché mi è impossibile. Mi sposto solo in verticale e molto lentamente, visto che mi sono incarnato, o meglio inferrato, in un vecchio ascensore, dentro un palazzo romano, ancora più vecchio di me. Rimaniamo sul mio caso, che non è cosa da poco, mi pare.
Quindi, gli scienziati dovrebbero spiegare come sia stato possibile che da essere vivente, formato da cellule animali, mi sia evoluto, o involuto, in un essere non vivente, formato da freddo materiale inorganico. Voglio ricordare, però, che anche i virus non sono considerati propriamente esseri viventi e mi sembra che non ci siano così estranei. Certo, un ascensore è un’altra cosa, d’accordo. Intanto viene progettato, costruito, non si trova in natura come un virus. Immagino che ce ne vorrà per arrivare ad una spiegazione logica, se mai si arriverà.
In tutti i casi non è compito mio, non sono uno scienziato, ho già i miei problemi da affrontare. E ho tanto tempo per pensare.
Quindi ho un cervello?
Certo che ce l’ho. Ho cervello, occhi, cuore. Ovviamente, sui generis. E siccome ho tanto tempo e un cuore più grande del cervello, va da sé la conclusione logica: mi sono innamorato!
Sempre più sbalorditivo, quasi blasfemo: io, un ammasso di ferri e cavi elettrici, corde penzolanti, rumori noiosi di meccanismi sempre poco oliati, provo le nobili emozioni umane dell’amore.
E che amore, un grande amore, lasciatemelo dire.
Mi commuovo solo a pensarla, la mia Carolina. La porto dentro di me, ogni giorno, almeno due volte. La trasporto con cura, gentilezza, devozione, perché lei è tenera, dolce, sorprendente.
È che, per sua disgrazia, vive con un uomo rude, oltremodo ignorante. Violento. Purtroppo anche violento. Io lo so, vedo le lacrime del mio amore scendere sulle sue guance di tenera e bianca porcellana. Sono lacrime grosse, lente, trasparenti, che sanno di dolore, perché io le bevo le sue lacrime, almeno quelle che toccano il mio pavimento. Mi fanno male al cuore, irrigidiscono il mio grosso cuore ferroso, chiuso nella botola del terrazzo. Tanto male che, poi, dopo averla trasportata piangente e silenziosa, rimango fermo per dei minuti, indifferente ai richiami impazienti dei condomini.
Ma ora basta, ti proteggerò io Carolina, dovesse costarmi la carriera, il resto della mia vita di modesto, vecchio, strambo, ascensore. Meglio finire a pezzi in una discarica che continuare, impotente, a vederti soffrire.
Ma dico io, razza di idiota, omuncolo incravattato, hai la fortuna di viverle accanto, e invece di onorarla e proteggerla, la maltratti?
Ma allora non la meriti. Non meriti nessuna donna.
Non crederti forte, non lo sei, farò qualcosa io per fermarti.
Ho pensato bene, con lentezza certo, ma intensamente, a volte mandando in blocco l’impianto elettrico che mi fa funzionare e dovendo di conseguenza sopportare le manovre irriguardose del giovane tecnico che mi assiste. Farò io qualcosa.
D’accordo, non ho un raggio d’azione vasto, ne’ grandi mezzi comunicativi, ma l’amore trova sempre una strada, un modo per far star bene la persona amata. E la cosa è reciproca. È vero che la pena di Carolina mi fa male, ma è anche vero che la maniera in cui mi guarda, la gentilezza con la quale chiude la mia doppia porta, e pure il suo modo di lasciarsi andare quando è dentro di me, rende dignitosa e preziosa la mia strana vita, che ora ha uno scopo.
Il vigliaccone, fa spesso le scale, mi evita. Tento sempre di soffiargli polvere in faccia quando lo vedo girare intorno la mia cabina. Poche volte l’ho trasportato io, e in quelle rare occasioni avrei voluto accartocciarmi su di lui e stritolarlo senza pietà.
Questo non lo posso fare, ma ho in mente altro. Si presenteranno a breve nuove opportunità d’incontrarlo, l’ho sentito ieri lamentarsi di un dolore fastidioso ad un ginocchio che non vuol passare, per un infortunio durante una partita di calcetto. Si deciderà presto a spingere di nuovo il mio bottone, e a quel punto mi farò trovare pronto, per il mio amore.
Poi tu, cara dolce Carolina, quando tutto sarà finito, ritornerai a sorridere, ne sono certo. Vivrai la vita che ti spetta. Ritornerai a fidarti dell’amore.
Non sarò io a stringerti tra le braccia, ma un uomo che si possa chiamare tale. E poi, non è detto. È quasi primavera e un anno fa, proprio in primavera, è iniziata la mia seconda vita.
Camminavo in un prato. Da piccolo salivo spesso sul tubo di ferro della tremolante altalena dell’asilo. Mi piaceva andare giù di schiena, mentre mi aggrappavo saldamente al ferro. L’inevitabile vertigine mi regalava alla fine un mondo nuovo, un privilegio che credevo solo mio. Improvvisamente, una mattina di un anno fa, mentre calpestavo l’erba, ebbi la medesima vertigine, e il mondo mi apparve capovolto, senza che avessi tentato alcun salto all’indietro. Non provai dolore, solo sgomento perché terra e cielo continuavano ad alternarsi in modo confuso e arbitrario.
Via via che la realtà consueta si spegneva e i colori di foglie, terra e cielo si mescolavano insieme, fino a fondersi in un viola scuro uniforme, avvertivo che gli unici momenti felici della mia vita avevano come sfondo elementi della natura e che gli umani alla fine mi avevano puntualmente deluso, mentre l’aria e l’acqua del mare non mi avevano mai respinto, come accoglienti si erano rivelati sempre i prati caldi di sole e dolce e sorprendente si confermava, di primavera in primavera, il sapore delle fragole.
Mi abbandonai, quindi, senza paura a quell’avvolgente sottosopra, come un neonato si affida alle braccia morbide e sicure della propria madre.
Poi, buio e silenzio, e alla fine di questo sconquasso, dopo un tempo che non so quantificare, mi sono risvegliato nel mio nuovo corpo ingabbiato.
Per quello che ne so, come da un giorno all’altro mi son ritrovato ascensore, potrei ritrovarmi di nuovo uomo.
E se capiterà, se avrò di nuovo questo privilegio, farò di tutto per essere degno di te, Carolina.