Racconto di Neris Casteller

(Seconda pubblicazione)

 

Era il 21 maggio 1938, giorno in cui la mia vita cambiò drasticamente. Mi presentai puntuale al Distretto di Treviso, rassegnato a compiere il mio dovere – ci avevano detto che era un onore combattere per la Patria -, a salire sul quel treno diretto a Feltre. Mio fratello però non ne voleva sapere di partire, s’era nascosto nella speranza di farla franca, ma fu inutile. Lui s’imbarcò per la Russia e non lo rivedemmo più.

Sarebbe stato il mio primo viaggio in treno, il primo dei miei vent’anni, un viaggio che avrebbe cancellato drasticamente la mia giovinezza. Non avevo mai lasciato il mio paese di campagna per andare così lontano e non sapevo ancora bene cosa significasse sacrificio e dolore, paura e disperazione. Stringevo in un pugno la sacca cucita da mia madre contenente le poche cose che mi appartenevano: i documenti, qualche foto della famiglia e di Noemi, il rosario tra le pagine di un libricino di preghiere.

Eravamo in tanti, tutti ragazzi più o meno coetanei, provenienti dai paesi vicini. Si scherzava tra di noi come se stessimo vivendo una specie d’avventura, con l’entusiasmo e l’ingenuità tipici della giovane età che fa affrontare ogni cosa con spirito leggero. Improvvisamente il battito del cuore cominciò a farsi veloce al rumore sempre più assordante del treno che stava avanzando; cercavo tra la gente il volto dei miei cari per un abbraccio e l’ultimo bacio prima di partire. Mia madre non mi aveva accompagnato, mi aveva detto addio sul cortile di casa, stringendomi a sé con gli occhi velati di dolore, senza pronunciare parola o lamento.

«Non sono riuscito a salutare l’Agnese. Me l’aveva promesso che sarebbe venuta ma non l’ho vista» mi disse il mio amico Angelo. Era agitato, guardava fuori dal finestrino nella speranza di scorgerla.

«Di sicuro non se l’è sentita di lasciare la madre così ammalata a casa da sola. Ma vedrai, il tempo passa veloce, vi rivedrete presto…» risposi cercando di consolarlo.

«No, sono sicuro che non tornerò» disse girandosi verso di me e guardandomi con tristezza. Non riuscii a dire nulla, mi aveva preso alla sprovvista, io il pensiero di non tornare non l’avevo mai avuto. C’è chi dice che certe cose che devono accadere si sentono e purtroppo per lui fu proprio così, quel presentimento lo aveva accompagnato fin dalla chiamata alle armi.

Avrei voluto arruolarmi come bersagliere, mi piacevano tutte quelle piume svolazzanti sul cappello e poi ero un patito della bicicletta. Ma si sa che non sempre tutto ciò che si desidera si realizza e il mio destino sarebbe stato quello di diventare un alpino, sul cappello avrei avuto soltanto una lunga penna nera.

Non ci volle tanto tempo per scoprire cosa potesse significare essere un alpino: gambe spezzate e piedi sanguinanti mentre si saliva verso le cime innevate, mani piagate che tiravano le corde dei muli trascinando le bombe per i sentieri, pioggia e freddo che penetravano fino alle ossa. La montagna era diventata la nostra casa. Dura e implacabile, ci piegava al suo volere; maestosa e incantevole con le sue notti stellate, le sue albe e i tramonti che per un attimo ci davano l’illusione – quando taceva l’artiglieria – che la guerra non esistesse. Il mantello e il cappello erano il nostro unico riparo dalle intemperie, ma quella penna nera di corvo appuntata sui nostri copricapi sgualciti non si spezzava mai, era diventata un simbolo a cui aggrapparsi. Ci spronava a resistere, ad andare avanti con coraggio, a stare uniti.

Un fronte dopo l’altro, un calvario infinito fatto di giorni trascorsi ad aspettare il colpo fatale che ti avrebbe spezzato il cuore. Notti trascorse a scrivere lunghe lettere che probabilmente non sarebbero mai arrivate a destinazione, a leggere quelle tanto attese, con un groppo in gola. Lacrime versate di nascosto dentro al proprio giaciglio.

Battaglie vinte, battaglie perse. Ci incitavano ad attaccare il nemico, ma noi di nemici avevamo solo il freddo, la fame e i pidocchi.

Sul fronte greco-albanese pensai che era arrivata la mia ora. Fu una carneficina.

«Dobbiamo resistere fino alla morte!» gridava in continuazione il tenente dopo che il battaglione fu circondato. Non avevamo neppure la forza di disperarci, di piangere, di pensare. Eravamo braccati, senza via scampo, votati al sacrificio. Il terrore lo tenevamo rinchiuso dentro ai nostri occhi.

«Non sento più il piede. Mi si è congelato… è finita» dissi al mio compagno gettandomi a terra. Mi levò lo scarpone e sfregandomi freneticamente il piede mi incoraggiò a rialzarmi. Mi prese per un braccio trascinandomi per un po’ fino a quando cominciai a correre senza curarmi del piede che era un pezzo di ghiaccio. Tutt’intorno c’erano i corpi caduti sotto i colpi dei fucili e pensai che la stessa sorte sarebbe toccata inevitabilmente pure a noi. Avrei dovuto rubare uno scarpone ad uno di quei ragazzi morti se volevo sperare di farcela; sentii una stretta allo stomaco mentre lo stavo sfilando al primo cadavere che vidi lì vicino, sembrava che mi stesse chiedendo di aiutarlo, ma io non potevo fare più nulla per lui. Ebbi un conato di vomito. Non era dei nostri ma che importava, era solo un giovane come me al quale erano stati rubati sogni e speranze.

«Salvatevi!» gridò il tenente incitandoci a fuggire. Corremmo senza più vedere niente, senza sentire le bombe esplodere ad un passo da noi e il sibilo dei proiettili. Io e il mio amico eravamo insieme, pronti a soccorrerci al bisogno, come due fratelli.

«Ecco, eravamo tutti fratelli, per questo ce l’ho fatta a sopravvivere in quell’inferno» sospira mio padre interrompendo il suo racconto, «la guerra è una gran brutta faccenda…»  Appoggia sul tavolino un foglietto riempito di frasi indecifrabili: sono episodi, dettagli e stati d’animo che continuano a venire a galla.

Dentro al cassetto ci sono altri fogli, di tutte le dimensioni, scritti fitti fitti. Sono pezzi di un puzzle che forse non riuscirà mai a terminare.

Sta seduto sulla sua poltrona di velluto verde con una copertina in pile posata sulle gambe indebolite; si aggiusta gli occhiali che gli scivolano sul naso e mi guarda con i suoi occhi chiari, intensi, che riescono sempre a trasmettere le emozioni che prova.  Da un po’ i ricordi custoditi per tanto tempo nel profondo hanno bisogno di parole e quelle ferite che lo hanno cambiato, scolpito intimamente, le deve condividere perché possano rimanere cicatrici che fanno meno male. Ferite che si possono trasformare in semi di pace.

«Dio creò l’alpino, lo gettò sulla montagna e gli disse “Arrangiati!”» recita serio corrugando la fronte spaziosa. Una verità semplice che ora ama ripetere spesso, che riassume in una breve frase tutto il suo vissuto durante quei sei lunghissimi anni in prima linea, trascorsi a guardare ogni giorno la morte in faccia. Arrangiati! È proprio la parola giusta, perfetta, anche se gli viene difficile credere a un Dio che abbia creato l’uomo per mandarlo al macello.

«È stata dura, vero papà?» gli chiedo.

«Molto, una volta mi sono buttato sotto le bombe che cadevano a pioggia… volevo morire. Mi ha salvato il soldato che stava al mio fianco. E già, è stato quel legame profondo che si era creato tra di noi che mi ha aiutato a resistere, dovevamo prenderci cura gli uni degli altri. Poi volevo tornare dai miei cari, dalla mia fidanzata» risponde mentre stringe tra le mani il suo vecchio cappello che tante volte con orgoglio ancora indossa.

«Mi piace ascoltarti papà, mi sembra di ritornare bambina. Ti ricordi quante storie mi raccontavi? Ora però sei stanco, riposati.»

Annuisce, ma non è facile fermare il fiume di pensieri che gli invade la mente.

«Sai perché è speciale un alpino? Perché il suo spirito è forte come la roccia, perché come il fiore che spunta tra le aspre cime ha un cuore tenero e generoso… perché ama la vita» dice con la voce che trema. Quando l’emozione diventa forte traspare la sua anima sensibile, da poeta.

Si alza con fatica sotto il peso dei cent’anni, si aggrappa al deambulatore e avanza curvo. Non chiede aiuto, caparbio affronta la sua montagna, l’ultima. Lui è un alpino.

 

A mio padre e contro la follia della guerra.

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