Racconto di Giovanni Boncristiani

(Decima pubblicazione)

 

Sono un abitudinario, la solitudine ha fatto di me una persona che riesce a vivere solamente pianificando tutto, qualsivoglia aspetto della mia vita deve essere scadenzato e ponderato a priori, ciò mi rassicura ed è il solo modo in cui riesco a sentirmi sereno e al sicuro.

Quella mattina, come altre, mi sono alzato di buon’ora, ho bevuto il caffè preparato con la macchinetta predisposta la sera prima, la solita fetta di torta, qualche minuto in bagno, denti e via, fuori per andare al lavoro. Negli anni mi sono convinto, o meglio assuefatto, all’idea di dover restare solo per tutta l’esistenza, in fondo mi sono abituato a quel pensiero e ciò non mi sembra poi tanto male.

Quella mattina, però, durante il tragitto oramai collaudato, vidi in lontananza, sul mio stesso lato della strada una figura di donna. Mi dissi che la cosa non doveva importarmi, però, mano a mano che la donna si avvicinava qualcosa dentro di me accadeva. Ad ogni metro la figura della donna si delineava sempre più ed io non riuscivo a togliere lo sguardo dalle eccitanti forme della ragazza che, facilmente, si intuivano sotto il minuto abito di colore rosso fuoco che indossava.

In breve tempo fui vicino a lei e, inaspettatamente, la ragazza si fermò davanti a me, di fatto bloccandomi.

Restai immobile come una statua, con la cartella in mano che stringevo con enorme forza, nonostante cercassi di restare calmo il cuore mi batteva a più non posso. La ragazza si avvicinò, si alzò sulle punte e, con le braccia leggermente all’indietro per bilanciare il peso del corpo che propendeva verso di me, mi diede un piccolo bacio sulla guancia.

Credetti di morire e, per un attimo, pensai persino di sognare.

Mentre cercavo di capire cosa mi stesse realmente accadendo la ragazza rapidamente si allontanò e, quasi correndo, scomparve dietro l’angolo.

Cercai con la mano tremante il fazzoletto nella tasca della giacca per asciugarmi il sudore che scendeva copioso dalla fronte e vi trovai, inaspettatamente, anche un pezzetto di carta. Subito realizzai che dovesse essere stata la ragazza ad avercelo messo, sapevo sempre cosa avessi nelle tasche.

Inforcai gli occhiali e lessi su quel frammento di tovagliolino stropicciato cosa c’era scritto. Era una piccola scritta realizzata con del rossetto: “Eva…”. Notai anche, su un angolo, il logo di un noto bar della zona, il Millibar…

Ripresomi dallo shock, mi diressi rapidamente verso l’angolo della strada dove era scomparsa la donna, ma mi accorsi con sconforto che quegli istanti di attesa erano stati fatali e di lei più nulla.

In un attimo di lucidità, quella lucidità che mi aveva sempre contraddistinto, decisi che al termine del lavoro mi sarei recato al bar, quello del biglietto. Mi sentivo sicuro che in quel luogo avrei trovato qualche risposta ai numerosi dubbi che mi assalivano e mi facevano star male. Io che ero sempre riuscito a governare qualsivoglia situazione, anche la più difficile e scabrosa, adesso mi sentivo inerme e intontito e ciò mi dava tremendamente fastidio.

Al lavoro non pensai ad altro che non fosse ciò che mi era capitato e, terminato l’orario di servizio, uscii rapidamente per recarmi al locale. Durante il tragitto, provai inconsciamente un senso di felicità nel pensare che di lì a poco avrei respirato la stessa aria che Lei aveva respirato, magari solo qualche ora prima. Mi sarei forse seduto sulla stessa sedia dove Lei era stata, avrei addirittura potuto chiedere a qualcuno se la conosceva.

Arrivato dinanzi al locale mi soffermai un attimo, stavo per desistere ma ciò avrebbe voluto dire rinunciare a tutto per sempre.

Mi fece forza, inalai un enorme quantità di aria ed entrai.

Il locale era intriso di un denso fumo, la musica assordate; luci accecanti sparate su pareti e soffitto da un infernale marchingegno si rincorrevano veloci. Nonostante ciò subito la scorsi, era bellissima, ancor di più di quanto ricordassi.

Restai a fissarla per istanti, forse minuti, registravo nella mente ogni suo minimo movimento, quelle immagini mi riempivano di piacere e fantasie. Ad un tratto mi accorsi di essere stato notato dalla ragazza, questo per un attimo mi preoccupò. Eva ruotò il capo e tornò a parlare con i suoi amici, poi rivolse nuovamente lo sguardo verso di me, disse qualcosa alle persone in cui era come immersa, si congedò da loro e rapidamente, scansando arredi, persone e persino i forti suoni, si diresse rapidamente verso di me.

Eravamo vicinissimi, la forte musica ci costringeva a comunicare quasi infilando una la bocca nelle orecchie dell’altro e viceversa.

“Ciao” disse Lei.

“Come ti chiami?”

“Frank” risposi, scandendo bene le sillabe come si fa quando ce lo chiedono in un qualche ufficio.

“Vieni a conoscere i miei amici” mi urlò la ragazza.

Subito, senza aspettare una risposta, mi prese per mano e, quasi tirandomi come fossi un aquilone, mi guidò sino al capannello dei suoi amici.

Ero confuso e non riuscivo ad immaginare cosa mi stesse per accadere, ma ero fermamente fiducioso in qualcosa di piacevole, in fondo avevo ritrovato ciò che oramai era il mio unico scopo della vita, e che in qualche modo era riuscito a colorare quella mia grigia esistenza.

In breve mi trovai in mezzo ad un gruppo numeroso di ragazze e ragazzi, al mio arrivo tutti calati in una sorta di silenzio premonitore.

A quel punto la ragazza, alzando le braccia al cielo, urlò felice di gioia ed anche leggermente ebbra: “ci sono riuscita, l’ho portato, eccolo lo “strano”…, ho vinto!”

Solo allora capii.

Era stato oggetto di un gioco, un terribile gioco!

Mi sentivo come se mi avessero dato un pugno nello stomaco, stavo come per affogare. La testa mi girava e tutto intorno a me era confuso, la ragazza, le luci, i rumori; avevo un impellente bisogno di aria, aria fresca. Presi quasi a correre per uscire dal locale cercando di scansare le persone, mi sembrava che tutti ridessero di me. Stavo barcollando e l’uscita sembrava non arrivare mai. Sentivo le pulsazioni aumentare a dismisura. Finalmente, sudato, distrutto nel fisico e nella mente arrivai alla porta, l’aprii ed uscii. Pochi passi sulle gambe che si stavano afflosciando e crollai.

Da lì il buio.

Mi sembrava di cadere con la schiena rivolta verso il basso e con le braccia e le gambe aperte, muovevo tutti gli arti librandoli ora verso il basso ora verso l’alto alla ricerca di inesistenti appigli, la testa oscillava, era come se galleggiasse nell’aria. Stavo cadendo in qualcosa simile ad un pozzo senza fine, una cavità senza pareti, era indubbiamente una sensazione strana, persino divertente ancorché incomprensibile.

Ad un tratto mi trovai magicamente in piedi, ancora avvolto dal buio e dal silenzio, in lontananza un luce piccolissima ma forte e rassicurante.

Finalmente riuscì a muovermi e mi diressi verso quel puntino luminoso che oramai era la mia meta, ero attratto da quel bagliore come lo sono le api dai fiori più colorati e profumati, continuavo ad essere avvolto nell’oscurità e nel silenzio più assoluto, silenzio interrotto solamente, dopo un tempo imprecisato, da un flebile…

bip…bip…bip…

Aprii gli occhi.

La prima sensazione che provai fu quella di una grande pace interiore, poi riconobbi la luce, quel bagliore inizialmente fastidioso divenne gradualmente un amico cui è impossibile farne a meno.

Fui colpito dal candore delle pareti e dall’assenza quasi totale di suoni o rumori, un forte chiarore proveniente dalla finestra sulla mia sinistra mi indispettiva.

Rimasi come dentro un corpo non mio per alcuni momenti, poi mi apparve, al pari di una visione, un volto pallido di donna, i capelli lunghi biondi quasi bianchi, le labbra rosse che si muovevano senza apparentemente emettere alcun suono, l’abito della donna, candido, si confondeva con le pareti.

Il respiro prese consistenza e cadenza regolare, quel volto, oramai divenuto amico per necessità, si ripresentò e la solita bocca, muovendosi, stavolta diffondeva suoni inizialmente indecifrabili poi riconoscibili come tenui parole.

“Quale è il suo nome? … si ricorda come si chiama signore?” disse la donna dolce nel modo e lentamente.

A me quella domanda sembrava senza senso, addirittura sciocca, decisi comunque di rispondere anche per rispetto e per come ero stato abituato a fare sin da piccolo.

“Frank” dissi con estrema fatica, “mi chiamo Frank” ripetei per paura di non essere stato compreso.

“Bene” disse la donna, “e …, sa dove si trova?” continuò quasi incalzandomi benevolmente.

Questa domanda sembrava già più sensata dell’altra, “è vero!” Mi dissi mentalmente, dove sono? E poi cosa ci faccio in questo letto che non è il mio e per di più in compagnia di una persona che non conosco.

“No! Sinceramente non lo so.”

Una pausa, poi domandai un po’ spaesato: “dove sono?”

”È in una clinica” disse la donna abbozzando un sorriso di convenienza, giusto per far sembrare la situazione quasi normale e comunque tale da non farmi preoccupare più di tanto.

“E da quanto tempo?” chiesi tra l’imbronciato e l’incuriosito “da quanto tempo sono qui?”.

“Proprio domani sono sei settimane.” rispose l’infermiera.

Avrei dovuto esserne stupito ma stranamente non lo ero. Restai pensieroso e in silenzio per alcuni lunghi secondi, poi: “Cosa è accaduto?” chiesi a quella che oramai aveva assunto, ai miei occhi, le sembianze certe di una infermiera.

“Siamo venuti a prenderla era sul marciapiedi, era a terra svenuto, deve ringraziare una ragazza, una giovane ragazza che ci ha chiamati, la ricorda?”

“Sì, certo… boh! Forse!” dissi, dando la cosa per scontata anche se non lo era.

“E’ stato veramente fortunato, bastavano ancora pochi minuti e non ci sarebbe stato niente da fare.” continuò l’infermiera “sarebbe morto, capisce.”.

Capii e i lievi movimenti della testa in su e giù fecero capire all’infermiera che il messaggio era stato perfettamente recepito.

Mi sentii svuotato e triste, non mi piaceva farmi vedere così, neppure da quella persona che in fondo era una estranea e sinceramente la cosa mi seccava molto; in breve con questo stato d’animo mi addormentai probabilmente anche per effetto dei farmaci assunti.

Era ancora mattino presto e il sole iniziava ad illuminare le mai stanza quando l’infermiera apparve nuovamente accanto a me.

“Come si chiama quello?” chiesi indicando con gli occhi il davanzale della finestra, “un fiore” rispose l’infermiera “è un bel fiore dentro un vaso” precisò la donna.

Non ero stato capito, intendevo che tipo di fiore, ma non me la sentii di precisare e lasciai perdere.

“E tu come ti chiami?” continuai.

“Perché lo vuoi sapere?” Replicò la donna, mentre rovistava tra le molte medicine nel cestello alla ricerca di quella giusta da darmi, inspiegabilmente contenta della domanda.

“Non lo so, … così” confessai.

“Mi chiamo Lucyna”.

“Lucyna! Non è un nome delle nostre parti…”

“Infatti sono di Praga, i miei sono emigrati quando ero ancora piccola. Ma tu adesso devi riposare, prendi queste compresse e vedrai che domani, quando sarò di turno e verrò a trovarti, starai meglio”.

Soddisfatto della conversazione con l’infermiera annuii, anche se avrei voluto confidarle che conoscevo quella città ma preferii non farlo. Chiusi ambedue gli occhi sforzandomi di dormire, chiedendo a quella sorta di angelo biondo di lasciarmi solo, solo con i miei pensieri.

Rimasi ancora diverse settimane in ospedale per una lunga riabilitazione, fisica e mentale.

Realizzai con molta fatica e dolore che tutto quello che mi era capitato erano stati solo incubi e sogni generati da e nella mia mente, evidentemente malata. Era stato tutto frutto della mia fantasia, tutto immaginato, chissà, forse, era quello che avrei voluto vivere davvero, pensai…

Fui poi dimesso e potetti tornare a casa, la mia casa, il mio rifugio per anni; mi era stato persino concesso, o meglio consigliato di riprendere subito il lavoro, il ritorno alla normalità mi avrebbe aiutato a superare il trauma subito.

Poi una mattina, come altre, mi alzai di buon’ora, bevvi il caffè preparato con la macchinetta predisposta la sera prima; la solita fatta di torta, qualche minuto in bagno, denti e via, fuori per andare al lavoro.

La mia convinzione o meglio l’assuefazione all’idea di dover restare solo per tutta la mia esistenza si era rafforzata dall’esperienza virtuale vissuta.

Quella mattina durante il tragitto vidi in lontananza, sul mio stesso lato della strada, una figura di donna, mi parve, o meglio, speravo di riconoscerla.

Mano a mano che la donna si avvicinava qualcosa dentro di me accadeva, ad ogni metro la figura della donna si delineava sempre di più e io non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso, inutile negarlo, mi ricordava Eva, o forse era proprio lei!

Le forme della ragazza attiravano magneticamente il mio sguardo, e poi l’abito, quel vestitino di colore rosso fuoco che indossava mi faceva impazzire.

In breve tempo fummo vicinissimi ed io per un attimo credetti che si stesse realizzando ciò che avevo già vissuto in un altro mondo, in una non realtà immaginaria.

La donna mi passò a fianco ed io la colpii leggermente, forse non per caso, con la spalla.

“Guarda dove vai!” disse la ragazza seccata, “ma guarda che tipi ci sono in giro”.

Stringendo la mia cartella nella mano destra, proseguii facendo finta di nulla, camminando come sempre facevo con grandi passi. Dovetti però intimare a me stesso di non voltarmi come invece mi sarebbe enormemente piaciuto, forse nell’inutile speranza che ancora qualcosa di impossibile sarebbe potuto accadere.


Camminò e camminò ancora… il sole iniziava a scomparire e lui stava dissolvendosi all’orizzonte sopraffatto dalla luce della sfera infuocata con in mente un unico pensiero “solo, resterò per sempre solo”.

In quell’istante una lacrima gli carezzò il volto.