Racconto di Elisabetta Tocchetti

(Prima pubblicazione)

 

«Sì, Rossella, ho deciso di uscire a cena con Simone. E poi, dopo cena, lo inviterò a casa. È tanto tempo che non invito qualcuno, non sei contenta? Siamo sempre sole, questa casa è così vuota.»

Grandioso, penso, Arianna mi sta invitando a bere qualcosa da lei. Non era scontato, in fondo è la nostra prima uscita. Mi pare un buon segno. Parcheggio, la seguo oltre un cancello che si apre mostrando un cortile piastrellato con una fontana al centro. Non sento alcun rumore, nessun mormorio d’acqua, solo silenzio nel silenzio. Una fontana asciutta, sembra finta.

Ma che m’importa della fontana, sono qui con Arianna, la nuova collega dello studio È bellissima. Tutti quanti l’hanno invitata fuori a cena – so che l’hanno fatto – e lei è uscita con me. Le piaccio, è ovvio.

Armeggia con la chiave, apre la porta e mi fa entrare in casa. Sto ancora pensando a quanto sia bella, bellissima, mi sento quasi ipnotizzato, il suo profumo mi è entrato in circolo, è inebriante e sensuale, da capogiro. L’interruttore scatta e una serie di applique di ottone e ferro battuto illumina l’atrio, poi Arianna mi fa strada nel salotto, dove un tappeto persiano copre buona parte del pavimento. Le pareti sono tappezzate con carta da parati a fiorellini, i mobili di legno scuro – mogano? noce? – sono lucidi di cera d’api, il cui profumo persistente si mischia a qualcos’altro. Da un vaso al centro di un tavolino basso, gardenie e giacinti recisi diffondono una fragranza che, dopo qualche minuto, mi dà un leggero senso di nausea.

– Ti piace? chiede Arianna, e io rispondo di sì, certo che mi piace, cioè no, penso, è un salotto claustrofobico e opulento, con un camino di marmo, tende di seta e velluto, poltrone e tavolini di legno intarsiato con finiture dorate, fotografie appese in cornici d’argento e bambole, decine di bambole di ogni foggia e dimensione, sedute, come soprammobili, su mensole e ripiani, sulla credenza, sui davanzali delle finestre a bovindo, sulle poltrone e sul divano di velluto color porpora. Per un attimo mi sento disorientato.

-Ti offro qualcosa da bere? – chiede Arianna. La seguo in una cucina dai toni pastello, con una grande cappa sopra i fornelli e pentole di rame appese ai muri. Al centro del tavolo, un cesto di frutta talmente lustra e perfetta da sembrare di plastica. Tutto è pulito e ordinato, le piastrelle sono lucidate a specchio, il lavello non ha nemmeno un segno, un alone, una goccia, sembra nuovo. Con un senso di vertigine, cerco di ignorare un malessere che non mi spiego.

Mi concentro su Arianna. Che cosa m’importa di questa cucina irreale dove sembra non aver mai cucinato nessuno? Sono qui con una ragazza stupenda, abbiamo cenato in un ristorante romantico, e lei mi ha guardato – mi sta ancora guardando – con quegli occhi che brillano, e promettono, e già mi sembra che la serata stia per svoltare.

Arianna prende una lattina di birra dal frigorifero, la appoggia sul tavolo di marmo insieme a un bicchiere.  -Tu non bevi? – le chiedo, e lei dice no, non mi piace la birra.  – Perché hai della birra nel frigorifero, se non ti piace?  – È solo per gli ospiti, dice.

Apro la lattina, verso la birra fresca, attendo che la schiuma scenda un po’ prima di assaggiarla. Sposto una seggiola e mi siedo, sperando che lo faccia anche lei, ma Arianna resta in piedi e, quando sollevo il bicchiere, asciuga con una spugnetta il cerchio di condensa rimasto sul marmo. Adesso ho paura a riappoggiare il bicchiere e lo tengo in mano, lo muovo in circolo, faccio ruotare la birra come fosse brandy. Forse dovrei dire qualcosa, questo silenzio mi schiaccia, mi soffoca.

È lei a interromperlo. Vieni, dice, ti mostro la casa. Mi alzo e la seguo. Sollievo. Va tutto bene, pur di non restare in questa cucina a bere da solo mentre lei mi guarda. Ho ancora in mano il bicchiere.

«Non essere gelosa, Rossella, lo sai che ti voglio bene. Te ne vorrò sempre, anche se esco a cena con Simone e ti lascio sola a casa. Lo sai che dopo ritorno. Ritorno sempre da te. Come potrei abbandonare la mia sorellina?»

Questa casa l’abbiamo progettata insieme, Rossella e io, dice Arianna. – Chi è Rossella? chiedo, poi mi accorgo che le fotografie appese in salotto sono ritratti di due bambine identiche, bellissime, con i boccoli biondi e gli stessi occhi blu di Arianna.  – È mia sorella, risponde Arianna. – Ah, non sapevo avessi una sorella, dico. – A dire il vero, non so quasi niente di lei, a parte che è una donna stupenda, con quei capelli biondi sempre perfetti, il trucco impeccabile, i tacchi alti, le gambe lunghe e abbronzate, e quel profumo ipnotico e provocante che rimbecillisce chiunque.

Profumo. Eccolo di nuovo, il profumo. No, non quello di Arianna. Sono i fiori. Qui, in salotto, respiro di nuovo questo odore dolciastro, che aleggia, persiste. Tuffo il naso nel bicchiere e respiro birra per cancellarlo, almeno un po’. Cera d’api, gardenie e giacinti. Bevo, per non fare caso agli occhi di tutte quelle bambole che mi guardano. Sono ovunque, sul tavolino basso e rotondo, sulla ribaltina, sul ripiano dell’angoliera, sulla credenza, sotto lo specchio antico. Occhi fissi su di me, facce di porcellana e di plastica che sembrano muoversi, ma non è possibile, sono immobili, sono finte, sono bambole. Solo bambole.

-Questa era la casa dei nonni, dice Arianna, l’abbiamo ristrutturata perché volevamo andare a vivere da sole. – Ah, dunque vivi qui con tua sorella? chiedo, e Arianna risponde – Sì, certo, è Rossella che si è occupata del progetto, perché volevamo una casa simile a quella, e con un cenno mi indica un angolo del salotto. Bevo un sorso di birra e seguo il suo sguardo. Sopra un tavolino a tre gambe c’è una casa di bambole, un cimelio che avrà almeno cent’anni. Ipnotizzato, ammiro le stanze minuscole, gli arredi in scala, i pizzi, i velluti, le finiture perfette che riproducono una casa vittoriana fin nei più piccoli dettagli. – Vedi? dice Arianna, questa è la casa delle bambole della mia bisnonna. Mia sorella ed io ne eravamo innamorate, da bambine. Mi avvicino, guardo meglio. Un oggetto d’antiquariato, in ottime condizioni, roba da collezionisti. Rabbrividisco nel vedere la riproduzione in miniatura del salotto in cui mi trovo.

Finisco la birra, la tracanno in un unico sorso, a occhi chiusi, la sento arrivare nello stomaco come una secchiata. Apro gli occhi e sono ancora qui, in questo salotto che sa di fiori e di cera d’api, e ho freddo, e ho caldo, e avrei bisogno del bagno – accidenti alla birra – e che cosa sto facendo? Vorrei appoggiare il bicchiere vuoto, ma dove? Ovunque ci sono bambole e superfici lucide, intonse, incontaminate, non oso nemmeno avvicinarmi. Mi gira un po’ la testa. O sono le bambole che mi girano intorno?

Inciampo nel tappeto, Arianna mi prende il bicchiere dalle mani, lo porta in cucina, poi ritorna e mi accompagna a vedere il resto della casa. Sto cominciando a sudare. Mentre la vista si appanna, mi sforzo di seguire Arianna che dice: -Ecco, lì in quella vetrinetta ci sono le tazze dei nostri viaggi. A Rossella piace collezionare le tazze. Collezioniamo tazze e bambole. Ti piacciono le bambole?

Non so che cosa rispondere. Fino a poco fa, quando lei mi ha chiesto di entrare, ero sicuro di sapere tutto. Le mosse le conosco, so come funziona. Avevo un obiettivo ma, adesso, l’ho quasi dimenticato e non capisco più niente. Sarà colpa dei fiori, di questo profumo insistente, della birra, di tutte queste bambole che non smettono di guardarmi.

Devo pensare ad altro, e mi soffermo sulle fotografie appese alle pareti. Piccole, grandi, primi piani, figure intere, Arianna e Rossella, Rossella e Arianna. Si somigliano. Sembrano felici, sorridono sempre. – Quanti anni avete qui? chiedo. – Non ricordo, dice, saliamo? Facciamo piano, però, che Rossella dorme. Forse è meglio che vada, dico, è tardi. Ma Arianna non ascolta e mi guida verso le scale. Sulle pareti che fiancheggiano le scale, un’altra fila di fotografie appese. Arianna e Rossella, Rossella e Arianna. Sono dappertutto, anche sul ballatoio del primo piano, dove si affacciano porte laccate con le maniglie in ottone che brillano alla luce delle applique.

«Ho mostrato la casa delle bambole a Simone. Ha detto che è molto bella, Rossella, e anche casa nostra gli piace. Sono così felice di passare del tempo con lui. Sento che mi capisce, che è l’uomo giusto per me.»

-Per il bagno abbiamo voluto pezzi originali, dice Arianna, – vieni a vedere. Spalanca una porta, mi affaccio. La vasca da bagno poggia su quattro zampe di leone dorate, uno specchio antico sovrasta il lavandino. Uscendo dal bagno passiamo davanti a una porta socchiusa. Dallo spiraglio vedo di sfuggita una stanza avvolta in una luce tenue, il bordo di un letto, un comò affollato di bambole. Arianna segue il mio sguardo, il suo viso si contrae in una smorfia, mi allontana con un gesto della mano e chiude la porta.

-E tu dove dormi? chiedo. – Vieni, ti faccio vedere, e spalanca un’altra porta. Ci sono bambole ovunque, sul letto, sulle due poltrone di legno intarsiato, sulla cassettiera, sul comò. Bambole di ogni dimensione, visi di porcellana dipinta, di plastica con gli occhi mobili, abiti a balze, fiocchi e nastri nei capelli, volti bellissimi e perfetti, gli sguardi fissi nel vuoto, aperti su un mondo cristallizzato, congelato, immobile. Aperti su di me. Mi stanno guardando, tutte. Ho i loro occhi addosso, sguardi gelidi che mi arrivano nelle ossa. L’aria nella stanza è satura dello stesso profumo che mi stordiva in salotto. Anche qui, sul cassettone, c’è un vaso di gardenie e giacinti che quasi sparisce soffocato dalle bambole.

«Hai lasciato di nuovo la porta aperta, Rossella? Lo sai che non voglio. Dormi, hai bisogno delle tue ore di sonno, lo sai che i bambini devono dormire almeno otto ore per notte? Dormi e non uscire dalla tua camera. Prometti che non uscirai.»

Il letto è una nuvola di pizzo e di seta, con un baldacchino avvolto in drappeggi di damasco. – Non è bellissimo, qui? chiede Arianna, e io muoio dalla voglia di chiederle come diavolo riesca a dormire in questa camera, in questa casa, come ci riesca sua sorella, entrambe immerse in questo esercito di bambole, in questo mausoleo che sa di fiori marci, di cimitero, di morte. Ma no, non ho il coraggio di chiederlo. Volevo buttarla su quel letto, e toglierle i vestiti, e scoparla, cazzo, perché è per questo che sono qui, è per questo che mi ha invitato a entrare, che mi ha offerto da bere, lo sappiamo entrambi, e pensavo che lo volesse anche lei, ma adesso non posso più, non ci riesco, non qui, non in questo letto, non con sua sorella che dorme nella stanza accanto e potrebbe svegliarsi e

Ho la vista annebbiata, la birra non mi ha fatto bene. – Posso usare il bagno? chiedo. Mi chiudo a chiave, lo specchio mi restituisce una faccia che non sembra più la mia. Mi avvicino al water, ma ho quasi paura a toccarlo. In quel wc che brilla ci si potrebbe mangiare, va solo guardato, non è fatto per altro. Finto, come il resto di questa casa, la riproduzione perfetta di una vita mai vissuta, qui non c’è niente di vero, sono prigioniero di un incubo. Ne uscirò mai?

«Continua a dormire, Rossella. Simone non si fermerà molto. Beviamo qualcosa e poi se ne andrà. È solo il primo appuntamento. Te lo farò conoscere presto, non preoccuparti. Vedrai che ti piacerà. Ma guai a te se cercherai di intrometterti fra noi due. Simone è solo mio, ricordatelo.»

Devo andarmene, mi manca l’aria. Affretto il passo, mi sembra di annaspare, ho i piedi ancorati al pavimento e vorrei correre, ma non ce la faccio. Lo so che non devo, lo so che non devo, lo so, ma lo faccio, non resisto, prima di scendere al piano di sotto apro la porta che Arianna ha chiuso poco fa. La camera di Rossella. Il cassettone pieno di bambole è quello che avevo intravisto, il profumo di fiori e di cera d’api è più forte che mai. Sul comodino, l’abat-jour diffonde una luce tenue che illumina la carta da parati a fiorellini, l’armadio a due ante, uno specchio appeso e una bambola seduta al centro di un letto vuoto.