Articolo di Liliana Vastano

 

Come spesso capita a quelli che amano la lettura, cercando un libro se ne trova un altro e se il libro è uno di quelli un po’ particolari che ha lasciato il segno, spesso si rilegge. E’ andata così anche a me tant’è che, qualche tempo fa, mi sono immersa nella rilettura del romanzo di Gesualdo Bufalino “Diceria dell’untore,” un romanzo difficile, pubblicato nel 1981. Bufalino, coltissimo professore di liceo e amico di Leonardo Sciascia, frequentava il salotto letterario di Elvira Sellerio, grande donna dall’infallibile fiuto letterario. Quest’ultima intuì le sue enormi potenzialità e lo convinse a pubblicare la Diceria che era in cantiere da una ventina d’anni. La storia si svolge nel 1946 in un sanatorio palermitano dove si ritrovano alcuni reduci di guerra malati di tubercolosi quasi tutti destinati alla morte. Sono “vivi per caso” che si sforzano di creare piccole parentesi di vita normale dimenticando per un attimo il destino che incombe. Il sanatorio ha anche una sezione femminile con ricoverate nelle stesse condizioni. Nascono così storie d’amore clandestine e per questo eccitanti che devono fare, comunque, i conti con un destino crudele sempre in agguato. Proprio una storia d’amore tra il protagonista (io narrante ) e Marta, un tempo apprezzata ballerina, ora diafana creatura, attraversa gran parte del romanzo . La morte aleggia su tutto ma l’ironia su di essa e su tutto quel che la malattia comporta alleggerisce e rende piacevole la lettura. Lo stile è ricercato, sontuoso, “barocco” come alcuni lo definiscono, ricco di vocaboli desueti inseriti qui e là in una scrittura che è un cesello. Quando il romanzo fu dato alle stampe, incontrò unanime consenso di pubblico e critica e vinse il Campiello di quell’anno proprio per essere un unicum rispetto ai modelli letterari correnti. Non vi dico altro, magari qualcuno vorrà leggerlo e, se lo farà con lo spirito giusto, sicuramente lo apprezzerà.