Racconto Di   Virginia Tedeschi-Treves (Cordelia)

 

I.

Il dottor Guido Sormani diede un’occhiata all’orologio e fece il gesto d’alzarsi.

La signora Carlotta Ivaldi gli pose la mano sul braccio e gli disse con uno sguardo supplichevole:

— Non mi lasci, dottore, non mi abbandoni con questa inquietudine nell’anima, mi conceda tutto il tempo di cui può disporre, l’accetterò come un dono.

— Devo vedere un ammalato, disse il dottore, — aspetterò, resterò ancora per farle piacere; ma creda a me, la sua inquietudine è irragionevole.

— Se sapesse, come soffro, non direbbe così e non chiamerebbe fantasticherie le mie sofferenze! È una cosa morbosa, ma sento le sventure come il barometro sente l’avvicinarsi della bufera.

— Questa inquietudine che ci tormenta è il male del nostro secolo, — soggiunse il dottore, — il progresso della scienza ha fatto diminuire e sparire molti mali, ma la natura si è vendicata col rendere i nervi sensibili in modo che il nostro cervello ne crea d’immaginari che ci fanno soffrire più di quelli reali.

— Se sapesse quello che è accaduto nella mia vita, non direbbe così, — rispose la signora Ivaldi, — ma mi conosce da poco tempo e non può capire quello che avviene nel mio cervello.

— La conosco abbastanza per comprendere che appartiene alla schiera fin troppo numerosa delle persone sulle quali l’immaginazione ha il sopravvento e che sono infelici più per quello che pensano, che per quello che realmente soffrono; credo che verrà un giorno in cui noi medici dovremo guarire più colla suggestione che coi farmaci, e chi saprà meglio persuadere, sarà il medico migliore.

— Senta, dottore, — disse la signora Ivaldi, — credo piuttosto che col tempo si scopriranno nuovi fenomeni che sono ancora avvolti nel mistero, e si avrà la spiegazione di certe sofferenze sconosciute. Avrebbe mai immaginato che si potesse comunicare da un capo all’altro del mondo col mezzo delle onde eteree, vale a dire con una cosa invisibile quasi fantastica, come avviene col telegrafo Marconi? Ebbene, io credo che due esseri che si amano ed hanno nel loro organismo un senso raffinato e simpatico, siano uniti sempre da una specie di corrente elettrica e possano comunicare fra loro; e se ad uno accade qualche avvenimento straordinario, l’altro ne senta anche ad una grande distanza il contraccolpo.

— È una teoria che non è ancora provata, — disse il dottore sorridendo, — e sa bene che la scienza non si contenta di chiacchiere ma chiede prove e riprove.

— E la telepatia come la chiama? — disse la signora.

— Non è ancora passata dal campo della superstizione a quello positivo della scienza. Vi sono delle coincidenze sulle quali la credulità umana vorrebbe stabilire fatti assoluti, ma non resistono ad una seconda prova; la credo una donna troppo superiore per prestar fede a presentimenti che nella maggior parte dei casi si mostrano fallaci.

La signora Carlotta scosse il capo incredula e disse:

— Le sue parole non possono togliermi la terribile ansietà che dilania l’anima mia; e mi domando per quale ingiustizia io debba essere diversa dagli altri e soffrire prima di sapere la sventura che mi ha colpito; perché sono sicura, è avvenuto qualche cosa di terribile a mio marito; lo sento, e questo dubbio mi tormenta.

— È possibile che sia tanto ostinata da non concepire che la sua immaginazione le fa un brutto scherzo? — esclamò il dottore, — vedrà che a suo marito non è accaduto nulla di male, ritornerà sano e salvo, e sarà la prima a ridere d’essersi tanto crucciata inutilmente.

— Se fosse vero! ne sarei contenta anche per l’avvenire; in ogni modo, io la ringrazio delle sue parole, ma non valgono a farmi tranquilla, vede; l’altro giorno, quando Giorgio è partito allegro sulla sua nuova automobile, bella lucida, che colla tinta rossa fiammante risaltava fra il verde degli alberi, e l’ho veduto correre come il baleno, laggiù lungo la riva del lago e dileguarsi in distanza fra un nembo di polvere, non ho provato nessuna inquietudine, non l’ebbi ieri e nemmeno questa mattina; tutto ad un tratto ho sentito come una vibrazione dentro di me, qualche cosa d’indefinito come un colpo al cuore, mi parve d’udire un grido, e da quel momento non vivo più.

— Eh via! — disse il dottore, — avrà letto nel suo giornale il racconto di qualche accidente automobilistico e n’è rimasta impressionata.

— Ne leggo tutti i giorni e non mi commuovono; creda, dottore, non sono una donna d’immaginazione; io sento le sventure reali, e queste mi fanno soffrire. Voglio appunto raccontarle quello che mi è accaduto, e si persuaderà che la mia inquietudine è ragionevole; è una storia dolorosa, ma il ricordo del passato mi farà forse distrarre dal dolore presente.

Stettero in silenzio qualche minuto, essa col capo chino, pensando, egli guardando il lago che si stendeva davanti ai suoi sguardi, leggermente increspato, e le colline dirimpetto che si coprivano d’ombra, mentre il sole tramontava fra un’aureola color d’oro. Dietro di loro, il villino sorrideva agli ultimi raggi del sole, e alcune nuvole bianche vagavano pel cielo come vele vagabonde; il dottore pensava che forse quelle nuvole si sarebbero moltiplicate e avrebbero offuscato il sole primaverile, e la signora Carlotta evocava un paesaggio lontano in riva al mare dove aveva trascorso la giovinezza, e il suo cuore aveva imparato ad amare, e per qualche momento, colla mente tutta intenta ai ricordi passati, dimenticava l’angoscia presente.

 

II.

Il dottore aspettava ansioso, punto dalla curiosità di conoscere qualche cosa della vita passata della signora Ivaldi.

Quella signora, venuta da poco tempo ad abitare il villino delle rose, lo interessava; la conosceva poco, ma la trovava diversa dalle altre, e indovinava, nella vita di lei, qualche cosa di occulto e di misterioso da risvegliare in lui il desiderio di conoscerla più intimamente.

Era stato accolto dai nuovi proprietari del villino delle rose, più come amico che come medico. Del signor Ivaldi sapeva che aveva fatto fortuna in paesi lontani, e aveva acquistato quel villino per godervi un po’ di pace e di riposo. La conversazione della signora Carlotta gli riusciva piacevolissima, e passare con lei qualche ora del pomeriggio, seduto sul terrazzo che dominava il lago, andava diventando per lui una delle consuetudini più gradite.

— È una storia molto dolorosa la mia, — disse la signora Ivaldi, — se mi promette di ascoltarla senza annoiarsi troppo, gioverà forse a calmare il mio spirito molto turbato in questo momento.

— Tutto m’interessa quello che la riguarda, racconti pure, — disse il dottore.

La signora chinò la fronte e si coperse gli occhi colla mano come per concentrare le idee e incominciò:

— Avevo vent’anni e la mia anima era piena di poesia e di fede nell’avvenire.

Mio padre morì giovane e rimasi con mia madre quasi povera. Si viveva a stento d’una piccola pensione in una piccola casa posta presso alla riviera di Rapallo. La mamma si lagnava della sua triste sorte e di non potermi offrire una esistenza più agiata e più ridente. A me invece pareva d’esser ricca, la balda giovinezza mi gorgogliava nelle vene e avevo davanti a me il mare immenso che mi dava una specie d’ebbrezza e mi parlava un linguaggio che mi era famigliare e di cui io sola conoscevo il senso recondito. Mi pareva la voce d’un amico. Io ero una solitaria, una specie di selvaggia, e più che colle persone mi sentivo legata colle cose che mi circondavano.

Uno dei miei più grandi godimenti era sull’ora del tramonto passeggiare in riva al mare ed ascoltare la voce delle onde che pareva mi recasse notizie di paesi lontani e sconosciuti, oppure guardare in alto le nuvole che spaziavano sul cielo infinito. Era uno spettacolo che si rinnovava ogni giorno e pel quale provavo un’attrazione invincibile.

La spiaggia era spesso popolata, i monelli giocavano colla sabbia e coi sassi, i marinai e i pescatori fumavano la pipa discorrendo e guardando il cielo, facendo pronostici sul tempo, le donne formavano gruppi chiacchierando, io lasciavo dietro di me la parte popolata e seguendo la curva dove il mare forma un’insenatura, andavo verso Santa Margherita dove la spiaggia era più solitaria e il verde delle piante la rendeva più fresca e più ombrosa.

Credevo esser sola a fuggire la gente, ma m’accorsi di un giovane che, come me, cercava la solitudine e contemplava il mare infinito.

Non lo conoscevo e non potevo distinguerlo a quella luce crepuscolare, ma quasi involontariamente ci si trovava accanto e ci si sentiva attratti l’uno verso l’altro da una forza misteriosa. Non era uno dei soliti romanzi d’amore, ma una forza fatale irresistibile che avevamo nel nostro organismo e dominava i nostri movimenti; era come se una nota identica si ripercuotesse nel nostro cervello, come se ci unisse una corrente elettrica, una cosa invisibile ed impalpabile, che sfuggiva ai nostri sensi, al punto che sentimmo l’effetto di questa attrazione senza esserci né veduti né parlati.

Non avevamo bisogno di parlare: i nostri pensieri si comunicavano direttamente e sentivamo le vibrazioni delle nostre anime.

Un giorno, non so per qual ragione, ci scambiammo qualche parola, ma quasi inconsapevolmente, come se non fosse cosa nuova e ci fossimo sempre parlati.

Seppi che anche a lui era morto il padre, aveva dovuto interrompere gli studi e viveva colla madre modestamente e quasi una vita di stenti; la rassomiglianza della nostra sorte, ci unì maggiormente e si divenne amici.

Era un nuovo godimento per me ritrovarlo tutte le sere presso la spiaggia al posto consueto; si facevano lunghe passeggiate senza parlare, ci si sentiva vicini, legati dal filo invisibile che univa i nostri pensieri e non si chiedeva di più.

Quando penso alla voluttà di quei lunghi silenzi pieni di gioia, più deliziosi di ogni conversazione, mi par di aver vissuto una vita anteriore assai diversa da quella in cui viviamo. Le nostre passeggiate continuarono in silenzio per qualche mese, ma era troppo grande la nostra felicità, non poteva durare; noi non ci curavamo di nessuno, invece la gente oziosa che stava sulla riva del mare si occupava di noi e incominciò a mormorare dei nostri ritrovi innocenti, e quelle chiacchiere giunsero all’orecchio della mamma, che mi proibì di avvicinarmi a Federico; era il nome del mio giovane amico.

Sarei morta piuttosto che rinunciare alle mie passeggiate sulla spiaggia e sentiva di odiare quelle stupide persone dalle lingue venefiche che s’immischiavano nei fatti miei; per ubbidire alla mamma, tentai di sfuggire il mio amico e cambiar direzione alla passeggiata, ma il potere d’attrazione che avevamo in noi, era più forte, e ci si trovava vicini involontariamente. Senza parlarmi, egli indovinò tutto, e dopo un lungo silenzio mi prese la mano e mi disse:

— È inutile rattristarci, perché non ci sposiamo?

È vero, non ci avevamo pensato; infatti, se fossimo stati sposi o semplicemente fidanzati, la gente non avrebbe trovato più a ridire e non v’era bisogno d’interrompere le nostre passeggiate.

Quell’idea illuminò la nostra mente come un raggio di sole, ma ecco che la realtà della vita venne a guastare la nostra gioia.

Per il momento non potevamo pensare al matrimonio; eravamo troppo giovani e troppo poveri, bisognava aspettare. Meno male che, essendo fidanzati, potevamo continuare a vederci. Non avevamo nulla cambiato al nostro sistema di vita, soltanto che qualche volta il pensiero del nostro avvenire ci rendeva loquaci.

Erano discorsi strani i nostri, si trovava che il mondo era troppo stupido e l’uomo un essere incompleto; eravamo di primavera e l’aria era piena di fruscii d’ali, e gli alberi di nidi. Invidiavamo gli uccelli che fabbricavano la casa con poche pagliuzze, si nutrivano con pochi semi raccolti sui prati e la natura li provvedeva di vesti meravigliose, sottili e variopinte, li trovavamo assai più fortunati degli uomini che coi loro molteplici bisogni si rendono amara la vita.

Ecco perché gli uccelli erano creature allegre, cantavano sempre, volavano in mezzo ai fiori e trovavano la loro tavola imbandita dove rideva la primavera.

Qualche volta ci si sognava di volare lontano da questo mondo pieno di esigenze, e andar lassù fra gli astri dove forse la vita sarebbe stata più facile e meno complicata.

Ma non avevamo le ali come gli uccelli e bisognava occuparsi del nostro avvenire.

Federico era pieno di speranza; voleva lavorare alacremente, fare delle economie per prepararsi il nido come gli uccelli che ci rallegravano tanto. Aveva trovato un impiego in una fabbrica di macchine, e gli pareva d’essere sulla via della fortuna.

Ma passavano le settimane e i mesi e restava sempre a quel posto con una paga meschina e vedeva dileguarsi i sogni che aveva fatti.

A me bastava vederlo tutte le sere e aspettavo pazientemente, egli invece non era contento, voleva correre e non avanzare a passi di lumaca; era impaziente di riuscire.

Una sera, prima ancora che parlasse, avevo indovinato il suo pensiero, e tremavo che me lo comunicasse. Cercavo distrarlo facendogli osservare l’effetto della luna che sorgeva dal mare e le onde che mandavano sul lido sprazzi lucenti, ma egli voleva dirmi quello che gli pesava sul cuore, era inevitabile.

Disse che bisognava armarsi di coraggio e dividerci per qualche tempo se si voleva poi unirci per sempre.

In Italia non v’era nulla da fare; avrebbe sciupate le sue energie in sforzi inutili, sarebbe riuscito a guadagnare a mala pena abbastanza per vivere da solo; suo fratello, partito per l’America in cerca di fortuna, era sulla via di trovarla, aveva molte imprese ben avviate e lo invitava a raggiungerlo e ad associarsi ai suoi affari. Questa proposta giungeva in buon punto: era deciso ad accettare, certo di poter in pochi anni guadagnare tanto da offrirmi una fortuna e vivere sempre con me.

Mi sentivo un gruppo alla gola e non potevo rispondere.

Egli mi teneva stretta per mano senza dir nulla, ma indovinavo l’ansietà del suo cuore.

Era un silenzio pieno di dolore e lo ruppi per dirgli:

— È giusto, non voglio essere d’ostacolo alla tua fortuna. Parti pure.

— Staremo divisi soltanto qualche anno, — disse. — Che importa? noi saremo sempre uniti col pensiero, nemmeno la distanza riuscirà ad affievolirlo. Sapessi come lavorerò con coraggio, pensando che ogni giorno mi avvicinerà a te, diventerò avaro per accumulare ricchezze e farti felice.

— No, — diss’io, — mi basta una piccola casa; la mia ricchezza sarà esser vicino a te, ti supplico solo di ritornare presto.

Quando la partenza fu decisa, non mi pareva di viver più, pensando al giorno in cui mi avrebbe lasciata; non ne parlavamo mai, ma ci pensavo sempre e sentivo che si avvicinava troppo in fretta. Una sera ebbi come un presentimento e gli dissi:

— È per domani, non è vero?

— No, — rispose, — non crucciarti, ci vedremo ancora.

Egli mentiva, ed io lo sapevo; ma non dicevo nulla; però quella sera non potevo staccarmi da lui e tutto mi serviva di pretesto per indugiare. Ci sono momenti che si vorrebbero eterni, eppure passano con una precisione inesorabile,

Non l’ho più riveduto; aveva mentito per risparmiarmi lo strazio dell’ultimo saluto.

Fu un vero schianto per il mio povero cuore; ma sentivo che una parte di me era sempre in comunicazione con lui, quella parte che vibrava nel nostro organismo come congiunta da un filo invisibile; era come se lo vedessi e lo seguivo nel lungo viaggio attraverso il mare, poi lo vedevo slanciarsi nella vita operosa, lavoratore instancabile, impaziente di riuscire.

Mi scriveva spesso, ma le sue lettere non mi recavano nulla ch’io non indovinassi, solo mi assicuravano del suo amore costante.

Continuavo ad andare la sera come al solito in riva al mare e immaginavo che l’onda che lambiva la riva, mi recasse il suo saluto e lo vedevo sulla riva d’un mare lontano pensando a me, poi seguivo il volo degli uccelli, il cammino delle nubi, avrei voluto anch’io volare, andar a trovarlo.

I giorni passavano lenti nell’aspettativa ed egli intanto lavorava alacremente, non spendeva nulla e aveva già fatto qualche risparmio, ma egli voleva guadagnare ancora, e si mostrava incontentabile, avrebbe potuto partire, ma la febbre del lavoro lo invadeva, voleva offrirmi la ricchezza e s’indugiava ancora in quei paesi lontani per conquistarla.

Io non ne potevo più. Non sapevo come passare il tempo; nelle mie passeggiate solitarie osservavo che le leggi che governavano gli uomini, erano molto ingiuste. Perché nella società alla quale appartenevo, la donna doveva pesare sull’uomo e non le era concesso aiutarlo nella sua opera e guadagnare con lui il pane pei figliuoli? Forse, se io avessi avuto una professione, non ci sarebbe stato bisogno di separarci, e tutti e due si avrebbe potuto contribuire al benessere della famiglia. Era tornata la primavera ed osservavo le coppie di uccelli che facevano assieme il nido, portando ognuno nel becco la propria pagliuzza, e poi il padre e la madre recavano entrambi ai figli il grano che doveva nutrirli. Perché nella società la donna doveva esser da meno dell’uomo e restar neghittosa quando egli lavorava per tutti? Concludevo che il mondo era piantato male.

Mi ribellavo alla mia vita inutile ed inoperosa e invidiavo le operaie che col loro lavoro aiutavano i mariti e il benessere della famiglia; alle volte mi veniva una voglia pazza di andar in qualche opificio a chiedere lavoro. Ne parlai un giorno ad un’operaia, ma la mia idea non la persuase.

— Che cosa vuol fare lei colle sue piccole mani? — mi disse. — Faccia la signorina che è molto meglio, tanto non la prenderebbero alla fabbrica.

Un’altra mi guardò come s’io volessi rubarle il pane; non c’era verso ch’io potessi occuparmi in qualche cosa di utile, e nell’ozio il tempo trascorreva lento e anche il mio carattere si mutava perché divenivo tutti i giorni più irascibile e più nervosa.

Era venuta l’estate, e una volta, all’ombra di alcune piante, vidi schiere di fanciulle sedute; col tombolo sulle ginocchia, facevano andare colle loro agili mani un mucchio di fuselli e formavano bellissime trine. Mi soffermai a guardarle e mi venne voglia d’imitarle; esse erano sotto la direzione d’una maestra ed erano pagate secondo la loro abilità; pregai la maestra di prendermi nella schiera delle lavoratrici, desiderando imparare quell’arte gentile. Essa acconsentì a patto che lavorassi un anno senza retribuzione in cambio dell’insegnamento che mi avrebbe dato.

Io accettai perché avevo bisogno di occuparmi, e speravo che un giorno il mio lavoro sarebbe utile almeno come adornamento della mia casa.

Nei primi tempi ero avvilita; le fanciulle di dodici anni lavoravano meglio di me e con maggior sollecitudine; esse facevano andare i fuselli allegramente chiacchierando, come se le loro mani fossero macchine, io dovevo prestarvi tutta la mia attenzione e il lavoro non mi riusciva perfetto.

Passati i primi tempi acquistai una certa destrezza di mano, e riuscii a combinare disegni fini e difficili. Copiai trine antiche e preziose, tanto che se non fossi stata legata alla mia maestra, avrei potuto venderle con profitto; intanto quell’occupazione mi riusciva piacevole, mi calmava i nervi, e il tempo sempre lento per il mio desiderio, mi era meno noioso. Il tempo passava e aspettavo, sicura che Federico sarebbe ritornato.

Erano passati dieci anni quando incominciò a parlare di ritornare a Rapallo col fratello.

Ormai erano ricchi, le loro imprese bene avviate potevano, lasciarle ad un socio che le continuasse, ed essi contavano di ritornare in patria a godere il meritato riposo. Mancavano pochi mesi alla loro partenza, e quel fatto mi pareva una felicità così grande come raramente è concesso provare su questa terra.

Mano mano che si avvicinava quel tempo tanto desiderato, egli scriveva più spesso; le sue lettere parlavano del prossimo ritorno ed erano gioconde, come inni di gioia.

Io mi struggevo nell’ansia dell’attesa e contavo i giorni che mancavano al suo ritorno.

Mi pareva che in quel tempo i nostri pensieri s’incontrassero con maggior forza, ed erano così lieti, come se sul loro lungo cammino sprigionassero delle scintille.

Fu un periodo d’orgasmo e di gioia intensa, e sentivo nel mio essere l’energia di cento vite.

Una notte mi svegliai di soprassalto e mi parve che il mondo fosse precipitato in un abisso, tanto fu grande lo schianto che provai in tutta la mia persona.

Ebbi una visione d’orrore e nel mio cuore si ripercosse un grido straziante.

Mi alzai come una disperata e mi misi a gridare piangendo: è morto, è morto, Federico è morto! Lo vedevo davanti agli occhi insanguinato e morente, e fuggivo sperando togliermi alla vista di quello spettacolo raccapricciante. La mamma si svegliò a quei gridi e mi credette impazzita.

Mi voleva persuadere che il mio era un brutto sogno, ch’io era in preda ad allucinazione, ma non ci fu verso che riuscisse a calmarmi.

— È accaduto una cosa grave, — gridavo fra le lagrime, — voglio sapere, voglio partire!

Sembravo pazza, la mia povera mamma non sapeva come calmarmi; temeva sul serio ch’io avessi smarrita la ragione.

Alla mattina mandai un telegramma chiedendo notizie. Mi rispose suo fratello Giorgio queste precise parole:

“Morto vittima d’un accidente ferroviario„.

La signora Ivaldi, a questo punto del suo racconto, si sentì come un gruppo alla gola, ripensando l’angoscia passata; e dopo aver dato un sospirone per liberarsi dal peso che l’opprimeva, disse al dottore:

— Che le pare? Non ho ragione d’essere inquieta?

— Credo ad una fatale coincidenza, — disse il dottore, — vedrà che questa volta non è accaduto nulla.

— Pur troppo lo sento, è accaduto qualche disgrazia, — disse la signora Carlotta.

— Ma mi spieghi, ora che ha destata la mia curiosità, — disse il dottore, anche per distoglierla dal pensiero che l’opprimeva, — e come è avvenuto il suo matrimonio?

— È presto detto, — soggiunse la signora Ivaldi. — Vittima dell’accidente ferroviario, Federico è vissuto qualche ora fra gli spasimi atroci, mutilato in un modo orribile. Giorgio, il fratello, corse ad assisterlo e raccolse le sue ultime volontà. Egli morì col mio nome sulle labbra, mi lasciò erede della sostanza che aveva guadagnata per me, e pregò il fratello che mi proteggesse e facesse in modo ch’io almeno fossi felice. Giorgio ritornò poco tempo dopo; quando ci vedemmo si ebbe l’impressione d’esserci sempre conosciuti. Federico gli aveva continuamente parlato di me, egli poi rassomigliava tanto al fratello, specialmente nella voce, che qualche volta avevo l’illusione che non fosse avvenuto il fatto orribile e ch’egli mi fosse ancora accanto.

I nostri affari che avevamo in comune, ci riunivano spesso, ero rimasta sola al mondo, chiese la mia mano e accettai. Me ne trovai contenta; a lui devo questi anni di tranquillità e di pace, egli è ora tutto per me, mi trovo unita a lui come ero con Federico, non allo stesso grado, ma abbastanza per sentire che è vittima d’un accidente.

— Non mi persuade, cara signora, — disse il dottore, — è la sua immaginazione che è ammalata, e perché pensa all’altra coincidenza; vedrà, suo marito ritornerà sano e salvo, e questa volta ne uscirà guarita per sempre.

— Fosse vero, — disse la signora Ivaldi. — Ma intanto chi mi toglie a questa inquietudine?

— Ci metta un po’ di forza di volontà. Tanto ora non può far nulla, ed io sono proprio costretto a lasciarla per vedere il mio ammalato; procuri d’esser ragionevole, si calmi, le prometto di ritornare domani mattina e vedrà che mi darà ragione.

— Ne sarei lieta davvero! Ma intanto mi sgomenta la notte di ansie che ho a me davanti, dottore; mi scriva una ricetta, un forte sonnifero, oppio, morfina, tutto quello che vuote, ma qualche cosa che mi faccia dormire e mi tolga a questa inquietudine.

Il dottore per contentarla le scrisse una pozione calmante e uscì compiangendo quella povera signora che secondo lui era seriamente ammalata di nervi.

 

III.

Quando i passi del dottor Sormani si furono dileguati in lontananza e la signora Ivaldi rimase sola, nel silenzio della notte, la sua inquietudine le parve ancor più insopportabile. L’oscurità era discesa sul lago e lo riempiva di ombre paurose; solo lontano lontano qualche lumicino scintillava nelle case e nelle ville, e la signora Carlotta pensava a quegli abitanti che vegliavano, come lei, ma che certo non avevano la sua inquietudine nell’anima, e ne provava un senso d’invidia. Come le pareva triste in quel momento la sua villa ridente che aveva ordinata con tanto amore e nella quale aveva passati giorni pieni di pace e serenità! La malinconia che aveva nell’anima si trasfondeva in ogni cosa che la circondava e il mondo le pareva avvolto in un manto funereo. Un avvenimento doloroso era certo accaduto a turbare la sua pace; nessuno poteva toglierle il dubbio fatale. Qualche momento pensava al marito come se non dovesse più rivederlo e ripensava ai sette anni trascorsi con lui, forse i migliori della sua esistenza.

Il suo non era stato l’amore giovane entusiasta che aveva provato per Federico, ma un sentimento calmo, che si era fatto sempre più forte colla convivenza fino al punto che le pareva impossibile poter vivere senza il marito, divenuto il solo scopo della sua vita.

Meno idealista del fratello, ma di spirito superiore e di carattere più positivo, Giorgio Ivaldi le aveva sempre parlato il linguaggio della ragione e cercato di infonderle la sua filosofia. Le diceva continuamente che non si doveva attaccarsi troppo alle cose del mondo, il quale non è che una piccola palla slanciata nello spazio immenso; ch’era inutile preoccuparsi degli avvenimenti che ci avvolgono fatalmente nelle loro spire; bisognava cercare di crearsi un ambiente simpatico, poter avere qualche godimento e accettare con rassegnazione le sofferenze inevitabili, e non crearsene d’immaginarie; aveva voluto comperare la villa delle rose per aver un asilo tranquillo, dove probabilmente sarebbero invecchiati tutti e due uno accanto all’altro e sarebbero morti guardando il lago sereni e tranquilli d’aver compiuto il loro pellegrinaggio su questa terra. Era più vecchio, e certo se ne sarebbe andato prima di lei ad aspettarla nell’altro mondo. I morti sono pazienti; hanno davanti a sé l’eternità, e i vivi, o prima o poi, vanno a raggiungerli, ed è inutile che si disperino o affrettino la loro fine: ecco quello che le ripeteva continuamente.

Quando pensava al marito non poteva darsi pace come un uomo tanto tranquillo e ragionevole, si fosse preso d’una passione ardente per l’automobile.

Questo sport moderno e pericoloso era la sua sola preoccupazione. Egli possedeva le automobili più belle, più perfette e più veloci; si teneva al corrente di ogni progresso, e, esperto nella meccanica, cercava di apportarvi qualche nuovo miglioramento. Era in continua corrispondenza cogli automobilisti più esperti, prendeva parte a tutte le corse più audaci e metteva in questo esercizio tutta l’energia che aveva portato nelle sue imprese commerciali e che l’avevano condotto alla ricchezza. Forse egli non era nato per il riposo e si sentiva attratto ad un divertimento per cui il moto è una condizione necessaria.

Essa aveva tentato di seguire il marito nelle corse vertiginose, ma non provava nessun piacere nel divorare lo spazio e passare come una meteora per borghi e città; anzi il suo organismo ne soffriva ed era sempre ritornata a casa stanca e ammalata, tanto che aveva finito col rinunciarvi e lasciar solo il marito, dispiacente di non averla compagna anche nelle sue corse.

Però in quella notte d’ansietà essa fece il voto di accompagnarlo sempre, se fosse ritornato salvo; qualunque disagio avrebbe sopportato volentieri, piuttosto d’una inquietudine così terribile.

Il giardino che contornava la villa, scendeva in un dolce pendio sulla strada costeggiante il lago; per ben dieci volte la signora Ivaldi discese e risalì quel declivio, sperando calmare col movimento l’agitazione del suo spirito, ma invano; pareva che tutto facesse aumentare il suo orgasmo. A momenti pareva pazza; nella sua voglia di agire le venivano al cervello delle idee strane; avrebbe voluto far allestire una delle automobili che aveva nella rimessa e correre all’impazzata per raggiungerlo, ma dove? a Milano? a Torino? a Firenze? E intanto non sarebbe venuta a casa qualche notizia? Era meglio aspettare. Guardò l’ora; non era ancora mezzanotte; pensò al tempo che mancava prima dell’alba ed ebbe il sentimento dell’eternità. Eppure fino al mattino non avrebbe potuto far nulla per sapere; era una cosa terribile per la sua impazienza.

Provò ad andare nella sua camera sperando di calmare i nervi nel fare i movimenti abituali; tentò di svestirsi lentamente, mettendo in ogni atto un tempo infinito per far passar l’ora; di tratto in tratto andava sulla terrazza che s’apriva davanti alla sua camera, e guardava il cielo tutto sparso di stelle, quasi implorando che quelle stelle che vedevano il mondo dall’alto, le mandassero qualche messaggio. Poi si coricò come di consueto, ma chiamò invano il sonno sulle sue palpebre stanche.

Si rammentò il sonnifero scrittole dal dottore. Era una forte dose di trional; la prese d’un fiato, ma il sonno tanto desiderato si fece aspettare.

Soltanto verso l’alba parve assopirsi, ma fu peggio; ebbe come un incubo, le pareva di vedere una schiera d’automobili d’ogni forma e colore scendere da un’alta montagna l’una dietro l’altra in una corsa vertiginosa; quelle dietro cozzavano impetuosamente con quelle che precedevano, nella fretta di correre non si vedevano più fino che ad un certo punto precipitarono tutte; alcune caddero nell’abisso profondo sbattendo nei macigni, altre rimasero sospese, aggrappate al monte come grappoli di ferrei congegni e le parve che una più pesante di tutte si staccasse dal masso, le fosse sopra e la schiacciasse togliendole il fiato.

Dovette fare uno sforzo sovrumano per togliersi a quel peso, si guardò intorno cogli occhi imbambolati, e nel rivedere ai tenui bagliori dell’alba la propria camera e gli oggetti famigliari, si rammentò la sua inquietudine e l’orribile visione le parve come un triste presagio.

Si alzò e aperse la finestra. La frescura del mattino le scese quale un refrigerio sulla fronte ardente; poi, dopo tanta tensione di nervi, ebbe quasi un momento di sollievo pensando che il giorno che spuntava l’avrebbe tolta alla sua terribile incertezza. Se era ancora turbata dall’orribile sogno, il sole che saliva lentamente sull’orizzonte e dileguava i vapori dell’alba, le pareva di buon augurio, ed il suo cuore rinasceva alla speranza.

 

IV.

La signora Ivaldi pensò che alle undici dovevano arrivare i giornali i quali avrebbero certo parlato della corsa automobilistica; intanto non si sentiva di aspettare inoperosa che il tempo passasse e mandò un telegramma al comitato promotore della corsa chiedendo notizie di Giorgio Ivaldi, con preghiera di rispondere subito al villino delle rose, presso Intra.

Poi ricominciò a girare su e giù per il giardino, aspettando; una nuova ansietà s’impadroniva del suo essere; temeva di sapere e aver la notizia d’una disgrazia avvenuta, e nello stesso tempo voleva uscire da quell’incertezza.

Guardava ogni tanto lungo la via per vedere se scopriva qualche cosa d’insolito; quasi senza volere uscì dal cancello e s’avviò verso l’approdo dei piroscafi; vide in distanza un punto nero e il cuore cominciò a palpitarle fortemente, quando s’accorse che quella cosa nera era un automobile; ma la macchina passò via rapidamente rumoreggiando fra un nuvolo di polvere, non poté conoscere le persone incappucciate che stavano dentro, ma non era suo marito, perché passarono davanti al villino delle rose senza fermarsi; ogni punto nero che vedeva sulla strada maestra credeva che fosse un messaggio, e quando incontrò il fattorino telegrafico che le mise in mano un dispaccio, non voleva credere che fosse diretto a lei, e quasi paralizzata e tremante, stette qualche secondo prima d’aprirlo. Portava la firma del marito e diceva queste precise parole:

“Sfuggito miracolosamente a grave pericolo, leggermente ferito, ritorno in giornata; aspettami a casa.„

Diede un sospirose di sollievo; era vivo, ritornava, e ciò le bastava. È vero che diceva d’essere ferito, ma se aveva potuto mettersi in viaggio, la ferita non doveva esser certo grave; dopo tante ore d’inquietudine si sentiva quasi contenta, però si confermava nell’idea d’aver una fibra sensibile nel suo organismo, che l’avvertiva di quello che accadeva alle persone lontane che avevano un senso in corrispondenza con lei, ed era impaziente di vedere il dottore incredulo per mostrargli come fosse stata ragionevole la sua inquietudine. Venne infatti come le aveva promesso, ed essa gli mostrò il telegramma tutta trionfante.

— Aveva ragione, — disse, — era successo qualche cosa, fortunatamente nulla di grave, si capisce. È un fatto che mi fa pensare; questa vibrazione che da un cervello corrisponde in distanza con un altro, come col telegrafo Marconi, è uno studio che voglio fare e forse mi aiuterà nella mia carriera. Intanto mi inchino alla sua superiorità.

— Non ci tengo, anzi, chiedo la guarigione; il mio è un male terribile; basterebbero a provarlo le sofferenze della notte passata.

— In ogni modo è una sensibilità raffinata di cui può andare orgogliosa, forse è un senso che tutti possediamo in embrione e colla civiltà e il progresso si educherà e diverrà più forte; ci si avvia, cara signora, ad essere degli strumenti elettrici; non so se sarà un bene o un male.

— Un male, un male, — disse la signora Ivaldi, — è certo che le nostre sofferenze saranno moltiplicate, io ne so qualche cosa.

— Ebbene, che cosa importa, — soggiunse il dottore, — se l’umanità potrà averne vantaggio?

— Ed io sarò stata fra le prime?

— Sì, fra gli eletti, come i profeti e i veggenti dell’antichità; anch’essi avevano qualche cosa di più raffinato, che forse avrà dato loro delle sofferenze ma di cui dovevano andare orgogliosi.

— Senta, dottore, — rispose la signora Ivaldi, — quand’è così, la cosa dovrebbe essere più completa; questa vibrazione dovrebbe esser perfetta in modo da poter corrispondere come col telegrafo; io soffrivo perché avevo la sensazione vaga che qualche accidente era avvenuto a mio marito e non sapevo quale; ora lo so e sono tranquilla.

— Le ripeto, — disse il dottore, — bisognerà educar bene questo senso in modo che due persone che si amano possano corrispondere concentrando il pensiero e rendendolo più intenso, trasmetterlo a distanza; siamo nel secolo dei miracoli e ci arriveremo.

La signora Ivaldi pregò il dottore di tenerle compagnia e far colazione con lei per aspettare l’arrivo del marito, che avrebbe avuto bisogno subito delle sue cure. Egli acconsentì e tutti e due si sedettero nel pomeriggio sul terrazzo aspettando. Sarebbe arrivato in carrozza, sul piroscafo, in automobile? Non sapevano, e guardavano il lago e la strada maestra passando il tempo chiacchierando di tutte le cose ignote, di tutti i misteri che sarebbero un giorno venuti alla luce.

Una carrozza intanto salì lentamente il pendio che conduceva alla villa e interruppero il discorso per incontrarla. Era il signor Giorgio Ivaldi che arrivava, ferito più di quello che la signora avesse creduto. Aveva un braccio fratturato e stretto in un apparecchio; la testa contusa e bendata.

— Giorgio! — esclamò la signora Carlotta, abbracciandolo colle lagrime agli occhi.

— Calmati, non è nulla, — disse il signor Ivaldi, e volle fare uno sforzo e scendere dalla carrozza senza aiuto.

Voleva camminare, ma il dottore lo consigliò di mettersi a letto, dopo la fatica del viaggio e il colpo ricevuto. La signora Carlotta lo interrogava e gli diceva:

— Lo sapevo prima del tuo dispaccio, sai; l’ho sentito, è stato ieri alle dieci: è tutta un’eterna giornata che soffro. Ma come è avvenuto?

— Come avviene sempre in simili casi; si va avanti eccitati dalla corsa, non si vede la strada, è una vertigine, tutto andava a gonfie vele, ero sul punto di vincere, la mia macchina è andata contro un albero, si è sfasciata, quasi soffocandomi sotto il suo peso e slanciando lontano il macchinista.

— È morto? — chiese la signora Carlotta.

— No, è rimasto all’ospedale in cattivo stato, peggio di me, ma mi assicurano che guarirà bene; io ho preferito venire per non farti rimanere inquieta.

— Hai fatto bene, ho sofferto tanto che avevo bisogno di vederti, ma io spero ti sarà passata la mania automobilistica.

— Tutt’altro! Sono impaziente di guarire per ricominciare; soltanto ti prometto d’essere più prudente la prossima volta, poi voglio una macchina più perfetta; ho già nella mia testa un congegno che avviserà quando si avvicina ad un ostacolo; mi farò dare il brevetto.

— Ricordati però, — disse la signora Carlotta, — che non ti lascerò più andar solo; meglio sfracellarsi in un precipizio, che soffrire le torture di ieri; preferisco esser con te al momento del pericolo e non sentirlo a distanza.

— Tanto meglio, — disse il signor Ivaldi, — fra un mese il mio braccio sarà guarito, la mia macchina sarà perfetta e avremo acquistata una nuova socia nel club degli automobilisti.

— Senza contare, — disse il dottore, — che io avrò studiato un nuovo caso di telepatia che farà forse progredire la scienza e mi aprirà le porte dell’Università.

— Allora se n’andrà lontano? — chiese la signora Carlotta.

— Forse, ma spero che mi accoglieranno sempre come ospite al villino delle rose.

— E diventerà nostro compagno di automobilismo, — disse il signor Ivaldi.

— Tanto più, — soggiunse la signora Carlotta, — che con questo sport moderno, c’è spesso bisogno del medico.