Racconto di John Grisham

“Tratto dalla raccolta “Ford County”

 

Ford County è la prima raccolta di racconti di questo autore. Autore di molti romanzi e film di successo: Il Socio – Il Cliente – L’uomo della pioggia – Il rapporto Pelican. e moltri altri.
Tranquillità, l’ultimo dei racconti inseriti in questa raccolta, è il più breve e il più intenso. Narra le ultime ore di un condannato nel braccio della morte, che, prima di morire vuole guardare per l’ultima volta la luna.

 

 

Nell’ultima sera della sua vita, Joey Logan dovette sottostare a tutti gli stupidi rituali che erano così importanti per i funzionari del carcere. Venne trasferito nella cella d’osservazione accanto alla camera della morte, una cella un po’ più ampia di quella che aveva occupato negli ultimi diciassette anni, e venne tenuto sotto stretta sorveglianza in modo che non potesse togliersi la vita prima che avesse l’opportunità di farlo lo Stato. Fu in quella cella che parlò per l’ultima volta con il suo avvocato, il quale l’informò, con parole meste e grevi, che gli ultimi appelli avevano seguito il loro corso e che ormai non c’erano più speranze. Parlò con un sacerdote, perché il sostegno spirituale veniva caldamente raccomandato in momenti come quello.

Fu visitato da un medico, che gli controllò polso e pressione e concluse che in effetti era abbastanza sano da poter essere debitamente ucciso. Ebbe un colloquio con il direttore del carcere ed effettuò scelte che pochi uomini hanno occasione di fare. Cosa desiderava mangiare per il suo ultimo pasto? (Bistecca e patate fritte.) Cosa fare del suo corpo? (A Joey non importava: datelo alla scienza.) Cosa indossare per l’esecuzione? (Le scelte erano limitate.) Cosa dire, una volta legato con il velcro al lettino, con la possibilità di pronunciare le sue ultime parole su questa terra? (Joey era indeciso, ma qualcosa gli sarebbe venuto in mente.) Chi avrebbe assistito all’esecuzione come suo testimone nella camera della morte?

(Nessuno, neppure il suo avvocato.) Che fare dei suoi effetti personali?

(Bruciateli.)

E così via.

Era prevista un’ora per l’ultimo colloquio con la famiglia, ma quell’ora arrivò e passò senza alcun visitatore. Joey non aveva famiglia. Durante i diciassette anni trascorsi nel braccio della morte, Joey Logan non aveva mai ricevuto una cartolina, una lettera o un pacco da un parente. Non c’era nessuno là fuori. Possedeva tre scatole piene di documenti, ritagli di giornali, pratiche legali e altre cartacce, roba spedita da avvocati, sostenitori, giornalisti e il solito assortimento di matti e spostati che, in mancanza di qualcosa di utile da fare, abbracciano le cause senza speranza di uomini condannati a morte. Le tre scatole sarebbero state bruciate entro le successive ventiquattr’ore.

A mezzanotte, otto ore prima del momento fatale, Joey sedeva in silenzio sul letto in cemento armato e faceva un solitario sul tavolino pieghevole. Era calmo e in pace con il suo mondo.

Aveva rifiutato il sonnifero. Non aveva nient’altro da dire, da scrivere, da fare. Aveva, ed era, finito.

Un grosso nero con la testa rasata e l’uniforme stretta si avvicinò alle sbarre e domandò:

«Tutto okay, Joey?».

Joey rialzò lo sguardo, sorrise e rispose: «Certo, Pete. Mi passo il tempo».

«Posso fare qualcosa per te?»

Era ovvio che a quel punto non c’era virtualmente nulla che potesse fare per il detenuto, ma Pete era un uomo premuroso e gentile. Con due eccezioni, le guardie del braccio della morte non erano violente. Quelli che dovevano sorvegliare erano assassini condannati a morte, ma i prigionieri erano tenuti sotto chiave per ventitré ore al giorno, molti di loro in isolamento, e dopo qualche mese diventavano tutti sottomessi, docili, istituzionalizzati. La violenza era rara nel braccio della morte.

Joey si alzò in piedi, si stirò e si avvicinò alle sbarre. «Una cosa ci sarebbe» disse con riluttanza, quasi non se la sentisse di chiedere un favore. Ma perché no? Cosa aveva da perdere?

Pete si strinse nelle spalle e disse: «Se posso».

«Sono diciassette anni che non vedo la luna. Non è che potrei uscire in cortile per qualche

minuto?»

Pete guardò lungo il corridoio, rifletté e quindi chiese: «Adesso?».

«Certo. L’orologio sta ticchettando. Secondo il mio almanacco, dovrebbe esserci la luna piena stasera.»

«Sì, è piena. L’ho vista un’ora fa.»

«Mi piacerebbe vederla.»

«Lasciami controllare» disse Pete e scomparve. Pete era il supervisore del turno di notte e se Pete decideva che era okay, allora era okay. Sarebbe stata una piccola violazione alle regole, ma spesso si consentiva qualche eccezione nelle ultime ore di vita di un uomo. D’altra parte, Joey Logan non aveva mai causato problemi.

Qualche minuto dopo venne premuto un interruttore, ci fu uno scatto metallico e Pete si ripresentò con un paio di manette, che chiuse senza stringere troppo intorno ai polsi di Joey. I due uomini percorsero in silenzio il corridoio stretto e male illuminato, passando davanti alle celle buie dei detenuti addormentati; varcarono una porta, poi un’altra e infine uscirono nell’aria fresca e tersa della notte autunnale. Pete gli tolse le manette. Il cortile era un appezzamento d’erba marrone di diciotto metri per quindici – ogni detenuto ne conosceva le dimensioni esatte – delimitato da una recinzione di spessa rete metallica sormontata da riccioli di filo spinato tagliente, al di là della quale c’erano una seconda recinzione e un muro di mattoni alto cinque metri e mezzo. Per un’ora al giorno, Joey e altri due detenuti camminavano avanti e indietro nel cortile, contavano i passi, si raccontavano storie, facevano battute, si divertivano con i loro giochi e si godevano quei pochi, incommensurabili momenti di contatto umano.

Pete si fece da parte, si fermò accanto alla porta e osservò il suo prigioniero.

L’unica dotazione del cortile era un tavolo da picnic di metallo su cui i detenuti giocavano spesso a carte o a domino. Joey si sedette sul tavolo, viscido di rugiada, e guardò la luna. Era alta nel cielo di nordest, piena e con una sfumatura d’arancione, perfettamente rotonda.

Il braccio della morte serbava molti misteri. I cavernicoli che l’avevano progettato avevano cercato di costruire un’unità di massima sicurezza con il maggior numero possibile di caratteristiche punitive. Era questo che esigeva la società. I politici che finanziavano le carceri si facevano eleggere e rieleggere promettendo altre prigioni, sempre più dure, detenzioni più lunghe per i criminali e, naturalmente, un maggior utilizzo della camera della morte. Era per questo che Joey e gli altri dormivano su letti di cemento armato con sottili materassi in schiuma non più spessi di un paio di centimetri. Cercavano di tenersi caldi con coperte lise.

Vivevano in celle di tre metri per tre e sessanta, troppo piccole per un uomo e impossibili per due. Ma due era preferibile, perché l’isolamento era la tortura peggiore di tutte. Il braccio della morte era un basso edificio piatto con poche finestre perché, naturalmente, le finestre potevano suscitare pensieri di fuga. Le celle erano ammassate l’una all’altra all’interno, quanto più lontane possibile dai muri esterni avesse potuto progettarle un qualunque architetto cieco. Anni prima, molto tempo dopo essersi adattato al cibo di infima qualità, all’umidità soffocante dell’estate, al freddo che in inverno gelava le ossa, alle regole ridicole, alle urla continue e al chiasso insopportabile, molto tempo dopo aver trovato la pace in mezzo alla follia, Joey non era comunque mai riuscito ad accettare il fatto di non poter vedere la luna e le stelle di notte.

Perché no? Non c’era una risposta ragionevole. Non c’era nessuno disposto a prendere in considerazione la domanda. Era semplicemente uno dei tanti misteri.

Meno di otto ore da vivere. Joey Logan guardò la luna e sorrise.

Per la maggior parte della sua infanzia, per la maggior parte della sua vita prima del carcere, aveva vissuto all’aperto, in tende rubate e auto abbandonate, sotto ponti e cavalcavia della ferrovia, sempre ai bordi della città, nascondendosi, nascondendosi sempre. Lui e Lucas si muovevano nella notte, cercando cibo, forzando porte ed entrando nelle case, rubando qualunque cosa trovassero. La luna era spesso la migliore amica e spesso la peggiore nemica. Era la luna a dettare i loro piani, le strategie, i movimenti. Una luna piena in una notte senza nubi significava un certo piano di furto e fuga. Una luna crescente, un piano diverso. Una scheggia di luna, o niente luna del tutto, cambiava i piani e li obbligava a cercarsi un altro edificio in cui entrare a forza.

Vivevano nelle ombre create dalla luna, spesso nascondendosi alla polizia o ad altre autorità.

Molte notti, dopo aver cucinato il cibo rubato sul fuoco da campo in mezzo ai boschi, si sdraiavano sulla schiena e guardavano il cielo.

Studiavano le stelle, imparavano i nomi delle costellazioni da un libro di astronomia che avevano rubato e le guardavano cambiare con le stagioni.

Un furto in una casa li aveva dotati per caso di un potente binocolo, che avevano deciso di tenere invece di venderlo al ricettatore. Nelle notti serene restavano distesi al buio per ore a guardare la luna, studiandone i crateri e le valli, i rilievi e le pianure e le catene montuose. Lucas riusciva sempre a individuare il Mare della Tranquillità, il che non era poi così difficile. E poi giurava di vedere anche un modulo lunare abbandonato da una navicella spaziale Apollo. Joey, però, non l’aveva mai visto e sospettava che Lucas mentisse, com’era sua abitudine.

Lucas era il fratello maggiore e, di conseguenza, il capo della loro piccola, indesiderata famiglia.

Mentire e rubare era naturale come respirare e ascoltare per Lucas, e anche per Joey. Butta due ragazzini in mezzo a una strada, senza un centesimo e senza una briciola di cibo, e loro impareranno in fretta a commettere piccoli reati per sopravvivere.

Impareranno a mentire e a rubare. Chi potrebbe biasimarli?

La madre, una prostituta, li aveva abbandonati presto. Poi era morta, per droga. Joey aveva i capelli biondi, Lucas neri: padri diversi. Due uomini che non avevano lasciato niente dietro di sé, a parte il rispettivo seme e un po’ di contanti per la transazione. I bambini erano stati separati e poi spediti in varie case famiglia, orfanotrofi e centri per minorenni. Si erano riuniti quando Lucas era scappato, aveva rintracciato il fratello minore presso una famiglia affidataria e lo aveva portato con sé nei boschi, dove avevano vissuto in base alle loro regole e in qualche modo se l’erano cavata.

Una brezza fresca da ovest prese delicatamente forza, ma Joey ignorò il freddo. In una torre di guardia distante quattrocento metri si accese una luce. Due lampi, poi altri tre. Un qualche tipo di segnalazione di routine per divertire le guardie. Il carcere era ufficialmente chiuso e isolato in vista dell’esecuzione, il che significava un’altra serie di stupide regole studiate solo per rendere l’evento di gran lunga più drammatico di quanto fosse necessario. Joey aveva assistito a otto esecuzioni dall’interno del braccio della morte e sapeva che le misure di sicurezza rafforzate e gli strati extra di tensione venivano decisi da piccoli uomini che avevano bisogno di sentirsi importanti nel loro lavoro.

Come poteva un uomo sepolto da molti anni nel braccio della morte decidere all’improvviso di scappare per non essere giustiziato? Era un’idea ridicola. Nessuno scappava dal braccio della morte, non a piedi comunque.

Ma Joey stava per fuggire. Se ne sarebbe andato in un sogno, fluttuando lontano in una nuvola di sodio thiopental e bromuro di vecuronium, chiudendo semplicemente gli occhi per non svegliarsi mai più.

E a nessuno sarebbe importato. Forse da qualche parte, lontano, una famiglia si sarebbe rallegrata alla notizia che l’assassino se n’era andato, ma Joey non era un assassino. E forse la polizia e i procuratori distrettuali e tutti i gruppi duri-con-il-crimine si sarebbero scambiati strette di mano, proclamando che il loro meraviglioso sistema ancora una volta aveva funzionato, magari non perfettamente, magari con troppi ritardi, ma la giustizia aveva comunque trionfato. Un altro assassino se n’era andato. Lo Stato poteva rimpolpare le sue statistiche delle esecuzioni e sentirsi orgoglioso di se stesso.

Joey era così stanco di tutto. Non credeva nel paradiso e nell’inferno, credeva però in un aldilà, un posto dove spirito e corpo si ricongiungono, un posto dove le persone care si ritrovano.

Joey non aveva alcun desiderio di vedere sua madre, né di incontrare suo padre ed era certo che a quelle due persone non sarebbe stato consentito di entrare nel suo angolino di aldilà. Ma voleva disperatamente rivedere Lucas, l’unica persona che avesse mai tenuto a lui.

«Lucas, Lucas» mormorò tra sé, spostando il peso sul tavolo di metallo.

Da quanto tempo se ne stava seduto lì? Non ne aveva idea. Il tempo era un concetto difficile in quelle ultime ore.

Erano passati diciassette anni e Joey continuava a incolparsi della morte di Lucas. Era stato Joey a scegliere il bersaglio, una modesta casa in mattoni in una piccola fattoria a qualche chilometro dalla città. Era stato Joey ad andare in perlustrazione e a decidere che sarebbe stato un colpo facile. Avrebbero fatto il solito arraffa-e-scappa, forzato una porta, rubato il cibo dal frigo, magari una radio, un piccolo televisore, un paio di fucili, qualunque cosa avessero potuto vendere direttamente o al ricettatore. Non più di tre minuti dentro casa, che era più o meno la loro media.

L’errore era stato nella tempistica. Joey era convinto che la famiglia fosse fuori città.

L’auto non c’era. I quotidiani erano ammucchiati in fondo al vialetto d’accesso. Il cane non si vedeva. Avrebbero fatto il colpo alle tre di notte, con un quarto di luna, e sarebbero stati di ritorno nel bosco a cuocere bistecche sul fuoco prima dell’alba.

Ma il padrone della fattoria era in casa, e dormiva con un fucile da caccia accanto al letto.

Joey era sul patio nel retro con una cassa di birra tra le mani, quando aveva sentito gli spari. Lucas, che non andava da nessuna parte senza la sua pistola rubata preferita, era riuscito a fare fuoco due volte prima di essere fatto a pezzi da due colpi di fucile. C’erano state urla, poi luci e voci. Joey era tornato istintivamente di corsa dentro casa. Lucas stava morendo in fretta sul pavimento della cucina. Il padrone di casa era a terra in soggiorno, non ancora morto, ma ferito in modo fatale. Suo figlio era comparso dal nulla e, con una mazza da baseball, aveva pestato Joey fino a fargli perdere i sensi.

Due cadaveri non erano sufficienti. La giustizia ne esigeva ancora. Joey, il complice di sedici anni, era stato accusato di omicidio capitale, processato, giudicato colpevole, condannato a morte e adesso, diciassette anni dopo, guardava la luna e desiderava che le ore passassero in fretta.

Pete si avvicinò in silenzio con due tazze di carta piene di caffè nero. Ne passò una al suo prigioniero, poi gli si sedette accanto sul tavolo.

«Grazie, Pete» disse Joey, stringendo la tazza con entrambe le mani.

«Non c’è problema.»

«Quanto tempo è che sono qui fuori?»

«Non lo so. Venti minuti, forse. Hai freddo?»

«No. Sto bene. Grazie.»

Rimasero seduti a lungo senza dire nulla. Sorseggiarono il caffè forte e aromatico, evidentemente quello delle guardie, non dei detenuti.

«È una bella luna» disse Pete alla fine.

«Già. Grazie per avermi fatto uscire. È stato molto gentile da parte tua.»

«Non è niente, Joey. Ti ricordi di Odell Sullivan, quello che se n’è andato dieci, forse dodici anni fa?»

«Lo ricordo benissimo.»

«Anche lui ha voluto vedere la luna. La sua ultima notte siamo rimasti seduti qui per un’ora.

Ma era nuvoloso. Niente di paragonabile a questo.»

«Lui come stava?»

«Un disastro. Aveva ucciso la moglie, ricordi? E i suoi figli non gli parlavano più. Inoltre quel pazzo del suo avvocato radicale l’aveva convinto che da qualche parte c’era un tribunale intenzionato a concedere una sospensione dell’ultimo minuto e a salvargli la vita. L’attimo prima Odell faceva l’insolente, l’attimo dopo si metteva a piangere e poi dichiarava di essere innocente.

Penoso.»

«Da quanto tempo lavori qui?»

«Ventun anni.»

«Quante esecuzioni?»

«Tu sei il numero undici.»

«Degli altri dieci, quanti non hanno avuto paura di morire?»

Pete rifletté per un momento e poi rispose: «Due, forse tre. Senti dire continuamente:

“Preferisco morire, piuttosto che passare il resto della vita nel braccio della morte”, ma quando la fine è vicina quasi tutti perdono il coraggio.»

Ci fu un’altra lunga pausa, mentre tutti e due bevevano caffè e guardavano il cielo.

Joey puntò il dito verso l’alto e chiese: «La vedi quella grande macchia scura, esattamente al centro?».

«Certo» rispose Pete, anche se non ne era sicuro.

«Quello è il Mare della Tranquillità, dove ha camminato il primo uomo sulla luna. È stato creato dalla collisione con una cometa o un asteroide circa tre miliardi di anni fa. La luna si è presa una batosta. Può sembrare in pace, ma lassù c’è un mucchio di movimento.»

«Anche tu sembri in pace, Joey.»

«Oh, lo sono. Aspetto con piacere l’esecuzione. Questa l’hai mai sentita?»

«Nossignore.»

«Per quello che posso ricordare, è tutta la vita che desidero andare a dormire la sera e non svegliarmi più. Domani finalmente succederà. Sarò libero, Pete. Finalmente libero.»

«Continui a non credere in Dio?»

«No. Non ci ho mai creduto e adesso è troppo tardi. So che tu sei religioso, e io questo lo rispetto, ma ho letto la Bibbia più di te, ho avuto più tempo a disposizione, e il buon libro non fa che ripetere che Dio ha creato ognuno di noi, e ci ha resi speciali, e ci ama moltissimo e altre cose del genere. Ma è un po’ difficile crederci nel mio caso.»

«Io ci credo.»

«Be’, buon per te. I tuoi genitori sono ancora vivi?»

«Sì, grazie a Dio.»

«Una bella famiglia unita? Un mucchio di affetto, regali di compleanno e così via?»

Pete stava annuendo, a tempo con le domande. «Sì, sono un uomo fortunato.»

Joey bevve un sorso di caffè. «I miei genitori, se vogliamo chiamarli così, probabilmente non sapevano neppure i rispettivi nomi. Anzi, ci sono buone possibilità che mia madre non sapesse neppure di preciso chi l’aveva messa incinta. Io sono il prodotto di scarto di una notte di scarto. Io non dovevo nascere, Pete, nessuno mi voleva. Io sono l’ultima cosa che quelle due persone volevano. Come può Dio avere un piano per me, quando non dovrei neppure essere qui?»

«Dio ha un piano per tutti noi.»

«Be’, di sicuro vorrei che me l’avesse spiegato. A dieci anni ero già per strada, senza casa, senza scuola, e vivevo come un animale, rubando, scappando dai poliziotti. Non un granché come piano, se vuoi il mio parere. Tutto quell’amore che Dio dovrebbe avere per i suoi figli… be’, in qualche modo io devo essergli sfuggito.»

Joey si passò una manica sul viso. Pete si voltò a guardarlo e si accorse che stava asciugandosi le lacrime.

«Una vita sprecata» riprese Joey. «Voglio solo che finisca.»

«Mi dispiace, Joey.»

«Ti dispiace per cosa? Niente di tutto questo è colpa tua. Niente di tutto questo è colpa mia.

È successo e basta. Io sono stato un errore, un piccolo, triste errore patetico.»

Smisero di parlare, poi il caffè finì.

«Sarà meglio che andiamo adesso» disse Pete.

«Okay, e grazie ancora.»

Pete si allontanò e aspettò accanto alla porta. Dopo un attimo Joey si alzò in piedi, rigido ed eretto, senza paura e, quando si voltò, guardò la luna per l’ultima volta.