Racconto di Cesare Pavese

I.

Ci sono dei giorni che la città dove vivo, e i passanti, il traffico, gli alberi, tutto si sveglia al mattino con un aspetto strano, usuale eppure irriconoscibile, come in quegli istanti che ci si guarda nello specchio e si chiede «chi è quel tale?» Per me, sono i soli giorni amabili dell’anno.
In queste mattinate io scappo, se posso, un poco prima dall’ufficio e scendo nelle strade mescolandomi alla folla, e non ho ritegno di fissare ciascuno che passa, allo stesso modo che, immagino, qualche passante guarda me, perché davvero in questi momenti provo un senso di baldanza che mi rende un altr’uomo.
Sono convinto che nulla di più prezioso avrò mai dalla vita, se non forse la rivelazione di come mi possa venir fatto di provocare a piacimento questi istanti. Un modo di prolungarli che qualche volta mi è riuscito, è di sedermi in qualche caffè recente, invetriato e chiaro, e di qui cogliere il frastuono del viavai e della strada, il balenio dei colori e delle voci, e la calma interiore che regola tutto il tumulto.
Io ho sofferto in pochi anni delusioni e rimorsi cocentissimi, eppure posso affermare che il mio voto più cordiale è solamente questa pace e questa serenità. Non sono fatto per le tempeste e per la lotta: se anche in certe mattine scendo tutto vibrante a percorrere le vie, e il mio passo somiglia una sfida, ripeto che null’altro chiedo alla vita se non che si lasci guardare.
Eppure anche quest’umile piacere mi lascia talvolta l’amarezza propria di un vizio. Non è da ieri che mi sono accorto come a vivere sia necessaria un’astuzia, prima che verso gli altri, verso di sé. Io invidio quelli che riescono – sono specialmente le donne – a commettere una malazione, un’iniquità, o anche solo a soddisfare un capriccio, avendo predisposto una catena di circostanze tale che la loro azione risulti, davanti alla loro stessa coscienza, legittima. Io non ho grandi vizi – se pure questo ritrarsi dalla lotta per sfiducia e ricercare una solitaria serenità, non è il maggiore dei vizi possibili – ma nemmeno so usare astutamente di me stesso e possedermi, quando godo quel poco che mi è consentito.
Succede insomma che mi fermo talvolta sul corso e mi guardo d’attorno e mi chiedo se ho il diritto di godere di quella baldanza. Ciò accade specialmente quando le mie uscite sono più frequenti. Non ch’io rubi il tempo al mio lavoro; mi mantengo decentemente e mantengo in collegio una mia nipote sola al mondo che la vecchia, che si chiama mia madre, non vuole in casa. Ciò che mi chiedo è se non sono ridicolo in quella passeggiata dell’estasi: ridicolo e disgustoso. Perché penso talvolta che in verità non la merito.
Oppure, come è successo l’altra mattina, basta che assista in un caffè incautamente a qualche scena singolare che da principio m’inganna con la normalità dei suoi personaggi, per ricadere in preda a un colpevole senso di solitudine e a tanti desolati ricordi che, più s’allontanano, più scoprono nella loro immobile vita significati tortuosi e terribili.
Furono cinque minuti di scherzo fra la giovane cassiera e un avventore in soprabito chiaro, accompagnato da un amico. Il giovanotto gridava che la cassiera gli doveva il resto di un biglietto da cento e picchiava manate sulla cassa, pretendendo di perquisire la borsetta e le tasche.
— Giovanotta, così non si trattano i clienti, – diceva, ammiccando all’amico impacciato. La cassiera rideva. Il giovanotto inventò la storia di un viaggio che con quelle cento lire avrebbero fatto insieme sull’ascensore di un albergo diurno. Tra scoppi rattenuti di giocondità, decisero che avrebbero depositato quei soldi in una banca – quando li avrebbero avuti.
— Addio, giovinotta, – gridò infine uscendo. – Pensami stanotte.
La cassiera, eccitata e ridente, disse al cameriere: – Che tipo.
Avevo altre mattine osservata quella cassiera, e qualche volta sorridevo senza guardarla, in un istante di oblio. Ma la mia pace è troppo labile, è fatta di nulla. Mi venne il consueto rimorso.
Tutti siamo luridi a questo mondo, ma c’è una luridezza cordiale che sorride e fa sorridere, e un’altra solitaria che intorno a sé fa il vuoto. Dopotutto, la prima non è la più sciocca.
È in mattinate come quella, che mi sorprende, ogni volta rinnovato, il pensiero che di veramente colpevole nella mia vita non c’è che la sciocchezza. Altri forse causeranno un bel male con calcolo, con sicurezza di sé, prendendo interesse alla vittima e al gioco – e sospetto che molte soddisfazioni possa dare una vita così spesa quanto a me non ho mai fatto altro che soffrire di una grande, inetta incertezza e dibattermi, se vengo a contatto con altri, in una stupida crudeltà. Perché – non c’è rimedio – basta che mi pieghi qualche istante al rimorso della mia solitudine, e ripenso a Carlotta.
Da più di un anno è morta, e so ormai tutte le vie che il ricordo di lei può percorrere per sorprendermi. Se voglio posso anche riconoscere lo stato d’animo iniziale che prepara la sua apparizione e violentemente distrarmi. Ma non sempre voglio; e ancor adesso quel rimorso mi offre degli angoli bui, dei nuovi punti, che scruto con l’ansia trepida di un anno fa. Sono stato con lei tanto tortuosamente vero, che ognuna di quelle remote giornate mi ripresenta alla memoria non qualcosa di fisso, ma il volto elusivo che ha per me la stessa realtà di oggi.
Non che Carlotta fosse un mistero. Era anzi una di quelle donne troppo semplici – poverette – che se tralasciano un momento di essere fedeli a sé stesse e tentano un sotterfugio o una civetteria, diventano irritanti. Ma finché sono semplici, nessuno le nota. Non ho mai capito come sopportasse di guadagnarsi la vita facendo la cassiera. Sarebbe stata una sorella ideale.
Ciò di cui ancor oggi non ho toccato il fondo sono i miei sentimenti, il mio contegno d’allora. Che dire, per esempio, di quella sera che Carlotta s’era messa in abito di velluto – un vecchio abito – per ricevermi nel suo alloggetto di due stanze e io le dissi che l’avrei preferita in costume da bagno? Era una delle prime volte che andavo a trovarla e non l’avevo nemmeno ancora baciata.
Ebbene, Carlotta mi aveva fatta una timida smorfia e, ritirandosi nell’anticamera, era ricomparsa – incredibile – in costume da bagno. Fu quella sera, che l’abbracciai e la buttai sul divano; ma – una volta finito – le dissi che dopo amavo star solo e me ne uscii e per tre giorni non mi feci vedere e quando tornai le davo del lei.
Ricominciò allora un assurdo corteggiamento fatto di trepide confidenze dalla sua parte e di scarse parole dalla mia; d’improvviso le diedi del tu, ma Carlotta mi respinse. Allora le chiesi se s’era riconciliata con suo marito. Carlotta divenne piagnucolosa e mi disse: – Non mi ha mai trattata come mi tratta lei.
Fu facile farle poggiare il capo contro il mio petto e carezzarla e dirle che l’amavo – perché solo com’ero, non potevo amare quella specie di vedova? E Carlotta s’abbandonò, confessandomi piano che mi aveva voluto bene fin dal primo istante e che le sembravo un uomo straordinario, ma l’avevo già fatta soffrire molto, in quel poco tempo che c’eravamo conosciuti e lei – non sapeva perché – tutti gli uomini la trattavano in quel modo.
— Una calda e una fredda, – le sorrisi nei capelli, – fa durare l’amore.
Carlotta era pallida, con degli occhi enormi un poco consunti dalla stanchezza, e aveva pallido anche il corpo. Quella notte mi chiese nell’ombra della sua camera se l’avevo lasciata quell’altra volta perché non mi piacesse il suo corpo.
Ma nemmeno stavolta ebbi pietà e nel mezzo della notte mi rivestii e non accampai pretesti, dissi che dovevo muovermi e uscire. Carlotta voleva uscire con me. – No, mi piace star solo, – e la lasciai con un bacio.

II.

Quando conobbi Carlotta, uscivo da una burrasca che per poco non m’era costata la vita; e provavo un’amara ilarità a ritornare per le vie deserte fuggendo da chi mi amava. Per tanto tempo era toccato a me di passare le notti e i giorni umiliato e inferocito dal capriccio di una donna.
Ora sono convinto che nessuna passione ha tanta forza da mutare la natura di chi la subisce. Si può morirci, ma le cose non cambiano. Passato l’orgasmo, si ritorna onest’uomo o furfante, padre di famiglia o ragazzo, secondo che si era, e si vive la propria giornata. O meglio: si è veduta nella crisi la propria vera natura, e questa c’inorridisce e la normalità ci disgusta, e si vorrebbe magari essere morti tanto l’insulto che ci è fatto è atroce, ma non c’è altri da accusare se non noi. Io debbo a quella donna se mi sono ridotto a questa vita singolare che conduco, alla giornata, senza scopo, incapace di stringere un legame col mondo, disamorato del prossimo – disamorato di mia madre che sopporto, e di mia nipote che non amo –: debbo a lei tutto, ma sarei finito meglio con un’altra? Con un’altra, intendo, che fosse capace di umiliarmi come la mia natura esigeva?
Tuttavia, allora, il pensiero che mi veniva fatta una mala azione, che la mia donna si poteva chiamar perfida, mi aveva dato qualche conforto. A un certo grado di sofferenza è inevitabile, è un naturale anestetico, che si pensi di patire ingiustamente: ciò rimette in vigore, secondo i nostri più gelosi desideri, il fascino della vita, ridà il senso del nostro valore di fronte alle cose; adula. Avevo provato e avrei voluto che l’ingiustizia, l’ingratitudine, fossero state anche più atroci. Ricordo – in quelle lunghe giornate, in quelle sere d’angoscia – un senso diffuso e segreto come un’atmosfera o un’irradiazione: lo stupore che tutto accadesse, che la donna fosse proprio la donna, che i deliri e gli spasimi fossero quelli, che i sospiri, le parole, i fatti, io stesso, tutto accadesse davvero così.
Ed ecco che, avendo sofferto un’ingiustizia, ricambiavo di quest’ingiustizia, come avviene in questo mondo, non la colpevole ma un’altra.
Dall’alloggetto di Carlotta me ne uscivo di notte sazio e svagato, e mi compiacevo di girarmene solo, allontanando ogni sollecitudine, godendo in libertà quel lungo viale, inseguendo vagamente sensazioni e pensieri della prima giovinezza. La semplicità della notte – buio e lampioni – mi ha sempre accolto teneramente, consentendomi le più assurde e care fantasie, colorandole col suo contrasto e ingigantendole. Persino il sordo rancore che portavo a Carlotta per la sua bramosa umiltà, aveva qui liberamente gioco, sciolto da un certo impaccio che la pietà per lei mi faceva sentire in sua presenza.
Ma non ero più giovane. Per staccarmi meglio Carlotta, ripensavo e anatomizzavo il suo corpo e le sue carezze. Consideravo crudamente che, separata dal marito com’era, e giovane ancora e senza figli, non le doveva parer vero di trovare in me il suo sfogo. Ma – poveretta – era una troppo semplice amante e forse già il marito l’aveva tradita per questo.
Ricordo la sera che ritornavamo dal cinema a braccetto, girando per le strade semibuie, e Carlotta mi disse:
— Sono contenta. È bello andare con te al cinematografo.
— Andavi mai con tuo marito?
Carlotta sorrideva. – Sei geloso?
Alzai le spalle. – Tanto non cambia nulla.
— Sono stanca, – diceva Carlotta, stringendosi al mio braccio, – quest’inutile catena che ci lega, rovina la vita a me e a lui, e mi costringe a rispettare un nome che mi ha fatto soltanto del male. Si dovrebbe poter divorziare, almeno quando non ci sono dei figli.
Quella sera ero intenerito dal lungo contatto tiepido e dal desiderio.
— Hai degli scrupoli, insomma?
— Oh caro, – disse Carlotta, – perché non sei sempre buono come stasera? Pensa, se io potessi divorziare.
Non dissi nulla. Una volta, che mi parlava di divorzio, ero scattato. – Ma fa’ il piacere, chi sta meglio di te? Fai quello che vuoi, e scommetto che ti passa ancora un tanto, se è vero che ti ha tradita lui.
— Non ho mai voluto nulla, – aveva risposto Carlotta. – Da quel giorno lavoro, – e mi aveva guardato. – Adesso poi che ho te, mi sembrerebbe di tradirti.
Quella sera del cinema, le avevo chiuso la bocca con un bacio. Poi l’avevo condotta al caffè della stazione e le avevo fatto bere due bicchieri di liquore.
Nella luce vaporosa dei vetri sedevamo in un angolo come due innamorati. Bevvi anch’io parecchi bicchieri e le dissi forte:
— Carlotta, facciamo un figlio, stanotte?
Qualcuno ci guardò perché ridente e rossa in faccia Carlotta mi chiuse la bocca con la mano.
Io parlavo, parlavo. Carlotta parlava del film e diceva sciocchezze, ma sciocchezze appassionate, confrontandoci alla trama. Io bevevo, sapendo ch’era l’unico modo per voler bene a Carlotta.
Fuori, il freddo ci rianimò e corremmo a casa. Rimasi con lei tutta la notte e risvegliandomi al mattino me la sentii accanto scarmigliata e assonnata che cercava di abbracciarmi. Non la respinsi; però alzandomi mi doleva la testa e m’irritava la gioia contenuta con cui Carlotta mi preparò, canterellando, il caffè. Poi dovevamo uscire insieme, ma ricordò la portinaia e mi mandò primo, non senza abbracciarmi e baciarmi dietro la porta.
Di quel risveglio il mio ricordo più vivo sono i rami degli alberi del corso che trasparivano rigidi e stillanti nella nebbia, dietro le tendine della stanza. Quel tepore e quella sollecitudine all’interno e l’aria brulla del mattino che attendeva, mi animarono il sangue; solamente avrei voluto contemplare e fumare, da solo, fantasticando un ben altro risveglio e un’altra compagna.
La tenerezza che Carlotta mi strappava in questi casi, non appena ero solo me la rimproveravo. Passavo istanti furibondi a frugarmi nell’animo per affrancarmi dal più povero ricordo di lei e a ripromettermi durezze che mantenevo anche troppo. Doveva essere chiaro che ci amavamo per ozio, per vizio, per qualunque motivo, tranne il solo di cui lei voleva illudersi. M’irritava il ricordo del suo sguardo grave e beato dopo l’amplesso, che m’indignavo di vederle in faccia, mentre la sola dalla quale l’avrei voluto non me l’aveva dato mai.
— Se mi accetti così come sono, bene, – le dissi una volta, – ma levati dalla testa di entrare nella mia vita.
— Non mi vuoi bene? – balbettava Carlotta.
— Quel po’ d’amore di cui ero capace, l’ho bruciato quand’ero giovane.
Ma qualche volta m’incollerivo di avere ammesso per vergogna o per libidine di volerle un po’ di bene.
Carlotta tentava di sorridere.
— Siamo almeno buoni amici?
— Senti, – le dicevo, serio, – queste storie mi ripugnano: siamo un uomo e una donna che si annoiano, e stiamo bene nel letto…
— Oh questo sì, – diceva adunghiandomi il braccio e nascondendo la faccia, – mi piaci, mi piaci.
— …E non c’è altro.
Bastava uno di questi colloqui dove mi pareva d’essere stato debole, per evitarla settimane intiere e se dal suo caffè mi telefonava all’ufficio, risponderle che avevo da fare. La prima volta Carlotta tentò di sdegnarsi. Le feci allora passare una sera d’angoscia, seduto freddamente sul divano – il paralume le sprigionava sulle ginocchia una luce bianca – e sentivo nella penombra lo spasimo contenuto dei suoi sguardi. Io stesso nell’intollerabile tensione dissi infine: – Ringraziami, signora: ricorderai questa seduta forse più di molte altre.
Carlotta non si mosse.
— Perché non mi ammazzi, signora? Se ti credi di fare la donna con me, perdi il tempo. I capricci li faccio da me.
Carlotta ansimava.
— Nemmeno il costume da bagno, – le dissi, – ti serve stanotte…
Carlotta mi balzò innanzi e vidi il suo capo nero passare nella luce bianca come un oggetto lanciato. Gettai le mani innanzi. Ma Carlotta mi crollò alle ginocchia e piangeva. Le posai due o tre volte la mano sul capo e mi alzai.
— Dovrei piangere anch’io, Carlotta. Ma so che non serve. Tutto questo che tu provi, l’ho provato. Sono stato per uccidermi e poi mi è mancato il coraggio. Questa è la burla: chi è tanto debole da pensare al suicidio è troppo debole per farlo… Su, sta’ buona, Carlotta.
— Non trattarmi così… – balbettava.
— Non ti tratto così. Ma lo sai che mi piace star solo. Se mi lasci andar solo, ritorno; altrimenti non ci vedremo più. Senti, vorresti che ti amassi?
Carlotta levò il viso sfigurato, sotto la mia mano.
— …E allora smetti di amar me. Non c’è altro modo. È la lepre che fa il cacciatore.
Scene di questo genere scuotevano troppo a fondo Carlotta, perché pensasse di lasciarmi. E poi, non denotavano una fondamentale similarità di tempre? Carlotta era semplice in fondo – troppo semplice – e non poteva accorgersene con chiara visione, ma certo lo sentiva. Tentò – disgraziata – di allacciarmi con lo scherzo, e diceva talvolta: «Così è la vita» e «Poveretta me».
Io credo che, se mi avesse allora risolutamente respinto, un poco avrei sofferto. Ma Carlotta non poteva respingermi. Se mancavo due sere di fila la trovavo con gli occhi infossati. E se talvolta mi prendeva la pietà o la tenerezza e mi fermavo al suo caffè e le chiedevo di uscire, s’alzava avvampando e confondendosi, persino più bella.
Il mio rancore non colpiva lei; colpiva ogni limitazione e ogni asservimento che la nostra intimità accennasse a crearmi. Siccome non l’amavo, il suo più piccolo diritto su di me mi appariva mostruoso. C’erano giorni che darle del tu mi faceva ribrezzo, mi avviliva. Chi era per me questa donna, per tenermi a braccetto?
In compenso, mi pareva di rinascere, certe mezze giornate, certe ore che, sbrigato il lavoro, me ne potevo andare nel fresco sole per le vie luminose, sgombro da lei, da tutto, sazio di corpo e assopito l’antico dolore d’un tempo: teso a vedere, a fiutare, a sentire come quand’ero giovane. Che Carlotta soffrisse d’amore per me, alleviava e immiseriva le mie pene passate, me le estraniava un poco, come di un mondo risibile, e lontano da lei mi ritrovavo intatto e meglio esperto. Era la spugna che mi ripuliva, pensavo di lei sovente.

III.

Certe sere che parlavo, parlavo, e assorbito nel gioco ridiventavo un ragazzo, dimenticavo il mio rancore.
— Carlotta, – dicevo, – come si sta da innamorati? Da tanto tempo non lo sono. Credo, tutto sommato, che sia bello. Se va bene si gode, se va male si spera. Mi hanno detto che si vive alla giornata. Come si sta, Carlotta?
Carlotta scuoteva il capo sorridendo.
— E poi, si fanno tanti bei pensieri, Carlotta. Quello che amiamo e non ne vuol sapere, non sarà mai tanto felice come noi. A meno che, – sorridevo, – non vada in letto con qualche altra e se la rida.
Carlotta aggrottava le ciglia.
— Bella cosa l’amore, – concludevo. – E nessuno gli sfugge.
Carlotta mi serviva da pubblico. Parlavo per mio conto in queste sere. È il parlare più bello.
— C’è l’amore e c’è il tradimento. L’amore per goderlo veramente, bisogna che sia anche un tradimento. È questo che non capiscono i ragazzi. Voialtre donne lo sapete più presto. Tu l’hai tradito tuo marito?
Carlotta tentava un sorriso sottile, arrossendo.
— Noialtri ragazzi eravamo più stupidi. C’innamoravamo scrupolosamente di un’attrice o di una compagna e le offrivamo i nostri migliori pensieri. Soltanto, ci dimenticavamo di dirglielo. Ch’io sappia, nessuna ragazza alla nostra età ignorava che l’amore è un problema d’astuzia. Pare impossibile, i ragazzi vanno nelle case di tolleranza e ne concludono che le donne di fuori sono diverse. Tu che cosa facevi a sedici anni, Carlotta?
Ma Carlotta aveva un altro pensiero. Mi diceva con gli occhi, prima di rispondere, che ero cosa sua, e io odiavo la durezza di quella sollecitudine che le irradiava dallo sguardo.
— Che cosa facevi a sedici anni? – ripetevo fissando terra.
— Niente, – rispondeva grave. Sapevo quel che pensava.
Poi mi chiedeva perdono, si dava della poveretta, riconosceva di non aver diritto, ma quel lampo era bastato. – Lo sai che sei stupida? Per quel che importa a me, tuo marito potrebbe anche riprenderti –. E me ne andavo sollevato.
L’indomani ricevevo in ufficio una timida telefonata e rispondevo seccamente. La sera ci vedevamo.
Carlotta si divertiva quando le parlavo della mia nipote collegiale e scuoteva il capo incredula quando le dicevo che avrei voluto chiudere in collegio piuttosto mia madre, e vivere con la bambina. C’immaginava come due esseri a parte che fingono di essere zio e nipote ma in realtà hanno tutto un mondo di segreti e di dispetti che li contenta e li assorbe. Mi chiedeva scontrosa se non era mia figlia.
— Sicuro, e mi è nata quando avevo sedici anni. E ha voluto esser bionda per farmi dispetto. Come si fa a nascere biondi? Per me i biondi sono animali come le scimmie o i leoni. Mi parrebbe di essere sempre al sole.
Carlotta diceva: – Io ero bionda da piccola.
— Io invece ero calvo.
In quegli ultimi tempi provavo per il passato di Carlotta un’annoiata curiosità che mi lasciava di volta in volta dimenticare quanto mi avesse raccontato prima. La scorrevo come si scorre la cronaca. Giocavo a confonderla con uscite bizzarre, le facevo domande crudeli e rispondevo da me. In realtà non ascoltavo che me stesso.
Ma Carlotta m’aveva capito. – Raccontami, – diceva certe sere, stringendomi al braccio. Sapeva che farmi parlare di me era l’unico modo per avermi suo amico.
— Ti ho mai detto, Carlotta, – le dissi una sera, – che un uomo si è ucciso per me? – Mi guardò tra ridente e sbalordita.
— C’è poco da ridere, – continuai. – Ci siamo uccisi insieme, ma lui c’è restato. Cose di gioventù –. Strano, pensavo allora, non l’ho mai raccontato a nessuno: proprio a Carlotta mi tocca. – Un mio amico, un bel biondo. Lui sì che pareva un leone. Voi ragazze non fate di queste amicizie. A quell’età siete già troppo gelose. Noi andavamo a scuola insieme, ma ci vedevamo sempre la sera. Dicevamo porcherie come si fa tra ragazzi, ma c’eravamo innamorati di una signora. Dev’essere ancora viva. È stata il nostro primo amore, Carlotta. Passavamo la sera a discorrere d’amore e di morte. Nessun innamorato è mai stato più certo d’essere compreso dall’amico, che noi due. Jean – si chiamava Jean – aveva una tristezza baldanzosa che mi faceva vergognare. Creava tutta lui la malinconia di quelle sere che passeggiavamo nella nebbia. Non avremmo mai creduto che si potesse soffrire tanto…
— Anche tu eri innamorato?
— Soffrivo di essere meno malinconico di Jean. Finalmente scoprii che potevamo ucciderci e glielo dissi. Jean entrò adagio nell’idea, lui che di solito era tutto una fantasia. Avevamo una sola rivoltella. Andammo in collina a provarla, caso mai scoppiasse. Fu Jean che sparò. Era sempre stato temerario, e credo che se avesse lui smesso di amare la bella, avrei smesso anch’io. Dopo la prova – eravamo in un viottolo nudo, d’inverno, a mezza costa – pensavo ancora alla violenza del colpo, quando Jean si poggiò la canna in bocca e diceva: «C’è di quelli che fanno…» e parti il colpo e l’ammazzò.
Carlotta mi guardava esterrefatta.
— Io non seppi che fare e scappai.
Quella sera Carlotta mi disse: – E tu volevi davvero bene a quella donna?
— A quella donna? Amavo Jean, te l’ho già detto.
— E volevi ucciderti anche tu?
— Certamente. E sarebbe stata una sciocchezza. Ma non farlo fu una grande vigliaccheria. Certe volte ho rimorso.
Carlotta si ricordò sovente di quel racconto e mi parlava di Jean come l’avesse conosciuto. Se lo faceva descrivere e mi chiedeva com’ero io a quel tempo. Mi chiese se avessi conservato la rivoltella.
— Non ucciderti, sai. Non hai mai pensato di ucciderti? – Così dicendo mi scrutava.
— Tutte le volte che uno è innamorato ci pensa.
Carlotta non sorrideva nemmeno.
— Ci pensi ancora?
— Penso a Jean, qualche volta.

IV.

Carlotta mi faceva molta pena a mezzogiorno quando tornando dall’ufficio passavo dinanzi ai vetri del suo caffè e mi nascondevo per non essere costretto a entrare e farle un po’ di feste. A mezzogiorno, non tornavo a casa e mi piaceva troppo starmene solo in una trattoria quell’oretta, socchiudendo gli occhi e fumando. Carlotta, seduta nel suo scanno, staccava macchinalmente tagliandi e faceva dei cenni del capo e sorrideva e s’aggrottava, e qualche avventore le scherzava insieme.
Era là dal mattino alle sette e ci stava fino alle quattro del pomeriggio. Era vestita di celeste. Le davano quattrocento e ottanta lire al mese. Carlotta era contenta di sbrigarsi tutto in una volta, e pranzava con un tazzone di latte, senza lasciare il suo posto. Sarebbe stato un lavoro facile – mi diceva – senza gli schianti repentini della porta sbattuta nell’andirivieni. C’era delle volte che se li sentiva come pugni sul cervello nudo.
È da quel tempo che, quando entro nei caffè, accompagno la porta. Con me, Carlotta cercava di descrivermi le scenette degli avventori, ma non le riusciva il mio modo di parlare, come non le riusciva di scuotermi coi suoi furtivi accenni alle proposte che qualche vecchiotto le faceva.
— E tu stacci, – le dissi, – solamente non farmelo vedere. Ricevilo i giorni dispari. È attenta alle malattie.
Carlotta storceva la bocca.
Da qualche giorno un pensiero la rodeva. – Siamo di nuovo innamorate, Carlotta? – le dissi una sera.
Carlotta mi guardava come un cane bastonato. Io tornavo a spazientirmi. Quelle occhiate lucenti, la sera, nella penombra della stanzetta, quelle strette di mano, mi facevano rabbia. Temevo sempre con Carlotta di legarmi. E odiavo che anche solo ci pensasse.
Mi rifeci taciturno e villano. Ma Carlotta non accoglieva più i miei scatti con l’orgasmo umiliato di una volta. Mi fissava restando immobile, e qualche volta con un gesto affettuoso si sottraeva alla carezza che allungavo per rabbonirla.
Ciò mi piacque anche meno. Farle la corte per averla, mi ripugnava. Ma la cosa non avvenne di colpo. Diceva Carlotta:
— Ho un mal di capo… quella porta! Stiamo buoni stasera. Raccontami.
Quando mi accorsi che Carlotta faceva sul serio e si dava della disgraziata e scavava rimorsi, non ebbi più scatti violenti: semplicemente la tradii. Rivissi qualcuna delle opache sere di un tempo, quando di ritorno da una casa di tolleranza mi sedevo in un qualunque caffeuccio a riposare, senza gioia e senza tristezza, intontito. Pensavo ch’era giusto: o si accetta l’amore con tutti i suoi rischi o non resta che la prostituzione.
Pensavo che fosse da parte di Carlotta una finta di gelosia e me la ridevo. Carlotta soffriva. Ma era troppo semplice per trarre profitto dalla sua pena. Anzi, come avviene di chi soffre veramente, imbruttiva. Mi rincresceva, ma sentivo che dovevo abbandonarla.
Carlotta previde il colpo. Una sera ch’eravamo nel letto e io evitavo istintivamente il discorso, a un tratto mi respinse e si rannicchiò alla parete.
— Che cos’hai? – chiesi irritato.
— Se io domani sparissi, – mi disse volgendosi improvvisamente, – t’importerebbe qualcosa?
— Non so, – balbettai.
— E se ti tradissi?
— La vita è tutto un tradimento.
— E se tornassi da mio marito?
Diceva sul serio. Alzai le spalle.
— Sono una povera donna, – riprese Carlotta. – E non sono capace di tradirti. Ho veduto mio marito.
— Come?
— È venuto al caffè.
— Ma non era scappato in America?
— Non so, – disse Carlotta. – L’ho veduto al caffè.
Forse non voleva dirmelo ma le scappò che col marito c’era una signora in pelliccia.
— Allora non vi siete parlati?
Carlotta esitò. – È ritornato l’indomani. Mi ha parlato e mi ha accompagnata a casa.
Debbo ammettere che mi sentii a disagio. Dissi piano: – Qui?
Carlotta si strinse a me con tutto il corpo. – Ma io ti voglio bene, – sussurrò. – Non credere…
— Qui?
— Niente, caro. Mi ha parlato dei suoi affari. Solamente, a rivederlo ho capito quanto ti voglio bene e non tornerei più con lui nemmeno se mi pregasse.
— Ti ha pregato, allora?
— No, mi ha detto che, se dovesse sposarsi un’altra volta, sposerebbe ancora me.
— E l’hai visto ancora?
— È tornato al caffè con quella…
Fu l’ultima volta che passai la notte con Carlotta. Senza aver preso congedo dal suo corpo, senza rimpianti, smisi di sollecitarla e d’incontrarla in casa. Lasciai che mi telefonasse e mi aspettasse nei caffè, non ogni sera ma di tanto in tanto. Carlotta veniva ogni volta e mi divorava con gli occhi. Sul punto di lasciarci, le tremava la voce.
— Non l’ho mai più veduto, – sussurrò una sera.
— Fai male, – le risposi, – dovresti cercare di riprenderlo.
M’irritava che Carlotta avesse – come senza dubbio aveva – rimpianto il marito, e mi irritava che avesse sperato di stringermi a sé con quel discorso. E quell’amore bianco non valeva né i rimorsi di Carlotta né il mio rischio.
Una sera le dissi al telefono che sarei passato a casa sua. Venne ad aprirmi incredula e ansiosa. Mi guardai attorno nell’anticamera con qualche apprensione. Carlotta era vestita di velluto. Ricordo che era raffreddata e non smetteva di stringere il fazzoletto e portarselo al naso arrossato.
Vidi subito che aveva capito. Fu docile e taciturna, e rispondeva alle mie frasi con povere occhiate. Mi lasciò dire ogni cosa guardandomi furtivamente al disopra del fazzoletto. Poi si alzò in piedi e mi venne incontro e poggiò il suo corpo sul mio viso e dovetti abbracciarla.
— Non vieni a letto? – disse piano con la solita voce.
Andai a letto, e tutto il tempo mi dispiacque il viso umido e infiammato dal raffreddore. A mezzanotte saltai dal letto e presi a vestirmi. Carlotta accese la luce e mi guardò un istante. Poi spense e mi disse: – Esci pure –. Imbarazzato e incespicando, me ne andai.
Temevo, nei giorni che seguirono, una telefonata, ma nulla mi disturbò. Lavorai in pace settimane e settimane e una sera mi riprese il desiderio di Carlotta, ma l’onta mi aiutò a vincermi. Pure, sapevo che se avessi suonato a quella porta, avrei portato la felicità. Questa certezza l’avevo sempre avuta.
Non cedetti, ma l’indomani a mezzogiorno passai davanti al suo caffè. Alla cassa, c’era una bionda. Doveva aver cambiato orario. Ma nemmeno alla sera la vidi. Pensai che fosse malata o che il marito l’avesse ripresa. Quest’idea mi dispiacque.
Ma mi tremarono le gambe, quando la portinaia del corso fissandomi con due occhietti duri e molta mala grazia, mi disse che l’avevano trovata un mese prima, morta nel letto, col gas aperto.