Racconto di John Fante

 

I

 

Si chiamava Frank Gagliano e non credeva in Dio. Era l’operaio più singolare e stupefacente dell’impresa di costruzioni, un muratore mancino. Come mio padre, Frank veniva da Torricella Peligna, un paese abbarbicato su una montagna in Abruzzo. Svelto come un ragno, per tutto l’anno indossava un cappello di pelle e delle mollettiere, e aveva le gambe così arcuate che un cane avrebbe potuto farci una capriola in mezzo senza toccarle.

Spesso, ma non sempre, Frank era il miglior amico di mio padre. Però sempre, senza eccezione, era il mortale nemico di mia madre. Per la sua mentalità, Frank Gagliano era un perfido discepolo del demonio la cui sinistra filosofia la faceva rabbrividire. Subito dopo la vergogna di un prete spretato, lei credeva che l’ateismo fosse la condizione più degradante per un uomo.

Quell’estate del 1925 in Colorado, avevo dieci anni, ero seduto sui gradini della veranda con Buck, il mio airedale, quando mio padre e Frank si avvicinarono sulla Arapahoe Street. Molto prima di vederli, avevo sentito la voce di Frank, stridula, metallica, così acuta e gracchiante che sembrava scuotere anche gli olmi. Buck aprì un occhio, drizzò le orecchie e cominciò a ringhiare perché nutriva per Gagliano la stessa ripugnanza di mia madre, la quale, avendo sentito la sua voce frastornante, emerse sulla veranda con una scopa in mano. I suoi occhi verdi mandavano fiamme per l’offesa, e si fermò sopra Buck e me come un angelo che sta di guardia con la spada alla tomba di Nostro Signore.

Quando Frank e mio padre entrarono nel cortile, i peli della schiena di Buck si drizzarono come aculei di porcospino e ringhiò scoprendo le zanne. Mia madre spinse in avanti la parte di saggina della scopa.

«Fermo dove sei, Frank Gagliano!», ordinò. «In questa casa non sei il benvenuto».

Frank e mio padre si fermarono.

«La fai finita?», disse papà. «Quest’uomo è mio amico. Ora si beve un bicchiere di vino con me, le sue opinioni non ti riguardano». Prese Gagliano per un braccio. «Vieni, Frank. Non farci

caso. È anche casa mia».

Ma Frank non si mosse. Con un sorriso soave, alzò una mano. «Aspetta un attimo», disse.

«Sistemiamo questa faccenda una volta per tutte. Signora, a lei forse non piacciono le mie idee, ma le ho mai fatto niente?».

«Detesti Dio!», ribatté mia madre. «E nessun uomo che detesta Dio può venire a profanare

la casa dove vivo con mio marito e con i miei figli».

«Lei non mi conosce, signora», disse Frank, cercando di essere ragionevole. «Io non “detesto” Dio. È solo che non ci credo».

Questo fece trasalire mia madre. Frank non avrebbe potuto dire niente di peggio. Dispiaciuta per avergli rivolto la parola, guardò mio padre con un’espressione minacciosa.

«Mandalo via», lo ammonì. «Se entra lui, esco io». Incrociò le braccia stringendo la scopa.

«Scegli. O lui o io».

Il suo ultimatum fece alzare Buck, che si accovacciò mentre un ringhio selvaggio gli usciva da dentro le costole. I piccoli occhi neri di Frank erano fissi sul cane.

«Non voglio nemmeno guai con il tuo cane», disse.

Mio padre dette un’occhiata malevola a mia madre e mise una mano sulla spalla di Frank.

«Dà retta a me, Frank. Vai al capanno e io prendo il vino. Poi ce lo beviamo in pace».

«Per me va bene», disse Frank. Guardò Buck. «E quel botolo rognoso?».

«Non ti farà niente», disse papà. «E’ tutto fumo e niente arrosto».

«Non è vero!», dissi io. «Può suonarle a chiunque!».

Frank fece un passo in avanti. Svelta come una ragazzina mia madre scese i gradini della veranda per fermarlo. Buck le fu subito accanto, ringhiando e sbavando.

«Vattene, Buck!», gli ordinò mio padre. Si girò verso di me. «Leva di torno quel botolo».

Saltai in piedi e presi Buck per il collare. Lui si girò immediatamente e mi morse tre dita.

Non fu un morso cattivo e lacerante, era solo il modo di un cane per avvertirmi di non intromettermi.

Urlai e mi succhiai la mano. Mia madre me la levò di bocca ed esaminò i segni che i denti avevano lasciato sulle nocche. La pelle era intera.

«Guarda che hai combinato!». Incenerì Frank con uno sguardo. Poi furiosa spinse la scopa in avanti come se fosse stata una baionetta. «Vattene dalla mia proprietà!».

«La “tua” proprietà?». Il tono di mio padre era addolorato.

Frank tornò sulla strada.

«Non fa niente», disse sarcastico. «Non fa niente, davvero!». La sua voce scosse il quartiere.

«Capisco quando non sono desiderato».

Se ne andò lungo il marciapiede, inseguito da Buck che gli abbaiava alle mollettiere, e che mio padre cercava inutilmente di richiamare. Improvvisamente Frank Gagliano si girò e tirò un calcio al cane col piede sinistro, e per quanto l’avesse mancato, lui ululò dalla paura e corse in mezzo alla strada, da dove continuò ad abbaiare furiosamente seguendo Frank a distanza di sicurezza.

Ora i miei genitori erano faccia a faccia. Era una delle poche volte in cui mia madre era riuscita a imporre la sua volontà in una crisi familiare. La sua disapprovazione, i suoi occhi

fiammeggianti, e la determinazione a non piegarsi sotto l’amaro sarcasmo di mio padre lo lasciarono nauseato e incredulo. Esausto si lasciò cadere sui gradini della veranda, e si prese la testa fra le mani, dondolandosi avanti e indietro.

«Che Dio mi aiuti», mugolò.

Mia madre con uno scatto gli passò accanto ed entrò in casa, sbattendo forte la zanzariera.

Lui cercò un mozzicone di sigaro nel taschino della camicia e se lo ficcò in bocca. Mentre frugava nei pantaloni cercando un fiammifero, la zanzariera si spalancò e ne uscì la mamma, che si teneva stretto un fiasco al seno. Riconobbi la bottiglia. Conteneva acqua santa, benedetta in modo speciale per uso domestico.

(Mia madre e mia nonna facevano affidamento sull’acqua santa per molte cose. Veniva sparsa nella stanza dove giaceva un malato o nella camera dove un bambino si svegliava urlando per un incubo. Veniva spruzzata sullo stipite della porta durante il temporale. Ma principalmente veniva usata in soffitta, dove, due o tre volte l’anno, sentivamo scricchiolare dei passi inspiegabili).

Stappando la bottiglia, mia madre scese i gradini e andò dove era stato Frank Gagliano. Si riempì la mano d’acqua e la sparse per terra, poi percorse il vialetto fino alla strada gettando l’acqua come un contadino quando semina, e liberando così il giardino da qualsiasi resto della presenza di Frank Gagliano. Mio padre ne fu tanto disgustato che abbassò la testa e chiuse forte gli occhi, cancellando così la scena. Ma quando la mamma ritornò ai gradini della veranda, lui le rivolse uno sguardo pieno di disprezzo. Allora lei rapidamente si riempì la mano d’acqua santa e gliela tirò in faccia.

 

II

 

Mia madre poteva allontanare Frank Gagliano dalla casa, ma che fosse socio di mio padre perché era un muratore, era un fatto economico della vita che doveva accettare. Quello era l’anno in cui mio padre, Gagliano, e un terzo muratore che si chiamava Luke, lavoravano al nuovo negozio di J.C. Penney in centro a Boulder.

Anch’io ero membro della squadra di mio padre – ero il ragazzo che portava l’acqua. Il mio lavoro consisteva nell’arrampicarmi sull’impalcatura ogni mezz’ora con un secchio pieno d’acqua fresca nel quale avevo spremuto il succo di un limone. I muratori vi immergevano una tazza di latta, si sciacquavano la bocca, sputavano giù verso la terra distante, poi bevevano.

Per un ragazzino era un lavoro grande e importante, specialmente via via che il muro cresceva e l’impalcatura si alzava. C’era sempre gente che guardava quando mi inerpicavo su per la scala con spavalderia, tenendo il secchio con una mano. E spesso c’era qualcuno dei miei amici, allora io temerariamente lasciavo la presa e lo salutavo con l’altra mano. Mio padre mi aveva dato un cartellino, esattamente uguale a quello dei manovali e a quello dei muratori, e io lo firmavo alla fine di ogni giornata. Un lavoro perfetto, tranne che per la presenza di Frank Gagliano.

A mezzogiorno avevo il privilegio di mangiare con gli altri lavoratori con la mia pietanziera personale, e i muratori, i falegnami e gli elettricisti mi trattavano proprio come se fossi stato un adulto. Si parlava di caccia, pesca, baseball, e mi stavano a sentire ogni volta che facevo un commento o una domanda. Ma sempre, quando il pasto era terminato e i lavoratori si accendevano le sigarette, Frank Gagliano monopolizzava la conversazione. Fino ad allora silenzioso, cominciava con una frase del tipo: «La sapete quella del vescovo e dei tre chierichetti?».

La sua voce acuta e metallica richiamava subito l’attenzione, perché agli uomini le sue storielle scandalose piacevano molto. Poi c’era una pausa discreta, tanto da permettere a mio padre di guardarmi e di farmi un cenno con la testa a indicarmi di andare via, così che Frank avrebbe potuto parlare liberamente senza la presenza inibitoria di un ragazzo innocente.

Ma io ero più umiliato che innocente, e scivolavo via detestando Frank Gagliano perché mi aveva riportato alla mia condizione di bambino, mentre gli altri mi trattavano da uomo.

Allora me ne andavo a sedere da solo su un mucchio di sabbia o su una catasta di legna, digrignando i denti, e dando ragione a mia madre sul fatto che gli atei erano gli individui più volgari e sporchi della Terra. Poi si sentiva uno scoppio di risate quando Frank stendeva gli operai con la battuta finale, e io di nuovo lo detestavo e mi vergognavo di essere così giovane.

In un modo o nell’altro, Frank Gagliano mi calpestava sempre. Ci fu la questione del mio salario. Mio padre mi pagava tre cent all’ora, era una somma confortante, dal suono robusto, se calcolata a ventiquattro cent al giorno e a un dollaro e venti alla settimana. Ma un giorno scoprii che i muratori guadagnavano due dollari l’ora, e improvvisamente provai imbarazzo per la mia paga infinitesimale. Mi sembrò ragionevole un aggiustamento e salii la scala dell’impalcatura dove mio padre e Frank Gagliano lavoravano fianco a fianco.

Dissi a mio padre che la mia paga non era abbastanza. «Voglio un aumento».

Chino sul muro, non disse nulla, e posò altri tre o quattro mattoni. Poi si raddrizzò, si asciugò il sudore dalla faccia e si spostò il cappello all’indietro.

«Quanto pensi di valere?».

«Più di tre cent all’ora. Caspita, tu all’ora ne guadagni duecento! Non è giusto!».

Riempì la cazzuola di malta e la spalmò sopra il muro appena fatto. «Cosa è giusto, allora?

Quanto vuoi?».

Prima che potessi rispondere, Frank fece scorrere la cazzuola sullo sparviero immergendoci la punta. «Posso dire una cosa?», gridò.

«Parla», disse mio padre sorpreso.

Frank mi guardò avvampando per la collera.

«Senti un po’, teppistello. Lo so che non sono fatti miei, ma chi diavolo è che ti compra le scarpe?».

Rimasi a bocca aperta, preso alla sprovvista.

«Mio padre».

«E chi ti dà da mangiare, ti paga il dottore, il barbiere, e ti fa avere un tetto sulla testa?».

Inghiottii e feci un cenno verso mio padre.

«Lui».

«E ora tu vuoi andare a frugargli nelle tasche per derubarlo, come un farabutto da quattro soldi!».

Frugargli nelle tasche? Derubarlo? Io, un farabutto da quattro soldi? Non riuscivo a immaginare niente di peggio. Mia madre aveva ragione per quello che riguardava gli atei: erano degli individui orrendi, erano veramente prodotto del diavolo. Mi si riempirono gli occhi di lacrime e sentivo aumentare dentro di me una sensazione di rabbia impotente.

«Stai zitto!», dissi. «Non sei altro che uno sporco, marcio, ributtante ateo!».

Si dette uno schiaffo su una coscia e scoppiò a ridere. Io mi girai e corsi via lungo l’impalcatura, scesi dalla scala, oltrepassai una pila di mattoni, un mucchio di sacchi di cemento e andai giù nelle fondamenta, che erano vastissime e odoravano di umidità.

Odiavo Frank Gagliano, così come lo odiavano mia madre e il mio cane. In piedi su un cumulo di calcinacci, ero divorato dall’odio, prendevo dei pezzi di mattoni sbrecciati e li scagliavo contro il muro di cemento fresco. Avrei voluto che Dio lo uccidesse e lo portasse tremebondo davanti al trono del giudizio e che, puntandogli contro il dito del castigo divino, lo condannasse alle profondità infernali. Speravo che sarebbe rimasto a cuocersi laggiù, a bollire in un pentolone pieno di olio caldissimo, con il diavolo che allegro gli avrebbe danzato intorno e che, agitando la coda rossa, avrebbe punzecchiato la sua vittima con un forcone.

Il mio odio si consumò, il braccio mi faceva male a furia di lanciare dei pezzi di mattone e le dita mi si erano scorticate e bruciavano. Mi sedetti in un angolo e incrociai le braccia. Basta. Ero in sciopero. Il «farabutto da quattro soldi» non avrebbe più portato l’acqua ai muratori. Che vedessero come era senza di me.

Rimasi lì un’ora, fino a quando la campana del tribunale suonò mezzogiorno. Attraverso le finestre senza vetri vidi i muratori che si raggruppavano nel capanno degli attrezzi e aprivano le loro

pietanziere.

Poi all’entrata illuminata dal sole apparve mio padre, mi stava cercando. Mi vide alla fine di quelle grandi fondamenta e mi venne incontro, e i suoi passi riecheggiavano in quello spazio cavernoso.

Mi venne accanto, guardò in basso verso di me e mi domandò: «Tutto bene?».

Annuii, e lui si sedette sui talloni.

«Non fare caso a Frank. Gli piace chiacchierare».

«Ma non potresti licenziarlo?».

«E’ un ottimo muratore, uno dei migliori».

«E un ateo. Porta male».

«Parli come tua madre».

Lo guardai.

«Tu credi in Dio, papà?».

«E che c’entra?».

«Pensi che a Dio faccia piacere che tu abbia assunto una persona che non crede in lui?».

«Piantala di fare il baciapile», disse alzandosi. «Ogni uomo “vuole” credere in Dio. Non lo sai? E se non ci riesce, non ci riesce. Ma sono fatti suoi».

La voce di Frank Gagliano riecheggiò.

«Nick, sei lì?».

«Sono qui», rispose mio padre.

Frank venne verso di noi, e i suoi stivali sbriciolavano i calcinacci. Misi la faccia contro le

ginocchia per non vederlo. E questo infastidì mio padre.

«In piedi», disse.

Mi alzai. Frank sorrise e mi tese la mano. «Mi dispiace di averti fatto arrabbiare, figliolo».

C’era la sua mano fra noi, era come una specie di aragosta. «Alle volte parlo troppo. Senza motivo».

«Non fa niente», dissi, stringendogliela.

Sorrise e mi passò amichevolmente le dita fra i capelli, poi si girò verso mio padre. «Gli hai detto dell’aumento?».

Papà sorrise.

«Alzo la tua paga a venticinque cent il giorno».

La matematica era la materia dove riuscivo peggio, ma venticinque cent al giorno suonava

colossale, ed esclamai: «Accidenti, papà, grazie!».

«E’ stata un’idea di Frank», aggiunse papà generosamente.

Guardai Frank e gli sorrisi con gratitudine e colpevolezza. L’avevo giudicato male. Dopo tutto anche gli atei potevano essere brave persone.

«Grazie mille, Frank».

«Di nulla», rispose con scherno. «Quello che è giusto è giusto. Come ho detto a tuo padre:

l’acqua che porti tu è dannatamente buona. La migliore che abbia mai provato».

Ci mettemmo a ridere e ci avviammo per le fondamenta verso le nostre pietanziere. Gli altri avevano già cominciato a mangiare. Per tutto il pranzo Frank rimase silenzioso, mentre gli altri parlavano di pesca e di baseball. Non cominciò neanche una volta con i suoi argomenti preferiti: suore, preti, il papà, o con qualcuno di quei monaci scandalosi che popolavano il suo strano mondo.

Dopo mangiato presi un mozzicone di matita e mi misi a calcolare su un asse di pino il mio aumento in dollari e cent. Più calcolavo, più il risultato era lo stesso: la somma totale era esattamente di un cent al giorno. Invece di un dollaro e venti alla settimana, ora guadagnavo un dollaro e venticinque. Avevo chiesto un aumento e, grazie a Frank Gagliano, mi era stato dato. Ma il nuovo salario non bastava per assicurarmi il futuro. La verità saltava agli occhi. Frank Gagliano mi aveva turlupinato. Mi sentii umiliato e calpestato come non mai.

 

III

 

Il manovale di mio padre era un nero che si chiamava Farley Vincent (Pat) Blivins. Il suo nome completo era stampato così sulla carta da visita che faceva circolare al lavoro. Sotto il nome c’era la scritta: IMPRESE MINERARIE, e sotto ancora il suo indirizzo: FERMO POSTA,

BOULDER, COLORADO. Ma nessuno lo chiamava mai Farley, Vincent o Pat, e nemmeno

Blivins. Tutti lo chiamavano Speed.

Era alto, con le gambe lunghe, e si muoveva lentamente con la poderosa grazia di un boa constrictor, sempre con la pipa in bocca. Le sue mandibole allungate da levriero l’avevano tenuta per così tanti anni che si era prodotta una scanalatura rotonda nella sua dentatura altrimenti candida e immacolata.

Speed Blivins era un solitario. Sul lavoro e fuori si isolava dagli altri operai. Per allentare la calcina e preparare la malta per i muratori, arrivava sempre un’ora prima degli altri. Si spostava anche in stile, guidando una Marmon gagliarda e gialla da turismo, con sedili in pelle rossa, gomme bianche e accessori cromati e luccicanti. La sua Marmon era una meraviglia che levava il respiro, e attirava i giovani come le mosche. Gli facevano sempre le solite domande: quanti cavalli aveva, quanti giri faceva al minuto, quanto era veloce, quanto consumava. Davanti al J.C. Penney, per tutto il giorno, Speed rispondeva con competenza, con una voce morbida e compiaciuta, e dopo che i ragazzi erano scomparsi tirava fuori un fazzoletto e puliva le ditate da quel gioiello che era la sua macchina.

Mio padre e i muratori arrivavano sempre con i loro abiti da lavoro, Speed no. Lui veniva con dei guanti di pelle nera, una giacca di sartoria, una camicia bianca, una cravatta e scarpe lustre.

Scendendo dalla Marmon, si metteva una cartella di pelle sotto il braccio e si avviava verso il capanno degli attrezzi, dove si cambiava e si infilava una tuta.

Alle otto si era già arrampicato sulla scala e sull’impalcatura una dozzina di volte, portando in equilibrio, con arte, dei vassoi pieni di malta e di mattoni fino a dove lavoravano i muratori.

Anticipava sempre le loro necessità, e questo gli lasciava tempo per le sue imprese minerarie.

Aprendo la sua cartella di cuoio ne estraeva fasci di certificati azionari e li metteva su una

scrivania improvvisata formata da uno sparviero poggiato su quattro gambe di mattoni impilati.

Speed Blivins era uno speculatore nato. Comprava e vendeva azioni minerarie.

«Non si fanno i soldi riempiendo uno sparviero», mi diceva. «E’ un modo di ammazzare il tempo finché non trovo il sistema giusto». Tutti i giorni mi dava un nichelino perché andassi a comprare il «Denver Post» fresco fresco dal treno che arrivava da Denver. Poi apriva il giornale alla pagina finanziaria e controllava i progressi sui suoi certificati azionari che aveva riposto sotto a dei calcinacci per non farli volare via. Erano piccole azioni, che valevano da uno a dieci cent, ed erano vendute in certificati da cento, cinquecento e mille.

Dividevo con Speed l’eccitazione per le sue speculazioni. Dalla sua pipa uscivano nuvole di fumo di tabacco aromatico Prince Albert, e diceva: «Shasta Glory si sta muovendo, ragazzo. E’ salita di due punti oggi. Ho fatto undici dollari».

I nomi dei suoi pacchetti azionari mi levavano il fiato. Golden Honey, John’s Folly, Colorado Boy, Molly Maguire, Silver Moon, Mida’s Touch, Lord’s Prayer. Tanto spesso quanto salivano, scendevano, alcune crollavano e calavano da mezzo cent a un quarto di cent per finire poi nel dimenticatoio.

Non così Shasta Glory, azioni nevrotiche e irritabili, mai ferme, sempre in movimento, a salire o a scendere. Ne ero così ammaliato che appena comprato il «Post» all’edicola del deposito lo aprivo alla pagina finanziaria. Se Shasta Glory era su, correvo per i tre isolati fino al cantiere, eccitatissimo, e agitavo il giornale non appena vedevo Speed. Se invece era giù tornavo lentamente e lui veniva a conoscenza della situazione della borsa prima ancora di dare un’occhiata alla lista delle azioni minerarie. Aveva ventimila azioni di Shasta Glory, per le quali aveva pagato duecento dollari, era stato il suo maggior investimento. Ogni volta che vedevo quel nome – Shasta Glory – ne avvertivo lo strano potere. Speed mi aveva detto cos’era, si trattava di una miniera d’oro nel Wyoming che prometteva molto bene, era come un gigante imprigionato nel suolo che lottava per liberarsi.

Gli altri lavoratori erano molto divertiti dalle iniziative di Speed. E lui con la schiena piegata da uno sparviero carico di malta, avanzava potente sull’impalcatura e sorrideva bonario ai muratori che lo chiamavano signor Rockefeller e gli domandavano come andassero le cose nel mondo della finanza. Se Frank Gagliano rimaneva senza malta, gli gridava dall’impalcatura: «Ehi, sacco d’oro che fai? sei già in pensione?».

Invece mio padre trattava sempre Speed con il rispetto dovuto a un gran manovale, non solo perché l’aveva servito fedelmente per dieci anni, ma anche a causa della sgradevole sensazione che un giorno Speed sarebbe potuto diventare ricco e non lavorare più, perché i bravi manovali non si trovavano facilmente.

Papà lo difendeva anche. Frank sosteneva che la sua passione per le azioni minerarie non era altro che la dipendenza dal gioco comune a tutti i neri.

«Farebbe meglio a mettere i soldi in qualcosa che conosce, come giocare a dadi. Che ci fa un negro in borsa? È matto». Poi Frank apriva il fagotto del suo pranzo e addentava un panino al salame.

«Non ti ci vedo a guidare una Marmon», gli rispondeva mio padre. «E mentre tu mangi roba fredda, dove credi che sia Speed?». Indicava con il pollice Pearl Street. «Al Tuxedo Café, ecco dov’è – a mangiarsi la minestra e il piatto speciale. Allora, chi è il matto, lui o te?».

 

IV

 

Un soffocante mattino di agosto, mio padre e io arrivammo al lavoro e restammo perplessi per via dello strano silenzio. Qualcosa non c’era più, mancava qualcosa nell’aria. Con le antenne sempre alzate pronto a cogliere eventuali crisi, mio padre si spinse il cappello all’indietro e si mise in ascolto. Quello che mancava era il ronzio della betoniera, che non pulsava come al solito nell’aria del mattino. Si avvicinò alla piccola macchina sporca di malta e si guardò intorno. Speed Blivins non c’era. Per la prima volta in dieci anni non era arrivato al lavoro. «Sta male», disse mio padre.

«Dev’essere così». La campana del tribunale suonò le otto e, con il manovale o senza, Luke e Frank Gagliano salirono sull’impalcatura e andarono ai loro posti sul muro. Erano gente del sindacato, dovevano fare il loro dovere, pronti e volenterosi di lavorare. Se non c’erano mattoni da posare e malta con cui posarli, non era un problema loro; guadagnavano sempre due dollari l’ora.

Con un gemito di rassegnazione mio padre si mise a fare quello che faceva Speed, e cominciò a setacciare la sabbia. Lavorava con grande accanimento, furioso. Dall’impalcatura, Frank e Luke stavano a guardare senza fare nulla e fumavano. Presi una pala. Volevo aiutare.

«Vattene», disse mio padre.

Si mise alla betoniera, e le girò una corda intorno alla ruota d’avviamento. Ma non partiva.

Per venti volte vi avvolse la corda e fece girare la ruota, ma il motore si strangolava e soffocava e scalciava come un mulo che accettava ordini soltanto da Speed. Mio padre ci lottò per quasi mezz’ora, la prese a calci, la maledisse e la colpì fino ad avere le mani ricoperte di grasso e la sua rabbia aveva appestato l’aria come il fetore dello zolfo. Mi scostai spaventato e mi nascosi dietro la pila di mattoni.

Ma la rabbia di mio padre non era diretta contro Speed o contro i muratori bighelloni, e nemmeno contro la betoniera. Era Dio onnipotente che accusava, Dio che avrebbe potuto essere distante non più di un metro, che lo faceva diventare furioso e si prendeva gioco di lui, e gli faceva uscire delle bestemmie rauche dalla gola.

E anche quando finalmente il motore partì – e lo fece con un improvviso e gaio scoppio di fumo blu e felice – il perfido sorriso di trionfo sulla faccia di mio padre non era per la vittoria sulla macchina, ma era una smorfia di disprezzo per il Supremo Ingegnere che ancora una volta non era riuscito ad abbatterlo.

La sua prova in quel torrido mattino di agosto era appena cominciata. Avendo riempito la betoniera con i materiali che mischiandosi sarebbero diventati malta, cominciò a mettere dei mattoni su uno sparviero. Ahimè non era Speed Blivins – uomo terribilmente forte, alto, con ossa grandi e muscoli lunghi. Lui era basso e tozzo, la sua forza era nelle braccia e nelle mani. Lo guardai terrorizzato mentre saliva incerto la scala con il peso morto dello sparviero e di trenta mattoni sulle spalle, con la faccia blu, gli occhi strabuzzati e le vene del collo gonfie che sembravano serpenti. Si fermò a metà della scala, tremando, e io tremai con lui, e lo compativo, pregai per lui, e mi detestai perché avevo solo dieci anni ed ero totalmente inutile.

Ma tutti erano inutili, perché la determinazione di mio padre era come la forza di dieci uomini. Gliel’avrebbe fatta vedere a Luke e a Frank, o sarebbe morto nel tentativo. Scaricò i mattoni e scese, riempì il gigantesco sparviero con la malta e si avviò nuovamente verso la scala.

Pensai che sarebbe morto di sicuro. Persino Gagliano gli gridò di smetterla di comportarsi da pazzo e di farla finita. «Fermati, per piacere», lo supplicai. «Ti farai male!». Fece una smorfia di dolore quando le sue spalle illividite premettero contro lo sparviero, e si allontanò massaggiandosi.

Indicando una pila di sacchi di cemento, mi ordinò di dargliene uno. Lo ripiegò più volte facendone un cuscinetto e se lo appoggiò su una spalla. Poi si mise sotto lo sparviero e lo alzò da terra.

«Ecco fatto», ansimò. «Fai del tuo meglio. Prova a fermarmi, adesso!».

Non diceva né a me né agli altri lavoratori, né a se stesso. Si stava rivolgendo a Dio.

Arrancava su per le scale, come il Salvatore schiacciato dalla croce. Si era radunata una piccola folla a Pearl Street, lo guardavano con macabra attenzione, e la loro presenza incitava la tenacia di mio padre, sembrava che gli desse piacere dimostrare lo stupido punto che un asino era quasi uguale a un mulo.

Fu una mattinata lunga, interminabile per mio padre ormai esausto. Durante la pausa pranzo si addormentò appoggiato al capanno degli attrezzi, e russava come se fosse stata notte e fosse nel suo letto, tenendo un panino nella sua mano afflosciata.

All’una, Frank lo scosse e lo svegliò.

«Basta per oggi», gli disse.

«Perché?», papà grugnì, alzandosi a fatica.

«Prendi un altro manovale, prima di ammazzarti».

«E’ Speed il mio manovale. Tu vai al muro e fai il tuo mestiere».

Frank mi guardò. «Sai cosa c’è che non va con tuo padre? È matto». Lui e Luke salirono sull’impalcatura.

Con la maggior discrezione possibile, dissi: «Frank ha ragione, papà. Se Dio ti avesse voluto

manovale, saresti stato robusto come Speed».

«Dio è un buono a nulla, come tutti gli altri», disse avvicinandosi alla betoniera, con le gambe così rigide che zoppicava. Rimase davanti al motore come se avesse paura. Poi avvolse la corda intorno alla ruota d’accensione. Sollevando gli occhi al cielo, implorò: «Per favore. Una volta».

Diede uno strattone alla corda che fece girare la ruota. Il motore tossì, fece uno scoppio, ansimò una serie di volte, poi il silenzio. Stava riavvolgendo la corda, quando la Marmon gialla di Speed Blivins accostò al marciapiede. Accanto al ben vestito Speed, c’era un nero in tuta. Scesero e si avvicinarono a mio padre. Speed si levò i guanti.

«Sei in ritardo», disse mio padre.

«Non lavoro più per te», rispose Speed. Si girò verso il suo amico, più alto e più robusto di lui. «Lui è Terence Clipp. È pronto a prendere il mio posto».

«Malta!», gridò Frank Gagliano dall’impalcatura.

«Vai», disse mio padre a Terence.

Quell’uomo robusto andò alla betoniera, avvolse la corda come un bambino che carica un giocattolo. Gli diede uno strattone e il motorino esplose in un ruggito affamato, chiedendo cibo.

Terence prese una pala e cominciò a nutrire quella bocca che girava e che era avida con le sue specialità preferite: sabbia, acqua, cemento e calcina. Mio padre guardava e approvava.

«Bravo», disse.

«Una roccia», disse Speed. «Ha nove figli. Non ti lascerà mai come ho fatto io».

«Cosa è successo?».

Ammiccò verso di me. «Domandalo al ragazzo».

Improvvisamente capii. «Shasta Glory!», esclamai.

«Proprio lei».

«Le tue azioni?», domandò papà. «Ieri era scesa a quattro cent», dissi, dandomi importanza, e la mia competenza sorprese mio padre.

«Le ho vendute a quarantatré, circa un’ora fa», sorrise Speed.

Esclamai, «Wow!» e provai a moltiplicare 43 per 20000, ma non fu che tre ore più tardi, dopo aver riempito tavole e tavole di numeri, che calcolai la ricchezza di Speed a 8600 dollari.

«Ho qualcosa per te», disse Speed a papà.

«Non mi devi nulla».

Speed si mise a ridere. «Forse è proprio quello che ho per te».

Tornò alla macchina e tirò fuori la sua cartella. Ne estrasse un documento piegato e lo porse a mio padre. Esterrefatto, mio padre ne scorse le pagine e le studiò, girandole e osservandone imargini vuoti.

«Non chiedermi di comprare azioni», disse rendendoglielo. «Sono povero».

«Non sono azioni», disse Speed respingendo i fogli. «E’ la proprietà di una miniera».

«Una miniera».

«Una miniera d’oro».

«Oro!», mio padre la sussurrò come se fosse stata una parola sacra, poi con tristezza scosse

la testa. «Non posso permettermela».

«Te la “regalo”!», disse Speed. «L’ho già firmato. È tua, gratis e basta».

Il sorriso di mio padre si spense nel dubbio, perché prima di allora nessuno gli aveva mai regalato nulla, meno che meno una miniera d’oro. Quello che aveva se l’era guadagnato col sudore della fronte. Rivolse a Speed un sorriso pieno di sospetto, avvicinandogli di nuovo i fogli. Anche Speed sorrideva e non li voleva riprendere. Quell’incertezza di mio padre mi faceva impazzire. Avevo voglia di tirargli un calcio.

«Prendila, papà!».

«Dov’è questa miniera?», domandò.

«A diciotto miglia dal Boulder Canyon».

Speed aprì il documento che era una mappa, e gli mostrò l’ubicazione. Torreggiando su mio padre, indicò con un’unghia rosa il fondo della pagina. «Lo vedi qui? È il tuo nome. Il nuovo

proprietario».

«Per Dio, hai ragione!», esclamò mio padre. «E proprio il mio nome!». Ormai contento, gli tese la mano. «Grazie, davvero». Si dettero una stretta.

«E ora che devo fare?».

«Scava», disse Speed. «E continua a scavare, perché in quel buco c’è un filone, e l’unico modo per trovarlo è con un piccone e con una pala. Un’altra cosa che devi fare, è pregare. Preghi e

scavi, ma scavi più di quanto preghi, e il resto lascialo fare alla vecchia Yellow Belly».

«Yellow Belly?».

«Si chiama così».

Ci salutammo e Speed se ne andò. Dal marciapiede guardammo la sua Marmon che girava a sinistra sulla 12th Street. «Brava persona», disse mio padre. Si frugò in tasca e ne tirò fuori una manciata di fiammiferi, monete, chiodi e stuzzicadenti. Raspando fra quelle cianfrusaglie, estrasse un nichelino e me lo dette. «Compratici qualcosa», mi disse.

«Malta!», gridò Frank Gagliano.

 

V

 

Mio padre aveva due motivi per fare socio Frank Gagliano nell’impresa Yellow Belly, e il primo era il mezzo di trasporto, perché lui non aveva macchina, mentre Frank era proprietario di un camioncino Reo, un aggeggio che scassava le ossa con gomme piene e ruote a trazione a catena, lento ma sicuro sulle strade di montagna.

Mia madre era disgustata da quell’associazione.

«La macchina di un ateo!», disse. «Io piuttosto andrei a piedi».

«Pensi che anche la macchina creda in Dio?».

«Non è la macchina. È l’uomo».

Lui spiegò il secondo motivo. «Frank è esperto di miniere. Ha lavorato a Cripple Creek».

«Non lo troverà mai, l’oro», disse la mamma con trasporto. «Sicuro come è sicuro che Dio ha fatto il mondo, non glielo lascerà trovare. Anche se scava per un milione di anni».

Questo depresse mio padre. Disse: «Ecco quello che ottengo a raccontare i miei progetti a una donna».

A mezzogiorno, al cantiere, Frank e mio padre si allontanarono dagli altri lavoratori per discutere in privato dei loro piani. A me era concesso assistere a queste conversazioni, a patto che ascoltassi solamente e non dessi suggerimenti. Frank aveva fatto ricerche sulla situazione mineraria della zona di Yellow Belly e l’aveva trovata promettente.

«C’è anche molto argento», disse. «Teniamo gli occhi aperti».

«Ma cerchiamo l’oro», replicò papà.

«E farai lo schizzinoso se troviamo argento?».

Mio padre sorrise ammettendo che non avrebbe nemmeno saputo distinguerli.

«E’ un bene che sia io il tuo socio», aggiunse Frank. «Da solo, è dannatamente sicuro che

avresti trovato l’oro dei matti».

Mio padre dovette confessare che non sapeva niente nemmeno dell’oro dei matti.

«Pirite», Frank fece un sorriso misterioso. «Molti uomini si sono spaccati il cuore credendo che la pirite fosse la cosa da cercare. Sbagliando s’impara. Anch’io mi sono sbagliato un paio di

volte».

Fecero dei piani per il loro primo viaggio, di domenica, alla miniera.

«Posso venire?», domandai.

Nessuno dei due mi rispose, e finì lì.

Frank scolò il vino dal suo thermos.

«C’è una cosa che non mi piace di quella miniera», disse, schioccando le labbra. «Il nome. Yellow Belly. Non mi piace».

«Che differenza fa?». Papà si strinse nelle spalle.

«Yellow Belly significa ‘codardo’. È un nome che porta sfortuna a una miniera d’oro».

«Che ne dici di Bella Napoli?», suggerì papà.

«E’ un ristorante», rispose Frank.

Ammutolirono, pensavano ai nomi. Poi mi venne in mente Shasta Glory.

«E qualcosa con Shasta?», proposi. «Che ne dite di Shasta Victory?».

«E’ un cavallo da corsa», disse Frank, accigliandosi. «Ci ho rimesso la camicia con quel caprone».

Altro silenzio. Fumavano e riflettevano.

«Bella Roma?», suggerì papà.

«Sei fissato con Bella», ribatté Frank.

«Va bene, allora», disse papà. «Lasciamolo così com’è. Yellow Belly».

Frank si alzò immediatamente. «Trovati un altro socio, perché io in una miniera con quel nome non ci lavoro».

Papà era furibondo. «Dillo tu, allora! Chiamala come ti pare».

Lo sguardo di Frank prese un’espressione distante.

«La chiameremo Red Devil», disse. «Old Red Devil».

A papà non piacque, ma ormai non poteva più tirarsi indietro.

«Va bene», disse. «Deciso. Sarà la Red Devil».

Frank prese la pietanziera e si avviò verso il capanno.

«Alla mamma non piacerà», dissi.

«Ma gli devi dire proprio tutto a tua madre?».

Promisi che non l’avrei fatto.

 

VI

 

La mattina di domenica, vestiti per la messa delle otto, eravamo intorno al tavolo di cucina a vedere papà che faceva i preparativi per il viaggio alla miniera, e che riempiva di provviste una cassa di legno: pane, formaggio, pomodori, cipolle, salame e un paio di bottiglie di vino.

Mia madre guardò sorpresa tutta quella roba.

«Ma quanto starai via?».

«Torno stasera. Non dimenticate quello che ha detto Speed: scava e prega. Voglio che preghiate tutti per portarci fortuna. Io scavo, e voi pregate. Se troviamo l’oro, cambia tutto. Compro immediatamente una nuova casa».

«Posso avere una nuova bici?», domandò mio fratello Frederick.

«Certo».

Con le mollette in bocca, mia madre si pettinava i lunghi capelli. «La mia preghiera è che tu non ti metta nei guai con quel poco di buono di Frank Gagliano».

«Non occuparti di Frank. Pensa a pregare per l’oro».

«Io offrirò la mia comunione», disse mia sorella Clara.

«Anch’io», disse Frederick.

«E a chi l’offrite?», domandò papà.

«A Dio».

«Non va bene», replicò papà. «Non porta fortuna».

Mia madre restò senza fiato. «Dio… non porta fortuna? Parli come Frank Gagliano, ora!».

«Ho quasi cinquant’anni, e Dio non ha ancora fatto niente per me».

«Ci ha dato tutto», disse la mamma. «La nostra famiglia, la casa, il cibo sulla nostra tavola, la buona salute. Che altro vuoi?».

«È tantissimo. Di più non saprei che farmene».

«Voglio che tu la smetta di criticare il Signore davanti ai nostri figli».

«Quello che sto dicendo è che non porta fortuna. Perché non provare qualcun altro, tanto per cambiare? Che gli manca a sant’Antonio? O a san Rocco? O a san Gennaro?». Guardò verso di noi

ragazzi. «Qualcuno qui ha mai pregato san Gennaro?».

«Mai sentito nominare», dissi.

«E’ il santo patrono di Napoli, ecco chi è. Quando avevo la tua età mi ha fatto moltissimi favori». Annuì con solennità. «Provatelo oggi. Ditegli della miniera di vostro padre. Ditegli di mostrarci l’oro».

«Pregherò santa Clara», affermò Clara. «E’ molto buona».

«Dalle una possibilità. Ci deve essere qualcuno lassù che voglia aiutare vostro padre».

«Io proverò san Giuseppe», aggiunse Frederick. «Sono sicuro che ti aiuterà, papà. Era un falegname».

«Non mi piacciono i falegnami», disse papà. «La cosa migliore è di trovare qualche vecchio santo che non ha mai nulla da fare. Qualche vecchio santo dimenticato da tutti negli ultimicinquecento anni».

Dalla strada arrivò il rumore di ferraglia del camioncino di Frank, un frastuono che quasi sopraffece il clacson. Attraverso la finestra della cucina lo vedemmo fermarsi. Mio padre si mise lam cassa di provviste in spalla e si precipitò alla porta di servizio.

Improvvisamente, in preda all’ansia, mia madre gli corse dietro, chiamandolo, ma il rumore del camioncino sommerse la sua voce. Papà era già sulla strada e stava sollevando la cassa per metterla nel bagagliaio. Girandosi, la vide che stava facendo dei cenni. Controvoglia, tornò a casa.

«Che vuoi?».

Dalla veranda lei lo fissò con occhi enormi e malinconici. «Ho fatto un sogno tremendo, ieri notte», gli disse. «Era un segno di Dio. Tu eri in fondo alla miniera, e lui ti tirava dei massi e ti seppelliva vivo».

Mio padre rimase allibito.

«Ma che diavolo stai dicendo?».

«Lui», affermò lei, guardando Frank.

«Frank? Sei matta».

Tornò verso il camioncino.

«Stai attento», gli gridò lei. «Sta per accadere qualcosa di orrendo».

Disperato, scuotendo la testa, mio padre salì in macchina accanto a Frank. Quando partì fece un gran rumore.

 

VII

 

L’idea di mio padre di pregare qualche santo dimenticato da molto tempo mi aveva affascinato. Era un consiglio straordinario, molto intelligente. I santi erano esseri dal cuore puro e generoso che anelavano aiutare le anime sofferenti della Terra. Ma come giustamente aveva sottolineato mio padre, i più popolari erano troppo occupati con migliaia di richieste.

Il segreto per ottenere risposta a una preghiera era quello di rivolgerla a qualche patriarca antico, dimenticato, vissuto un migliaio di anni fa, un tipo gentile e compassionevole che aspettava invano in cielo perché qualcuno – una nullità come me – desse voce a qualsiasi desiderio del suo cuore. Inoltre sapevo perfettamente dove trovare il nome di una persona così elevata e dimenticata.

Nella biblioteca della scuola, nelle “Vite dei santi”.

In mezzo alla folla raggruppata davanti all’ingresso della chiesa, mi allontanai dalla mia famiglia senza dar nell’occhio e attraversai il campo da gioco per arrivare a scuola. Salii le scale in punta di piedi fino alla biblioteca al secondo piano. Immediatamente, nel primo volume delle

“Vite”, trovai quello che cercavo.

Si chiamava santo Stefano, vescovo di Svezia. Era morto nel 1075. Nella sua biografia era scritto: «Si ignora il luogo di nascita, chi fossero i suoi parenti e non si hanno notizie dei suoi primi anni di vita; si sa molto poco di lui in generale».

Centro! Un santo di un tempo immemore, abbandonato, dimenticato, un principe di Dio di un passato così remoto che non si ricordava più dove fosse nato né chi fossero suo padre e sua

madre. Eppure era un santo, vivo in cielo con i grandi e i famosi della chiesa. Da quasi novecento anni se ne era andato da questa Terra, e quanti dei viventi l’avevano pregato? Non molti. Quasi nessuno. Forse neanche uno. Fino a quando arrivavo io. Un tesoro, per me. Il vecchio santo Stefano, vescovo di Svezia, parte della comunità di santi, perso nel paradiso, in attesa, con i capelli bianchi, un Rip Van Winkle con le ragnatele sulle orecchie mentre aspetta un grido dalla terra, una supplica, una richiesta d’aiuto.

Chiusi il libro, incantato, ispirato. Mi ero sintonizzato sulla magia dell’immortalità. Ero invincibile, immortale, drogato dal potere mistico. Al primo palpito di preghiera, il mio uomo in paradiso si sarebbe scosso la polvere dalla barba e il suo venerabile volto si sarebbe aperto in un sorriso solare per l’unico essere umano in tutto il mondo che si era ricordato di lui, un ragazzo di Boulder, Colorado, USA.

Totalmente preso, scappai via, ali di aquila mi sollevavano i piedi mentre mi precipitavo giù per le scale e giravo intorno alla chiesa per andare alla porta principale. Mi inginocchiai a uno degli ultimi banchi e cominciai a pregare.

Pregavo come una fiamma, una torcia. Scoppiettavo. Sibilavo. Mi consumavo. Mi sembrava che da quel momento la mia vita sarebbe cambiata e che sarei rinato, un’altra persona. Era quasi superfluo dire al vescovo della miniera di mio padre. Prima di poter formare un pensiero, sapevo che papà era diventato ricco, con una montagna di metallo grezzo luccicante, e noi eravamo incredibilmente danarosi e potenti, e la nostra vecchia casa di mattoni era diventata un castello di pietra bianca con torrette, stendardi e una squadra di servitori – maggiordomi, cameriere, cuochi, giardinieri e autisti.

Dopo la messa andai fuori di corsa ad aspettare mia madre, e guardavo fra la congregazione che si allontanava cercando il suo viso, chiedendomi se la mistica di santo Stefano non avesse raggiunto anche lei. Poi la vidi con mio fratello e mia sorella. Mi venne incontro a passo di marcia come al solito, studiando la mia faccia, e mi chiese: «Stai bene?».

Le dissi di sì, e mi allontanai. La fiamma si stava estinguendo rapidamente, la magia si sgretolava. La gente intorno a me era troppo reale, troppo mortale, c’erano donne grasse al braccio dei loro mariti, vecchie signore con la faccia da prugna secca su gambe traballanti, bambini che chiacchieravano e facevano confusione, e pozzanghere di fango per la pioggia della notte passata.

Ma il castello, e l’oro di mio padre – anche quelle erano illusioni? Corsi a casa. Corsi per la 12th Street, oltre la ferrovia, oltre il ponte. Verso ovest, le rocce rosse delle montagne si ergevano

ruvide, trafitte crudelmente da strade nuove e scavi. Non era cambiato nulla. Il mondo, la nostra casa, erano gli stessi. Sconfortato, mi sedetti sui gradini della veranda.

 

VIII

 

Il mattino seguente, a colazione, mio padre non si comportò certo come un uomo che era diventato ricco. Aveva gli occhi come grappoli d’uva spremuti, la faccia infuocata dal vino e molto poco da dire.

«Hai portato a casa un po’ d’oro?», domandò Frederick.

«No».

«Ora siamo ricchi?», chiese Clara.

«No».

«Forse hai scavato nel posto sbagliato», disse la mamma.

«Forse».

«Continuiamo a pregare?», domandò Clara.

«Come volete».

Il fine settimana successivo, lui e Frank andarono ancora alla miniera, partendo il sabato pomeriggio con la loro cassa di provviste, delle lenzuola e delle bottiglie di vino. Tornarono la domenica molto tardi, Frank fermò il camioncino davanti al marciapiede e papà entrò tristemente in casa, con i vestiti macchiati di fango rossiccio, e così stanco che la mamma dovette svestirlo lei e metterlo a letto. Emanava un forte odore di vino.

Da allora divenne un rituale settimanale. Passò l’estate e dimenticammo i sogni dell’oro e ricademmo nella nostra confortevole povertà vivacizzata ogni tanto da una trota che papà riportava dalla montagna, o da funghi o da fragole selvatiche.

Una volta ci sorprese con un sacco pieno di pietre luccicanti grandi come palle da baseball, brillanti pezzi di ambra di quarzo nella quale passavano nere vene cristalline.

Li tenevamo in mano, attoniti. Erano pesantissime. Sembravano molto preziose.

«Oro!», disse Frederik con la voce strozzata.

«Ferro», disse papà.

«Quanto vale?».

«Niente».

«Neanche un nichelino?».

«Neanche un penny».

In un accesso di generosità regalammo l’intero sacco di pietre alla mia sorellina, lei lo trascinò in un angolo della cucina e si perse in fantasticherie.

Mia madre cominciava a essere preoccupata. Le sue disastrose profezie sulla miniera si stavano avverando. Mio padre era stanco e cupo, si lamentava di tutto. Lei dava la colpa a Frank Gagliano e vedeva la miniera come un buco satanico nel fianco della montagna dove un perfido ateo adescava con il vino un buon cristiano facendogli perdere il cervello, e per quanto non l’avesse mai detto, sapevo che sospettava che ci portassero delle donne. Scuoteva le lenzuola sporche che papà riportava, le annusava con disgusto, tenendole alla distanza di un braccio teso come se fossero state dei gatti morti e le faceva cadere nella lavatrice. Erano sudicissime, macchiate di vino, umide e rivoltanti. «La prossima settimana ci vai anche tu con loro», disse.

Rifiutai.

«Ho il diritto di sapere cosa succede lassù».

«Due muratori si ubriacano: ecco quello che succede».

«Non importa, ci vai lo stesso».

«Dipende da papà».

Mio padre non ne volle nemmeno sentir parlare.

 

«Devi essere pazza. La miniera non è un posto da ragazzi. È pericolosa».

«E che c’è di tanto pericoloso?».

«Serpenti a sonagli, massi che cadono. Si potrebbe rompere una gamba. È una campagna molto selvaggia».

Lei rise con amarezza.

«Pericoloso un corno! Allora perché non portate me?».

«Non è un posto per donne e bambini».

«Tu ce lo porti!».

Papa mi guardò supplicandomi. «Vuoi andare lassù a scavare in tutto quel letame, stancarti da morire, avere dolori dappertutto, è questo quello che vuoi? Ti piace farti venire il mal di schiena con il piccone e con la pala, le rocce che ti cadono addosso, gli scivoloni nel fango, le vesciche nelle mani per aver lavorato quattordici, quindici ore, e tornartene poi a casa a mani vuote? È questo

quello che vuoi?».

«Oh, Dio, no», dissi.

«Non vuole venire», aggiunse papà.

«Viene con voi e basta».

Questa notizia non riempì Frank Gagliano di gioia. Il giorno dopo in cantiere mi prese per un gomito e mi fece andare fino alla catasta di legna. Aveva gli occhi freddi come di vetro.

«Perché non tieni il naso fuori dai fatti degli altri?», mi domandò.

«Che stai dicendo?».

«La miniera Red Devil non è posto per un moccioso».

«A chi lo stai dicendo, moccioso?».

«Perché non ci lasci in pace? Non basta che tuo padre ti debba dare da mangiare e ti debba comprare le scarpe, si deve anche rovinare il fine settimana per stare dietro a un ragazzetto?».

«Tu non mi puoi parlare così. Non sei mio padre».

Agitò il palmo della mano aperta. «Come vorrei esserlo».

Avevo voglia di tirargli un calcio.

«Allora ci vengo domenica. Prima non ci volevo venire, ora invece sì!».

 

IX

 

La miniera era a un miglio dalla strada del Boulder Canyon, bisognava scendere per una deviazione larga appena perché il camioncino sobbalzante di Gagliano potesse passarci. Era a sole diciotto miglia dalla città, si doveva percorrere una salita ripida, e ci volle più di un’ora per arrivare, perché Frank faceva andare il suo ansimante Reo con le marce basse, e il radiatore sibilava ed emetteva nuvole di vapore bianco nella fredda aria di montagna. Io ero seduto e tremavo sul retro del camioncino, e sussultavo assieme ai pezzi di tubi, legna varia, latte di vernice e attrezzi vari.

Quando le macchine cercavano di superarci, suonando forte il clacson, Frank li lasciava passare controvoglia, tirando fuori un braccio con il dito alzato, e gridava: «Prenditelo nel secchio, signore!».

Il cielo era grigio, e cumuli di neve sporca erano ancora attaccati alle pareti del canyon.

Frank e papà erano al caldo nell’abitacolo, si passavano la bottiglia e fumavano sigari. Più bevevano, più il camioncino rallentava.

Dopo la deviazione la strada scendeva ripida seguendo tracce di automobile punteggiate da profonde buche. Ogni volta che le gomme posteriori ci finivano dentro, io rimbalzavo in aria con i tubi, il legname e le latte di vernice, e a ogni sobbalzo i bevitori guardavano attraverso lo specchietto retrovisore e ridevano. C’era della rivalsa negli occhi piccoli e arrossati di Frank, perché non sopportava il fatto che io fossi lì.

La pista finì nelle vicinanze di un ruscello. Frank spense il motore e un silenzio mistico riempì la gola. Saltai a terra, e i miei piedi sentirono il morso del freddo quando la toccarono. Era un posto solitario e desolato, lungo il torrentello c’era della sterpaglia e dei salici che cantavano con le rane, dei tronchi e chiome di pini che si ergevano verso l’alto distanti nella nebbia, che sospiravano e respiravano profondamente come nel sonno.

Gli uomini si caricarono le casse sulle spalle e camminammo per cento metri lungo un sentiero sull’argine del ruscello fino a una radura dove c’era una capanna, un tugurio con il tetto di lamiera e la porta dello stesso materiale che era spalancata. C’era una sola finestra con quattro vetri, due dei quali rappezzati con cartone.

Sul tetto sopra la porta c’era l’insegna. Era dipinta su un foglio di compensato, e raffigurava l’immagine di un diavolo rosso e nero, con le corna, gli zoccoli e una coda di serpente che finiva a punta. Aveva gli occhi obliqui e la bocca tirata in un sorriso. Sotto c’era la scritta:

IMPRESA MINERARIA RED DEVIL

DI VICO STEFFANINI E FRANK GAGLIANO

«Ma è il diavolo», dissi.

Frank lo guardò compiaciuto.

«E’ il vecchio Red. È il mio compagno».

Continuavo a fissarlo. Il diavolo non si metteva in bella mostra. Non sopra la porta d’ingresso. Era temerario. Era spaventoso. Era follia.

«È stata un’idea di Frank», disse mio padre colpevole. «Non significa nulla».

Forse no, ma quando lo guardai di nuovo mi sembrò il re delle montagne e che avesse abitato da quelle parti da molto tempo. Seguii mio padre nella capanna.

Entrando, quasi svenni per il fetore. Non era solo odore di bestie, era odore di umani, di sudore e di urina e gas intestinale, di materassi ammuffiti e di grasso di cucina. Ci volle un po’ prima che i miei occhi si abituassero all’oscurità. C’era solo una stanza. Il pavimento non era  coperto da assi, era di terra battuta. Sapeva di parmigiano stantio. I letti erano materassi nudi appoggiati su delle tavole sul pavimento umido. In mezzo alla stanza c’era una stufa con un tubo che usciva dal tetto. C’era un vecchio divano con le interiora in evidenza e un paio di sedie invalide.

Il tavolo era stracarico di piatti sporchi.

Dovevo credere a tutto quel disordine, a quello squallore, perché era lì, e sapevo che a volte le persone erano costrette a vivere in posti come quello. Ma il mio vecchio, mio padre? Poggiò la cassa di provviste sul pavimento e s’inginocchiò davanti alla stufa. Sembrava felice, con un mozzicone di sigaro fra i denti mentre canticchiava fra sé e infilava dei ramoscelli nella stufa.

Era un uomo povero, certamente, ma lo conoscevo come un uomo povero “pulito”, sempre in ordine, quasi azzimato nei pochi vestiti che possedeva. Voleva che le sue camicie fossero ben stirate, e anche i suoi pantaloni beige da lavoro dovevano avere la piega. Soprattutto, però, richiedeva ordine in casa. Cappotti e maglioni dovevano essere appesi e ogni cosa doveva stare al suo posto. Ed eccolo lì, in ginocchio in mezzo a tutto quello squallore, contento come un topo nella fogna.

Frank accese una lampada al kerosene e la capanna oscura brillò di una pallida luce giallastra quando alzò la fiamma. Per quanto fosse metà pomeriggio, il sole stava già calando dietro la montagna e nella gola era il crepuscolo.

Frank disse: «Va bene, ragazzo, sei voluto venire e ora devi guadagnartela. Vai a fare un po’ di legna».

Andai e tornai quattro volte, impilando la legna accanto alla stufa. Sistemandosi sul divano sfondato, con i piedi vicini alla piccola stufa che era ormai incandescente, Frank e mio padre si prepararono a una lunga seduta con il vino rosso scuro. Si passavano e ripassavano la bottiglia, e il vino gorgogliava nelle loro gole. Nella capanna faceva un caldo soffocante. Dopo un po’ mio padre si voltò, sembrava sorpreso di vedermi lì seduto su una seggiola, annoiato, a guardare il vino che scompariva. «Perché non vai a giocare?», disse.

«Giocare? E a che cosa?».

«Agli indiani e ai cowboy», interloquì Frank.

«Oh, merda», risposi.

«Dai, non dire così», disse papà.

«Dov’è la miniera?», chiesi.

«Miniera?», replicò Frank. «Quale miniera?».

Mio padre si mise a ridere. Così Frank. Sudavano. E risero come pazzi finché non gli uscirono lacrime dagli occhi. Io li fissavo cupo, fino a che smisero. Papà si asciugò gli occhi con una nocca.

«Vuoi dire la miniera d’oro?», mi domandò. Risero ancora, un torrente di risate, rotolandosi sul divano, dandosi pacche sulle ginocchia, ululando isterici l’uno sulla spalla dell’altro, soffocando, rigurgitando vino fino a quando l’accesso svanì.

«Creatura mia», disse mio padre (non mi aveva mai chiamato così), «troverai la miniera lungo il torrente. Segui le tracce».

Mi alzai.

«Sei ubriaco», gli risposi con amarezza. «Siete ubriachi tutti e due!».

Ricominciarono a ululare come coyote e io corsi fuori sul sentiero lungo l’argine del ruscello. Dopo poco ero alla miniera.

Assi sconnesse, marcite e divorate dalle termiti coprivano l’ingresso dello stretto cunicolo.

Mi infilai attraverso un’apertura ed entrai nell’umida cava. Per il figlio ed erede di un proprietario di miniera la scena non era emozionante. Il cunicolo raggiungeva solo una profondità di quindici piedi. Picconi e pale arrugginite erano buttati sul terreno fangoso, e quando calpestai il manico di una vanga marcia che non era stata usata da molto tempo, si sbriciolò come un fungo. L’acqua trasudava dal tetto e dai lati della cava, e da un posto oscuro e invisibile sentii l’allegro gorgoglio dell’acqua corrente. Non era una miniera, era un buco sul fianco della montagna che produceva acqua di sorgente. Ecco perché mio padre l’aveva ottenuta per niente. Ecco perché lui e Frank non trovavano l’oro. Ecco perché ridevano e bevevano fino a diventare scemi. Era uno scherzo. Con un tesoro così, che altro potevano fare?

 

X

 

Tornai verso la capanna. Dal camino uscivano nuvole di fumo bianco, salivano verso gli alberi e riempivano la gola con la fragranza di pino. Dalla strada giunse il ronzio di un motore.

Pensai che fosse Speed con la sua Marmon, e corsi a salutarlo.

Era invece una donna in una vecchia Cadillac nera che stava parcheggiando accanto al camioncino di Frank. Sembrava avere circa quarant’anni, aveva i capelli neri e una sciarpa rossa sulla testa e intorno al collo, le cui estremità le scendevano fino alla vita. Scese dalla macchina e vidi che era alta, con i fianchi larghi e un gran petto, portava una camicia e una gonna verdi. Prese il cappotto e la borsa, sbatté la portiera e si avviò per il sentiero verso la capanna.

Quando mi vide, sorrise.

«Devi essere il figlio di Nick», disse.

«E’ mio padre».

Guardò il cielo. «Che ore sono?».

«Le quattro».

«Di mattina o di notte?», sorrise, con la sua grande bocca macchiata di rossetto. «Dio, come berrei volentieri un goccio».

«Ce n’è quanto ne vuoi nella capanna».

Fece una smorfia. «Rosso italiano. Mi fa venire la diarrea». Mi oltrepassò, molleggiandosi sui tacchi alti. Quando scomparve, girai intorno alla sua Cad. Era piuttosto malridotta, con le fodere di pelle consumate e rotte in molti punti, i fili del cruscotto che penzolavano come un groviglio di spaghetti. Il contachilometri segnava 97000 miglia. La macchina era immatricolata sotto il nome di Rhoda Pruitt, Slocum, una città a est di Boulder dove si trovava una miniera di carbone. Era il tipo di Frank Gagliano.

Quando tornai alla capanna, non c’era. Neanche mio padre. Frank era seduto al tavolo, beveva vino e mangiava pane e formaggio.

«Dov’è andata quella signora?».

«Quale signora?».

«Rhoda Pruitt».

«Ah, lei».

«Dov’è mio padre?».

«Le sta facendo vedere il posto. Lei lo vorrebbe comprare».

«Non sapevo che fosse in vendita».

«Dipende».

Andai alla porta.

«Dove vai?».

«A cercarli».

«Perché?».

«Così».

«Siediti. Mangia un po’ di ricotta».

«Odio quella dannata ricotta».

«Allora prendi il salame».

«Non ho fame».

«Mettiti seduto, ragazzetto. Non intralciare il lavoro».

«Quale lavoro?».

«Tuo padre sta portando la signora Pruitt a fare un giro di ricognizione. Stagli fuori dai piedi».

Aveva un modo tutto speciale di farmi inferocire, ed era proprio quello. Spalancai la porta e uscii. Se mio padre stava facendo un giro di ricognizione, doveva essere alla miniera. Mi ci diressi.

Seduta su una roccia davanti all’ingresso della miniera c’era Rhoda Pruitt, con le scarpe in grembo, e si massaggiava i piedi nelle calze. Mio padre non si vedeva.

«Ciao», disse Rhoda.

«Ciao. Mio padre è qui?».

«Qui? Non credo».

Andai verso il cunicolo della miniera.

«Non c’è là dentro».

Detti comunque un’occhiata, mi guardai intorno, poi mi girai verso di lei. «In che direzione è andato?».

«Hai provato alla capanna?».

«Ci sono appena stato. Frank ha detto che era con te».

«Non c’è».

Parlando non mi guardava, e improvvisamente capii che mio padre era vicino, da qualche parte. Riuscivo quasi a sentirne l’odore dietro a uno degli alberi o dietro l’ammasso di rocce oltre la miniera, o nascosto dietro ai folti cespugli.

«Papà!», lo chiamai. «Ehi, papà! Dove sei?».

Dalla gola si sentì l’eco che ripeteva le mie parole. Poi silenzio.

«Vedi?», disse Rhoda mettendosi le scarpe. La sua faccia si contrasse dal dolore quando si mise in piedi. «Non farti mai venire i calli», aggiunse. Poi s’irrigidì per una fitta misteriosa e improvvisa, e con una mano si compresse il sedere. «O le emorroidi».

Volevo immergermi nella boscaglia e farne uscire il mio vecchio, ma lei sembrava così sola ed esausta, come la sua vecchia Cadillac, che non riuscivo a starle accanto, allora mi girai e tornai alla capanna.

Frank era seduto sulla soglia.

«Ehi, ma che sta succedendo?», dissi.

«Non l’hai trovato?».

«Mi evita. Lo “so”».

«Sei matto. Era qui ora».

«Qui? E da quando?».

«Se ne è andato un secondo fa».

«Non ci credo».

«Come ti pare».

«E dove sarebbe andato?».

«A pescare».

«A pescare! E perché?».

«Per prendere pesci, stupido».

«Oh, merda. Si ricomincia. Altre bugie di un ateo».

Si strinse nelle spalle e uccise una zanzara sul suo braccio.

«Cosa sono le emorroidi?», domandai.

Non voleva dirmelo.

«Perché dovrei? Mi risponderesti che è un’altra bugia di un ateo».

«Va bene. Mi spiace. Dimmi solo dov’è andato».

«Giù».

Era un’altra bugia, chiaro, ma dovevo muovermi, perché sapevo che stavano prendendomi in giro, e dovevo continuare a camminare, restare fermo a pensarci su non mi faceva bene, così trotterellai lungo il margine del ruscello sapendo che era inutile, ma andavo avanti lo stesso, c’erano nugoli di moscerini che si spostavano al mio passaggio e rane che si buttavano nell’acqua per nascondersi. Il sole era già sul lato ovest della gola, e stava facendosi buio.

Sentii qualcosa e mi fermai. Era un motore che partiva, la Cadillac di Rhoda. Mi precipitai per una scorciatoia attraverso il bosco fino alla strada. La Cadillac aveva fatto conversione e si stava muovendo nel polverone, quando arrivai alla radura. C’era Rhoda al volante, ed ero certo che l’uomo accanto a lei fosse mio padre. Partirono veloci lungo lo stretto sentiero, seguendo le tracce e sobbalzando sulle buche, diretti verso l’autostrada.

Esausto e disgustato, mi lasciai cadere a terra. Era una cospirazione. Mi avevano giocato tutto il pomeriggio, mandandomi in tutte le direzioni. Perché? Cosa stava succedendo? Perché c’era quella donna? Davo la colpa a lei e a Gagliano. Stavano complottando qualcosa contro mio padre, e mi volevano levare di torno. Forse il loro piano era di eliminarlo. Forse avevano trovato un nuovo filone d’oro e avevano paura che io l’avrei scoperto.

Ma non ce l’avrebbero fatta. Ci sarebbe stata una resa dei conti. Mi alzai e andai alla capanna. Era giunto il momento. Carte in tavola, Gagliano! A che gioco giochi, ateo? Fuori la verità.

Aprii la porta con un calcio ed ebbi una sorpresa.

Lì seduto, a bere vino, c’era mio padre.

«Dì un po’, sei cresciuto in un fienile?».

Chiusi piano la porta.

«Dove sei stato?».

«A cercarti», dissi. «Dove sei stato “tu”?».

«Qui».

«Tutto il tempo?».

«Tutto il tempo».

«Non hai sentito che ti chiamavo?».

«Quando?».

Era inutile fare altre domande. Mi sedetti e lui mi versò un po’ di vino. «Mangia qualcosa»,

disse, avvicinandomi il pane e il formaggio.

«Cosa sono le emorroidi?».

Me lo disse, e dovetti scansare il cibo.

«Sei troppo giovane per le emorroidi».

«Non io. Quella donna».

«Ha i suoi problemi».

Si fece scorrere il vino in bocca, e sembrava pensoso. I suoi occhi parevano immersi nel sangue.

«Tua madre è una donna meravigliosa», disse.

Lo guardai.

«La migliore del mondo».

Si alzò traballando, si avviò a passi pesanti verso la porta e uscì. Andai anch’io alla porta. Si era seduto su un ceppo a qualche piede di distanza e parlava da solo.

«Un angelo», diceva.

Per quanto al crepuscolo non facesse ancora freddo, misi della legna nella stufa e mi stesi sul divano. Appoggiato a un gomito, guardavo attraverso la porta aperta mio padre. Era come una statua, con il mento nelle mani. C’era una gran calma, ma dietro a quel silenzio si sentiva uno strepitio, rane che gracchiavano, uccelli e grilli che cantavano, api che ronzavano e gli alberi che sospiravano al vento. Il fuoco scoppiettava e inondava il soffitto di ombre selvagge e riempiva di calore la capanna.

 

XI

 

Sembrava mezzanotte quando mi svegliai. Qualcuno mi aveva sfilato i jeans e le scarpe e mi aveva messo sopra una coperta. Dalla finestra filtravano raggi di luna. Il fuoco era divenuto un ammasso di cenere nella stufa. Gli altri due letti erano vuoti. Ero solo.

Mi misi i jeans e le scarpe e uscii. La luna era enorme. Sentii la risata rauca e ubriaca di Frank Gagliano e la voce di Rhoda Pruitt, poi un urlo di mio padre, provenivano dalla miniera. Mi dissi di non andarci, di restare nella capanna, di lasciarli stare, ma non mi davo retta, e la presenza del male che arrivava da lì mi trascinò sul sentiero, e corsi in punta di piedi incantato dal senso del peccato.

Non mi sentirono, né sentirono il battito fortissimo del mio cuore, e non mi videro nella foga della loro ammucchiata, grugnivano e succhiavano e si contorcevano nello scivolare nudo e pesante di braccia e gambe, intricate come un cumulo di serpenti bianchi annodati, che strisciavano su un lenzuolo aggrovigliato insieme a loro che si stringevano, annaspavano, bofonchiavano. Poi vidi la faccia di mio padre. Era la stessa del diavolo sulla porta. Mi girai e corsi via.

Corsi alla capanna. Avevo freddo, tremavo. Buttai altra legna nel fuoco. Rabbrividivo, avvolto in una coperta accanto alla fiamma, con i denti che battevano, clack, clack. Poi mi venne sete, avrei bevuto qualsiasi cosa, il vino! Bevvi e bevvi. Ero tremante e affamato, morto di fame.

Ma non il “loro” formaggio, il loro formaggio emorroidale, il “loro” pane.

Trovai la cassa con i panini che mia madre aveva preparato per me, e mangiai, era buono in bocca, dolce e buono, ma continuavo a tremare con la coperta sulle spalle, e il fuoco che mi bruciava la faccia. Poi scoprii la bottiglia che ci aveva messo, avvolta in un panno, una pinta di acqua santa. Ci aveva scritto sopra: «Acqua santa. Usare se necessario».

Ora lo sapevo, l’avrei fatto. Andai laggiù di corsa, con la bottiglia di acqua santa, un pazzo con l’acqua santa, lo sapevo, lo sapevo che ero un pazzo, ma non mi importava.

Dovevano essere avvertiti che stavo arrivando. Era corretto, ne avevano il diritto.

Urlai: «Acqua santa!».

Correvo, urlando: «Acqua santa!».

«Arriva l’acqua santa!».

«Ecco l’acqua santa!».

Mi precipitai nel cunicolo, loro erano ancora per terra, bianchi, nudi e paralizzati, rigidi come cadaveri.

«Attenzione all’acqua santa! Ecco l’uomo dell’acqua santa! E’ roba potentissima!».

La sparsi dappertutto, rovesciandola dalla bottiglia, bagnando i loro corpi bianchi e morti.

«E’ l’acqua santa, gente! E’ roba potentissima!». Sulle loro facce, i loro petti, le loro zone pelose, gettai l’acqua santa, per cacciare il demonio, uccidere il demonio, salvare mio padre, liberare mio

padre!

Corri, ora corri, e corsi per il sentiero e attraverso gli alberi lungo il ruscello. Svegliai uccelli che dormivano, e volarono via. Feci tacere i grilli. Feci tacere tutto lungo il mio cammino, fino a quando non potei più andare avanti e mi buttai sotto un albero, e mi nascosi la faccia pazzo dalla vergogna.

Mi trovò lui, mio padre. Mi sollevò e mi guardò in faccia, e disse: «Stai bene?». Mi prese la mano e camminammo in silenzio fino alla capanna. Sentii il rumore attutito di una macchina che si metteva in moto e si allontanava. Lui parlò una volta sola.

«Andrà tutto bene, vedrai», disse.

Gli tenevo la mano callosa e spessa, era come la zampa di un animale. Ma era mio padre, e non poteva averlo fatto, perché era mio padre, e certe cose non erano possibili.

Era stato Frank a farlo, Frank Gagliano, che ora era seduto sul letto e si abbottonava la camicia. Gli andai vicino, lo raggiunsi, e lo colpii in faccia con il mio pugno, e lui restò fermo a guardarmi. Cominciai a piangere e lo colpii ancora. Andai alla stufa piangendo, raspai come un cane nella catasta di legna finché trovai un bastone, e colpii Frank con quello. Vidi che gli sgorgava sangue dal naso e continuai a colpirlo. Lo colpivo sugli occhi, sulle guance, sulle orecchie, e gli aprivo piccole ferite e lui restava lì seduto e non si muoveva, e finalmente disse: «Ora basta», prese il bastone, lo ruppe, lo buttò nella stufa e si pulì il sangue con la camicia.

Era l’alba quando tornammo a casa.