Racconto di Adolfo Albertazzi
Mai più splendido cielo; mai aria più olente e queta…. E soli lor due andavano per l’argine che limitava la risaia dall’immensa prateria.
I colori del maggio inoltrato vi superavano la verde mèsse e la trapungevano: giallo di graziole, di tulipani e ranuncoli; lilla di porrette; gridellino di vecce; viola di prunelle e di salvie; bianco di ornitogali e nigelle, di eriche e giunchiglie; rosa e azzurro di giacinti; bleu di fiordalisi; rosso di trifoglio e papaveri. E margherite da per tutto. Quante!
Andavano, gli amanti, soli, guardando intorno; guardandosi e sorridendo senza trovar parole. Nei tardi passi, vicendevolmente e quasi timidamente, avvertivano che i loro sguardi eran pieni di ricordi, dei più lieti ricordi. E così parevano accrescersi l’intima gioia d’un ritorno a sé medesimi e approfondire la coscienza della loro anima; parevano estendere la capacità vitale d’ogni senso, schiarire il pensiero all’esistenza come ridesta, risorgere nell’essere loro, reintegrati d’ogni minima forza, a una vita rinnovata e a una sconosciuta armonia. Era una letizia lieve, di sogno, eppure tenace e valida; era un’illusione suscitata e mantenuta dalla divina realtà che li accoglieva; era un vago desiderio continuo e di continuo esaudito in quel fluire degli attimi; era la consapevolezza di una felicità certa e immanente.
Essa, di tanto in tanto, si chinava al margine e spiccava un fiordaliso o un ranuncolo o un geranio campestre.
Poi, tendendo le mani al prato in cui non ancora piede d’uomo aveva lasciato traccia e da cui la concordia delle tinte assorgeva come quella dei suoni in una sinfonia, esclamò:
— Vorrei correre, gettarmi là in mezzo!
— Va!
Ella scosse il capo.
— Non si può, senza calpestare!
Più avanti, al serbatoio, discesero nella barca. Remava lui.
Anche l’acqua sembrava riposare e godere in distesa azzurra, chiazzata qua e là dal verde delle ninfee e sparsa di macchie or scarse or copiose in canne e giunchi, e chiusa all’ingiro dalle sponde ombrose di salici; mentre la barca procedeva piano piano, soavemente, per quella frescura.
Canarini di valle si levavano con un vocìo sottile e così vivace da crederlo non segno di paura ma di più viva gioia nel volo.
Finché la barca trovò adito in mezzo alla macchia più folta di cannelle e saracchi, e ristette dove l’acqua bruna, sotto l’ombra, rivelava un brivido, al rezzo. Udirono uno svolazzar forte, di folaghe e anitre. E più nulla.
— Restiamo un poco? — A lungo ella sarebbe voluta restar là con lui. Gli abbandonava la mano nella mano.
— Sei contenta d’esser venuta?
— Non te l’avevo promesso…: a primavera? E di’: non ti sembra che se non fossi venuta in un giorno così bello la nostra felicità sarebbe stata meno grande?
Egli strinse forte la bianca mano.
— Sei mia!
E lei:
— Quanto bene mi vuoi!
Di nuovo tacquero cedendo alla dolcezza di quell’ora, in quella solitudine e nel silenzio che solo qualche pigolio interrompeva, o qualche canto lontano. Il profumo dei fiori lontani perveniva fin troppo greve. A quando a quando un murmure fra il canneto.
D’improvviso l’amata chiese a bassa voce:
— Hai sentito?
Si rivolse a rimuover le fronde e gli esili fusti più prossimi; volle ch’egli avanzasse la barca a quella parte, per veder meglio nel folto.
— Là! — dissero a una voce.
A limite dell’acqua, poggiato sui giunchi che il peso piegava, era un nido di folaghe. Avanzando ancora la barca, ecco balzar dal nido nell’acqua, con un doloroso richiamo, la folaga spaurita; e si levò a svolazzare su l’acqua intorno chiamando disperatamente il compagno.
Più nero, con un cóvv minaccioso, il maschio giunse, dalla macchia; cadde di volo, lì appresso; ma a scorgere il pericolo enorme si mise a correre per terra, con tal fretta e con tanta smania di fughe e ritorni che pareva impazzito.
— Povere creature! — disse la signora.
Ne volle affliggerle a lungo. Anzi, poi ch’ebbe visto da vicino il nido mirabilmente contesto di cannucce e ciperacee e steli:
— Andiamo via! — pregava. Una strana ripugnanza la trattenne dall’osservare dentro il nido.
— Che impressione strana! — mormorò intanto che la barca ritornava all’aperto.
— Tu vedessi i piccini gettarsi nell’acqua appena nati! — diceva l’amante.
E raccontava della caccia feroce che danno alle piccole folaghe i falchi di palude. Ma la sua voce non aveva pietà.
L’amata non gli badava. In lei a poco a poco l’impressione ricevuta diveniva sentimento, diveniva avversione sommossa dal fondo dell’anima, diveniva pensiero.
Teneva lo sguardo fiso nell’amante, che non dubitava, chiedendosi: «Perché mi ama? perché l’amo?» Leggeva la risposta in quegli occhi. Il loro amore aveva per fine sé stesso: null’altro. S’attendevano l’ebbrezza dei sensi in cui soffocare l’anima…, e non più. Questa, questa era la colpa: che il loro desiderio non oltrepassasse il loro piacere. Null’altro! E non dalla coscienza le insorgeva il rimprovero o l’ammonimento, ma le veniva da mille voci di vita feconda e di vita novella che nel fervido giorno la terra generatrice elevava e spandeva in un incognito indistinto inno di amore.
Alla voluttà che anche lei si era promessa mancava il sublime intendimento d’una gioia divina: questa la colpa! Da un umile nido essa aveva appreso perché si ama.
L’amante le chiese trepidando, sentendola sfuggire con lo sguardo velato:
— Che hai?
Essa tacque; abbassò gli occhi. E come egli, in un impeto di desiderio, fe’ per trarla al suo petto, lo respinse decisa:
— No!
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