Racconto di Bernard Malamud

 

 

Feld, il ciabattino, era seccato che Sobel, l’aiutante, fosse così sordo alle sue fantasticherie da non cessare per un attimo il suo fanatico martellare sull’altro deschetto. Gli lanciò un’occhiata, ma la testa calva di Sobel restò china sulla forma, senza accorgersene. Il ciabattino si strinse nelle spalle e, strizzando gli occhi, continuò a guardare dalla vetrina parzialmente gelata la miope foschia di quella vorticosa neve di febbraio. Né la mutevole macchia bianca là fuori, né l’improvviso intenso ricordo del nevoso paesucolo polacco in cui aveva sciupato la sua giovinezza riuscirono a distogliere i suoi pensieri da Max lo studente (un ospite stabile della sua mente fin da quel mattino presto, quando Feld l’aveva visto avviarsi a scuola arrancando sulla neve), che tanto ammirava per i sacrifici compiuti in tutti quegli anni ‒ d’inverno o col caldo più torrido ‒ allo scopo di migliorare la propria istruzione. Un vecchio desiderio tornò a pungere il ciabattino: avere un figlio anziché una figlia, ma subito la neve se lo portò via perché Feld, se non altro, era un uomo pratico. Eppure non poteva fare a meno di contrapporre alla diligenza del ragazzo, che era figlio di un venditore ambulante, l’indifferenza di Miriam per la cultura. D’accordo stava sempre con un libro in mano; però, quando le si era presentata la possibilità di iscriversi al college, aveva detto di no, che preferiva trovarsi un lavoro.

Lui l’aveva pregata di andare al college, sottolineando che non tutti i padri possono permettersi di mandare i propri figli all’università, ma lei aveva detto che voleva essere indipendente. Quanto all’istruzione, aveva aggiunto, cos’era, dopo tutto, se non una serie di libri, sulla scelta dei quali Sobel, che leggeva diligentemente i classici, l’avrebbe consigliata come sempre? Quella risposta aveva dato un grande dolore al padre.

Dalla neve emerse una sagoma e la porta si aprì. Al banco l’uomo tolse da un sacchetto di carta tutto bagnato un paio di scarpe scalcagnate da accomodare. Per un attimo il ciabattino non ebbe la minima idea di chi fosse, poi il suo cuore tremò quando si rese conto, prima d’averne scorto interamente il viso, che Max in persona era là in piedi, e spiegava con imbarazzo che cosa occorreva alle sue vecchie scarpe. Pur tendendo ansiosamente l’orecchio, Feld non udì una parola, perché l’occasione presentatasi tutt’a un tratto l’aveva reso completamente sordo.

Non ricordava di preciso quando gli fosse frullata per la testa quell’idea, ma certo più di una volta aveva pensato di proporre, al ragazzo di uscire con Miriam. Non aveva avuto, però, il coraggio di parlare, perché se Max avesse detto di no come avrebbe osato ancora guardarlo in faccia? E se Miria, che insisteva tanto sull’indipendenza, fosse andata in collera e lo avesse rimproverato per quell’intromissione? Stavolta, però, era un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare: non occorreva altro che una presentazione. I due avrebbero potuto essere amici da un pezzo se si fossero incontrati da qualche parte, perciò non era forse suo dovere ‒ obbligo, anzi ‒ metterli in contatto, null’altro che un innocuo stratagemma per supplire a un casuale incontro in metropolitana, diciamo, o alla presentazione d’un comune amico per la strada? Bastava che lui la vedesse e le parlasse una volta sola, perché di certo la ragazza lo interessasse. Quanto a Miriam, che cosa poteva rimetterci un’impiegata d’ufficio, che incontrava solo rappresentanti chiacchieroni e spedizionieri semianalfabeti, a fare la conoscenza d’un ragazzo istruito e perbene? Forse avrebbe risvegliato in lei il desiderio di andare all’università; se no ‒ la mente del ciabattino si decise finalmente a fare i conti con la verità ‒ che sposi un uomo colto e faccia una vita migliore.

Quando Max ebbe finito di spiegare le riparazioni che voleva alle sue scarpe, Feld le contrassegnò ‒ avevano tutt’e due degli enormi buchi nelle suole che lui finse di non vedere ‒ con due grandi x tracciate col gesso, e i tacchi di gomma, consumati fino i chiodi, li marcò con una o, anche se lo inquietava la possibilità d’aver confuso le lettere. Max s’informò sul prezzo, e il ciabattino si schiarì la voce e invitò il ragazzo, alzando il tono per sovrastare l’insistente martellio di Sobel, a passare per favore in corridoio dalla porta laterale. Benché sorpreso Max obbedì alla preghiera del ciabattino, e Feld entrò dopo di lui. Per qualche istante tacquero, perché Sobel aveva smesso di battere, e loro due sembravano convenire che nessuno doveva dir nulla finché il rumore non avesse ripreso. Quando ciò avvenne, empiendo il locale di frastuono, il ciabattino spiegò rapidamente a Max Perché aveva chiesto di parlargli.

«Fin da quando andavi alle medie», disse, nel corridoio dalla luce smorta, «ti guardavo al mattino mentre passavi diretto alla metropolitana e mi ripetevo: ecco un bravo ragazzo che ha tanto amore per l’istruzione».

«Grazie», disse nervoso Max, sul chi vive. Era alto e tanto magro da essere grottesco, con tratti molto affilati, e in particolare un gran naso a becco. Portava, come fosse un tappeto drappeggiato intorno alle spalle ossute, un lungo soprabito infangato che gli cadeva da tutte le parti e gli arrivava alle caviglie, e un vecchio cappello marrone, fradicio, malconcio come le scarpe che aveva dato da riparare.

«Io sono un uomo d’affari», disse bruscamente il ciabattino per nascondere il proprio imbarazzo, «e perciò ti spiegherò subito perché ho voluto parlarti. Ho una ragazza, mia figlia Miriam (ha diciannove anni), una ragazza molto per bene e anche tanto carina che quando passa per la strada tutti si voltano a guardarla. È intelligente, sempre con un libro in mano, e ho pensato che un ragazzo come te, un ragazzo istruito… ho pensato che forse ti piacerebbe fare la conoscenza di una ragazza così».

Rise un po’ quand’ebbe finito e fu tentato di dire di più, ma ebbe il buon senso di tacere.

Max fissava il pavimento come un falco. Per un attimo, pieno di disagio, tacque, poi domandò: «Ha detto diciannove anni?» «Sì».

«È permesso chiederle se ha una fotografia?»

«Un momento». Il ciabattino andò in negozio e ritornò subito con un’istantanea che Max accostò alla luce.

«Mica male», disse.

Feld rimase in attesa.

«Ed è una ragazza assennata… non di quei tipi volubili?» «È molto assennata».

Dopo un’altra breve pausa, Max disse che lui non aveva niente in contrario a fare la sua conoscenza.

«Ecco il mio numero di telefono», disse il ciabattino, porgendogli frettolosamente una strisciolina di carta.

«Chiamala. Rincasa dal lavoro alle sei».

Max piegò il foglietto e lo rispose nel logoro portafoglio di pelle. «Per le scarpe», disse. «quanto ha detto che mi verranno a costare?» «Non preoccuparti del prezzo».

«Vorrei solo averne un’idea».

«Un dollaro… un dollaro e cinquanta. Un dollaro e cinquanta.» disse il ciabattino.

Si pentì subito, perché di solito un lavoro del genere se lo faceva pagare due e venticinque. Avrebbe dovuto chiedere il prezzo regolare oppure fargli la riparazione gratis.

Più tardi, entrando in negozio, fu sorpreso da un violento fragore metallico e alzò gli occhi in tempo per vedere Sobel che picchiava con tutte le sue forze sulla forma nuda. Si ruppe, il ferro sbatté sul pavimento e rimbalzò contro il muro, ma prima che l’infuriato ciabattino potesse aprire bocca per gridare, l’aiutante aveva strappato cappello e cappotto dall’attaccapanni ed era corso fuori nella neve.

Così Feld che aveva tanto desiderato immaginare come sarebbe andata tra sua figlia e Max, si trovò invece improvvisamente assillato da una grande preoccupazione. Senza il suo suscettibile aiutante era perduto, soprattutto perché da anni, ormai, non mandava più avanti il negozio da solo. Da molto tempo il ciabattino era malato di cuore, e doveva evitare ogni strapazzo eccessivo che lo avrebbe certamente portato al collasso. Cinque anni prima, dopo un attacco, si era trovato nelle condizioni di mettere all’asta la bottega e vivere di stenti per il resto dei suoi giorni, o di porsi alla mercè di qualche dipendente senza scrupoli che alla fine probabilmente lo avrebbe rovinato. Ma proprio nel momento della disperazione più nera quel profugo polacco, Sobel, era sbucato fuori una sera dal buio della strada implorando un lavoro.

Era tarchiato, miseramente vestito, con una testa calva che un tempo era stata bionda, un viso grave e brutto e teneri occhi occhi azzurri pronti a lacrimare sui libri tristi che leggeva, un giovane già vecchio; nessuno gli avrebbe dato trent’anni. Pur confessando di non intendersi affatto di scarpe Sobel disse che era sveglio e avrebbe lavorato per molto poco se Feld gli avesse insegnato il mestiere. Pensando che, dopo tutto, da un compatriota avrebbe avuto meno da temere che da un perfetto estraneo, Feld lo prese alle sue dipendenze e in capo a sei settimane il profugo sapeva risuolare una scarpa bene quanto lui, e non molto tempo dopo mandava già avanti abilmente il negozio per conto del ciabattino, che poté finalmente tirare un sospiro di sollievo.

Di lui Feld poteva fidarsi ciecamente e così, dopo un’ora o due in negozio, spesso se n’andava a casa lasciando tutti i soldi in cassa, sapendo che Sobel li avrebbe custoditi fino all’ultimo centesimo. La cosa più strana era che quell’uomo chiedeva così poco. Scarsi erano i suoi bisogni: i soldi non gli interessavano, pareva che gli importasse solo dei libri, che prestava a Miriam, uno a uno, insieme ai commenti di suo pugno, strani e abbondanti, composti durante le sue serate solitarie in una camera ammobiliata, fitti quaderni d’appunti che il ciabattino sfogliava, alzando le spalle in segno di perplessità, mentre sua figlia, dall’età di quattordici anni, li leggeva pagina per pagina, religiosamente, come se recassero inciso il verbo di Dio.

Toccava a Feld provvedere a che Sobel ricevesse più di quanto chiedeva. Però gli rimordeva la coscienza per non aver convinto l’aiutante ad accettare un salario migliore, anche se Feld onestamente gli aveva detto che avrebbe potuto guadagnare una buona paga se avesse lavorato altrove, o magari aperto un negozio in proprio. Ma Sobel rispondeva, piuttosto sgarbatamente, che non aveva nessuna voglia di andare altrove, e sebbene Feld si fosse chiesto sovente: Cos’è che lo tiene qui, perché rimane?, alla fine si era persuaso che Sobel senza dubbio a causa delle sue terribili esperienze di profugo, avesse paura del mondo.

Dopo l’incidente della forma fracassata, infastidito dall’atteggiamento di Sobel, il ciabattino decise di lasciarlo una settimana a cuocere nel suo brodo, nella camera ammobiliata, anche se questo comportò una grave prova per la sua salute e gli affari ne risentirono. Però, dopo vari e aspri rimbrotti da parte della moglie e della figlia, alla fine andò in cerca di Sobel, come aveva fatto già una volta, pochissimo tempo prima, quando per un immaginario affronto ‒ Feld lo aveva solo pregato di non dare a Miriam tanti libri da leggere perché i suoi occhi erano rossi e affaticati ‒ l’aiutante l’aveva piantato in asse pieno di stizza; incidente che, come al solito, era finito in una bolla di sapone, perché dopo un colloquio col ciabattino Sobel era tornato a prendere il proprio posto al deschetto.

Ma questa volta, dopo che Feld si fu fatto largo a fatica nella neve fina a casa di Sobel ‒ aveva pensato di mandare Miriam ma subito l’idea gli era parsa ripugnante ‒ la corpulenta padrona di casa, sulla porta, lo informò con voce nasale che Sobel non c’era, e sebbene Feld sapesse che era una bugia bella e buona ( dove poteva mai andare il profugo?), tuttavia per qualche ragione di cui lui stesso non si rese ben conto ‒ poteva essere per colpa del freddo e della sua stanchezza ‒ decise di non insistere per vederlo. Tornò a casa, invece, e assunse un nuovo aiutante.

Così la faccenda era sistemata, anche se non in modo del tutto soddisfacente. Feld, infatti, aveva da fare assai più di prima, e al mattino, per esempio, non poteva più poltrire a letto dovendo andare ad aprire al nuovo aiutante, un uomo moro e taciturno con un irritante respiro affannoso mentre lavorava, al quale non poteva fidarsi di dare la chiave come aveva sempre fatto con Sobel. Per giunta era un tipo capace di fare bene le riparazioni, ma che non si intendeva affatto di prezzi o di qualità del cuoio, e così Feld doveva occuparsi personalmente degli acquisti e ogni sera al momento di sospendere il lavoro era necessario contare il danaro nel cassetto e chiudere tutto a chiave. Però Feld era scontento, perché passava gran parte della giornata pensando a Max e Miriam. Lo studente le aveva telefonato, e avevano fissato di vedersi la sera del venerdì successivo. Il ciabattino avrebbe preferito il sabato, che secondo lui ne avrebbe fatto un appuntamento di prima grandezza, ma venne a sapere che era stata Miriam a scegliere il venerdì, e non disse nulla. Il giorno della settimana non contava. Quel che contava era il seguito. Si sarebbero piaciuti, avrebbero desiderato diventare amici? Sospirò pensando a tutto il tempo che sarebbe passato prima di poterlo sapere con certezza. Spesso era tentato di parlarne con Miriam e di domandarle se pensava che il giovane le sarebbe piaciuto ‒ le aveva detto soltanto che Max gli sembrava un bravo ragazzo e che gli aveva suggerito lui di telefonarle ‒ ma l’unica volta che ci provò lei gli rispose soltanto, e a ragione: «Come faccio a saperlo?»

Finalmente giunse il venerdì. Feld non si sentiva molto bene e rimase a letto, e la signora Feld ritenne opportuno restare in camera con lui quando Max suonò alla porta. Miriam fece gli onori di casa, e i suoi genitori udirono le lo voci (quella di di lui era gutturale), mentre parlavano. Un attimo prima di uscire, Miriam accompagno Max sulla soglia della stanza da letto e lui vi si fermò un momento, una figura allampanata, leggermente curva sotto l’abito pesante, sformato, e apparentemente disinvolta mentre salutava il ciabattino e la moglie, il che era senz’altro di buon auspicio. E Miriam, pur avendo lavorato tutto il giorno, aveva un’aria fresca e graziosa. Era una ragazza dall’ossatura robusta con un corpo ben fatto, un bel viso aperto e capelli morbidi. Facevano, pensò Feld, una coppia di prim’ordine.

Miria tornò dopo le undici e mezza. Sua madre dormiva già, ma il ciabattino scese dal letto e dopo aver rintracciato a tentoni la vestaglia andò in cucina, dove, con grande sorpresa, trovò Miriam che leggeva suduta al tavolo.

«E allora, dove siete andati?», chiese affabilmente Feld.

«A fare quattro passi», rispose lei, senza alzare lo sguardo.

«Gliel’ho consigliato io», disse Feld, schiarendosi la gola, «di non spendere troppo».

«Oh per me…»

Il ciabattino mise su un po’ d’acqua per il tè e poi si sedette a tavola davanti alla tazza piena, con dentro una spessa fetta di limone.

«E allora», sospirò, dopo un sorso, «ti sei divertita?» «È andato tutto bene».

Lui tacque, Lei dovette avvertire il suo disappunto, perché aggiunse: «Non si può dire molto, la prima volta».

«Lo rivedrai?»

Voltando pagine, lei disse che Max le aveva chiesto un altro appuntamento. «Per quando?» «Sabato».

«E tu che hai detto?»

«Che ho detto?», domandò lei, per prender tempo.

«Ho detto di sì».

Poi gli chiese notizie di Sobel, e Feld, chissà perché. Disse che l’aiutante s’era trovato un altro posto. Miriam non disse nulla e riprese la lettura. Al ciabattino non rimordeva la coscienza, era soddisfatto dell’appuntamento per il sabato.

Durante la settimana, infilando qua e là un’abile domanda, riuscì a cavare da Miriam qualche informazione su Max. lo sorprese la notizia che il ragazzo non studiava da medico ma frequentava un corso commerciale per prendere un diploma in ragioneria. Feld rimase un po’ deluso perché considerava i ragionieri nient’altro che dei contabili e avrebbe preferito «una professione più elevata». Però, poco dopo s’informò sull’argomento e scoprì che i ragionieri iscritti all’albo erano persone degne del più alto rispetto, e così ritrovò tutta la sua contentezza mentre il sabato si avvicinava. Ma poiché il sabato era un giorno di molto lavoro, passò quasi tutto il tempo in negozio e non vide Max quando venne a prendere Miriam. Seppe dalla moglie che non c’era stato nulla di particolarmente significativo nel loro incontro. Max aveva suonato il campanello e Miriam s’era messa il cappotto ed era uscita con lui: nient’altro. Feld non indagò oltre, Giacché sua moglie non aveva spirito d’osservazione. Attese invece il ritorno di Miriam con un giornale sulle ginocchia, al quale diede appena una scorsa tanto era assorto nei suoi pensieri sull’avvenire. Si svegliò in tempo per trovarsela nella stanza, mentre si toglieva il cappello con gesto stanco. Salutandola, lo prese un’improvvisa, inesplicabile paura di chiederle della serata. Ma poiché lei non gli dava spontaneamente nessuna notizia, alla fine fu costretto a domandarle se s’era divertita. Miriam cominciò un vago discorso ma evidentemente cambiò idea, perché disse dopo un istante: «Mi sono annoiata» Quando Feld si fu ripreso dalla sua angosciata delusione tanto da chiedere perché, lei rispose senza esitare: «Perché non è altro che un materialista».

«Che cosa significa questa parola?»

«E’ senz’anima. Gli interessano soltanto le cose».

Lui rifletté a lungo su questa dichiarazione ma poi disse: «Lo rivedrai?» «Non me lo ha chiesto». «E se te lo chiedesse?» «No».

Feld non si azzardò a discutere; però col passare dei giorni crebbe la sua speranza che lei cambiasse idea. Si augurò che il ragazzo telefonasse, perché era certo che valeva di più di quanto Miriam, nella sua esperienza, potesse immaginare. Ma Max non si fece vivo. Prese anzi un’altra strada per andare a scuola, senza più passare davanti al negozio del ciabattino, e Feld rimase profondamente ferito.

Poi un pomeriggio Max entrò per ritirare le sue scarpe. Il ciabattono le tolse dallo scaffale dove le aveva messe, separate dalle altre paia. Aveva eseguito il lavoro personalmente e le suole e i tacchi erano solidi e ben fatti. Le scarpe, lucidate alla perfezione, erano tornate come nuove. Il pomo d’Adamo di Max andò su e giu quando le vide e gli brillarono gli occhi.

«Quanto fa?» domandò, senza guardare in faccia il ciabattino.

«Come ti ho già detto», rispose Feld con l’aria triste.

«Un dollaro e cinquanta».

Max gli porse due biglietti stropicciati e ricevette in cambio una moneta d’argento da mezzo dollaro nuova di zecca.

Uscì. Di Miriam non aveva fatto parola. Quella sera i ciabattino scoprì che il suo nuovo aiutante l’aveva derubato in continuazione, e fu colto da un attacco di cuore.

Benché l’attacco fosse molto lieve, rimase a letto per tre settimane. Miriam si offrì di andare in cerca di Sobel, ma pur malato com’era Feld respinse irosamente l’idea.

Eppure in cuor suo sapeva che non c’era altra soluzione, e la prima estenuante giornata che passò in negozio, lo convinse del tutto, sicché la sera stessa, dopo cena, s trascino fino da Sobel.

Arrancò su per le scale, pur sapendo che erano veleno per lui, e quando fu in cima bussò all’uscio. Sobel aprì e il ciabattino entrò. La stanza era piccola e misera, con una sola finestra che dava sulla strada. Conteneva una brandina, un tavolo basso e parecchie pile di libri accatastati alla rinfusa sul pavimento lungo la parete, che gli fecero pensare alla singolarità d’un tipo come Sobel, che non era istruito eppure leggeva tanto. Una volta gli aveva chiesto: Sobel, perché leggi tanto? E l’aiutante non era stato in grado di rispondergli. Hai mai studiato da qualche parte? gli aveva domandato, ma Sobel aveva scosso la testa. Leggeva, aveva risposto, per sapere. Ma per sapere che cosa, aveva domandato il ciabattino, e perché per sapere? Sobel non aveva mai dato una spiegazione, il che dimostrava che leggeva molto perché era un tipo eccentrico.

Feld si mise a sedere per riprendere fiato. L’aiutante riposava sul letto con la schiena massiccia contro la parete.

Camicia e calzoni erano puliti, e le sue dita tozze, lontane dal deschetto da calzolaio, apparivano stranamente pallide. Anche la faccia era smunta, come se fosse rimasto chiuso in quella stanza dal giorno in cui era uscito come un razzo dal negozio.

«Allora quando torni al negozio», chiese Feld.

Con sua sorpresa, Sobel esclamò: «Mai».

Balzando in piedi, s’avvicinò a lunghi passi alla finestra che dava sulla misera viuzza. «Perché dovrei tornare?», gridò.

«Ti aumenterò la paga».

«Chi se ne frega della sua paga!»

Il ciabattino, sapendo che era proprio così, non trovò nulla da dire.

«Che vuoi da me Sobel?»

«Niente»

«Ti ho sempre trattato come un figlio».

Sobel lo smentì con impeto. «Allora perché cerca per la strada dei ragazzi sconosciuti da far uscire con Miriam? Perché non pensa a me?»

Le mani e i piedi del ciabattino si fecero di gelo. La sua voce si fece così rauca che non riuscì ad articolare parola. Finalmente si schiarì la gola e gracchiò: «Che c’entra mia figlia con un ciabattino di trentacinque anni che lavora per me?»

«Perché crede che abbia lavorato tanto per lei?» esclamò Sobel. «Con la paga miserabile che mi dà, crede che abbia sacrificato cinque anni della mia vita perché lei avesse da mangiare e bere e un posto per dormire?»

«E perché allora?», urlò il ciabattino.

«Per Miriam», esplose «Per Miriam».

Il ciabattino, dopo una pausa, riuscì a dire: «Io pago in contanti, Sobel», e ripiombò nel silenzio. Pur bollendo di rabbia, la sua mente era fredda e chiara, e dovette riconoscere, tra sé, d’aver sempre intuito quali erano i sentimenti di Sobel. Non era mai arrivato al punto di pensarlo coscientemente, ma l’aveva percepito e ne aveva paura.

«Miriam lo sa?»

«Come lo sa?», disse Sobel. «Perché lo sa. Sa chi sono e che cosa ho in cuore».

D’un tratto Feld ricollegò tutto, in qualche modo, tortuosamente, con i suoi libri e i suoi commenti, Sobel aveva fatto intendere a Miriam che l’amava. Il ciabattino provò un’ira tremenda verso di lui per questo inganno.

«Sobel tu sei matto», disse, aspro. «Lei non sposerà mai un uomo vecchio e brutto come te».

Sobel si fece nero di rabbia. Insultò il ciabattino, ma poi, pur tremando dallo sforzo di trattenerle, gli occhi si riempirono di lacrime e scoppiò in violenti singhiozzi. Voltando la schiena a Feld, rimase alla finestra, coi pugni serrati e le spalle squassate dal pianto soffocato.

Al vederlo la collera del ciabattino diminuì. Gli venivano i brividi dalla compassione che gli faceva quell’uomo, e gli si inumidirono gli occhi. Com’era strano e triste che un profugo, un uomo adulto, calvo e vecchio per tutti i guai che aveva passato, scampato per un pelo ai forni crematori di Hitler, dovesse innamorarsi una volta in America, di una ragazza che aveva meno della metà dei suoi anni. Giorno dopo giorno, per cinque anni s’era seduto al deschetto, a tagliare e martellare senza tregua, in attesa che la ragazza diventasse donna, incapace di alleggerire il suo cuore con le parole, non conoscendo altra protesta che la disperazione.

«Non volevo dire brutto», disse a mezza voce.

Allora si rese conto che ciò che aveva definito brutto non era Sobel ma la vita di Miriam se l’avesse sposato. Provò per sua figlia un dolore strano e lancinante, come se fosse già la sposa di Sobel, la moglie, dopo tutto, d’un ciabattino, destinata a non avere dalla vita più di quello che aveva avuto sua madre. E tutti i suoi sogni per lei ‒ per cui si era logorato e distrutto il cuore a furia d’ansie e di fatiche ‒ tutti quei sogni d’una vita migliore erano morti.

Nella stanza era calato il silenzio. Sobel era in piedi davanti alla finestra e leggeva, ed era proprio curioso che quando leggeva sembrasse così giovane.

«Ha solo diciannove anni», disse Feld, con voce rotta.

«È ancora troppo giovane per sposarsi. Non chiederglielo per altri due anni, finché non ne avrà ventuno e allora le potrai parlare».

Sobel non rispose. Feld si levò in piedi e uscì. Scese lentamente le scale ma una volta fuori, benché fosse una gelida serata, e la neve farinosa, cadendo imbiancasse la via, camminò con passo più energico. Ma l’indomani mattina, quando il ciabattino andò, col cuore gonfio, ad aprire il negozio, vide che avrebbe potuto farne a meno, perché il suo aiutante era già seduto al deschetto, e pestava il cuoio per il suo amore.