Racconto di Stefano Benni
(La grammatica di Dio, 2007)
La morte andò a trovare il vecchio. Ci andava quasi ogni giorno, ormai. Sedeva insieme a lui sulla riva e lo guardava pescare. Quando il vecchio prendeva un pesce e lo rimetteva in acqua, la morte scuoteva la testa.
Il vecchio annusava l’odore delle alghe portate a riva dalle onde. Diceva ridendo: – Sono morte, ma respirarle fa bene ai polmoni.
– Ridi pure, vecchio – diceva la morte, e si riparava dal sole con un cappellaccio di paglia sfondata.
Il pescatore osservava i colori del mare pennellati dal vento, una striscia chiara di bonaccia e laggiù una striscia indaco di maestrale, e pensava alle isole che aveva visitato. La morte pensava ai galeoni inabissati, agli scheletri che li abitavano, e ad antiche battaglie. La lenza vibrava sottile, quasi invisibile, sospesa tra due mondi.
– Le onde sono tutte diverse – diceva il vecchio. – Se ascolti bene, quando si infrangono a riva, non sentirai mai due volte lo stesso suono. Il mare è un grande musicista. E anche i pesci sono uno diverso dall’altro. Ci sarà sempre un riflesso, un ricamo sulla pinna, la miniatura di una squama che non avevi mai visto prima.
– Anche i soldati sembrano tutti uguali – disse cupa la morte. – Bisogna averne visti morire molti per capire la differenza.
Una nuvola coprì il sole, e il vecchio rabbrividì.
– È ora che tu venga con me, vecchio – disse severa la morte. – Hai tanti anni, ormai fai fatica a vedere la lenza, i pesci ti scappano. E quando li prendi, li lasci andare, perché pensi che ti assomigliano. Perché vuoi vivere ancora? Che speranza hai?
– Magari mi succederà ancora qualcosa di bello. Mi passi un verme?
La morte infilò il verme sull’amo, con maestria. Poi disse: – Cosa vuoi che ti succeda ancora? Passi i tuoi giorni tra malattia e insonnia, e non fai altro che ricordare. Vivi solo nel passato, ormai.
– Forse hai ragione – disse il vecchio.
Il vento cambiò e le barche all’ormeggio cominciarono a girarsi, come in una danza. Il vecchio catturò un pesciolino d’argento col colletto nero e lo ributtò in acqua.
– Ti ho mai raccontato di quell’aragosta che scappò dalla cesta, e camminò fino al mare? Correva come un gatto, te lo giuro.
– Me lo hai raccontato almeno dieci volte. E io ti ho raccontato di quello che mi è successo con Rasputin?
– Almeno dieci volte anche tu. E’ tanto tempo che ci conosciamo, morte.
Il mare era ora calmo e trasparente. La lenza era una freccia infissa nel mare, immobile e argentata. Il silenzio sembrò troppo anche alla morte.
– Tu pensi che io sia ingiusta, vecchio?
– Ingiusta, inutile, e crudele.
– E perché parli con me?
– Cos’altro posso fare?
– Forse potrei non essere ingiusta – disse la morte. – Ma se fossi giusta, allora anche la vita dovrebbe cambiare, non credi? Pensare a me sarebbe diverso, niente potrebbe essere come prima. Niente di quello che c’è rimarrebbe. E non sarebbe una morte anche questa?
– Parli troppo, morte, mi spaventi i pesci.
– Già. Sai, anche per loro la morte è ingiusta.
– Sì, lo so. È un pensiero che qualche volta non mi fa dormire. Il vecchio sembrò di colpo immensamente triste.
– Qual è il momento più felice che ricordi, vecchio?
– Oh, sono tanti – rispose il pescatore.
– Il primo che ti viene in mente.
– Tanti anni fa, in un giorno d’estate come questo, io e mio figlio andammo a pescare. Lui aveva otto anni. Camminando verso la spiaggia, incontrammo un campo di girasoli. Era sterminato, saliva su una collina come un’onda e poi la scavalcava e scendeva, tutto il mondo sembrava d’oro. Entrammo nel campo, nuotando in un mare frusciante, pieno d’odori e insetti. A ogni folata di vento, i fiori si muovevano tutti insieme, come fanno i banchi di pesci, nessuno dava l’ordine, sapevano dove andare. Un amico ci vide e perciò ho una foto di quel giorno. La guardo ogni volta che sono triste.
– Bel ricordo, – disse la morte – ma cosa c’entra con la speranza? Tuo figlio è grande ormai. Il campo di girasoli forse non esiste più. Il tuo amico è morto. E tu non sai più pescare, sei quasi cieco, non riconosci un dentice da un’orata.
– E tu non riconosci più i soldati dai bambini – disse il vecchio.
Il sole stava calando, i lampioni del lungomare si accesero e illuminarono le chiome delle palme. Lontano si vide il balenare di un faro.
– Anche i segnali dei fari sono tutti diversi – disse il vecchio. – Quello laggiù, per esempio…
– Non cambiare discorso – disse la morte, sfiorandolo con la mano. – Allora, cosa speri per il tuo misero futuro, vecchio?
Il vecchio guardò lontano.
– Spero di tornare ancora, insieme a mio figlio, in quel campo di girasoli – rispose.
– Ma non succederà, – disse la morte, spazientita – morirai e non succederà!
– Non ti arrabbiare – rise il vecchio.
– Io morirò, è vero. Ma non puoi convincermi che non succederà. Non puoi niente contro questa speranza. Non c’entra la fede, né la paura. Neanche tu, qui vicino a me sulla Terra, sai cosa succederà. La morte restò in silenzio. – E bada, – continuò il vecchio – anche se io decidessi di morire, se mi togliessi la vita, neanche allora mi avresti tolto la speranza. Tornerò in quel campo, con mio figlio.
La morte rise amaramente e tirò un sasso nell’acqua. Il sasso affondò senza rumore. Poi si alzò in piedi, e il vento le fece volare via il cappellaccio. Era piena di rughe, assomigliava al pescatore.
– Ci vediamo domani, vecchio testardo. Ho lavoro sull’autostrada, stanotte.
– Vacci piano – disse il vecchio.
– Andate piano voi – disse la morte. Riprese il cappello, se lo calcò in testa e guardò il mare. Sospirò. Sembrava non avesse voglia di andarsene. – E dov’è questo campo di girasoli? – chiese.
– Domani ti porto – disse il vecchio.
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