Racconto di Maria Letizia Pecoraro

(Settima pubblicazione – 17 settembre 2020)

 

Mi innamorai così, nel volgere di un giorno, il primo di una vacanza a lungo vagheggiata e finalmente giunta. Avevo un mese e mezzo da riempire tra una vita che si concludeva e l’inizio di quell’altra da progettare.

Era l’estate del 2020, un anno strano, un bisestile che aveva deciso di far pesare tutta la sua virulenza addosso ad un mondo distratto dalle mille incombenze imposte dalla cosiddetta vita moderna. Avevo giusto giusto chiuso in soffitta le decorazioni di Natale, archiviando definitivamente quel treno di giorni festivi che martoriava la mia solitudine da un decennio ormai, da quando mamma e papà, quasi l’avessero deciso prima, erano morti a sei mesi di distanza l’uno dall’altra, quando l’inatteso ci colse nel mezzo delle nostre vite, scompigliando le carte.

I miei genitori mi avevano lasciato in eredità quell’appartamento, al terzo piano di un palazzotto dignitosamente vetusto, nel centro della mia cittadina di quasi ventimila abitanti, nel lembo estremo della Puglia.

Avevo trentacinque anni e un lavoro che svolgevo in casa da quasi venti.

Fin da bambina mi ero innamorata del miracolo che la mia mamma riusciva a compiere con uno scampolo di tessuto e con le sue mani: interi pomeriggi passati in quella sua stanzetta, in fondo al corridoio, con lo scaffale lungo il muro a contenere le pile di tessuti in attesa di diventare vestiti, lo specchio sulla parete di fronte e la tenda a fiori in fondo che, tirata al bisogno, s’inventava un camerino di tutto rispetto, per preservare l’intimità delle signore che venivano per le prove. L’ho amato ogni istante quel gioco di magia – così mi sembrava da piccolina – e non ho mai pensato di fare altro nella vita, per questo frequentai una scuola per stilisti e, subito dopo il diploma, cominciai ad affiancare la mamma nel suo lavoro. Volevo impratichirmi e provare al tempo stesso a declinare nella realtà tutto ciò che avevo imparato a scuola. Intanto disegnavo modelli tutti miei: creavo vestiti sontuosi che idealmente avrebbero accompagnato le serate di gala delle più eleganti donne del jet set.

Sognavo. E intanto coltivavo l’ambizione di riuscire, un giorno, a srotolare bobine di tessuti preziosi, di ricamare intarsi di cristalli, di cucire a piccolo punto orli finissimi, dentro il laboratorio di una sartoria d’alta moda.

Sognavo, e intanto il tempo scorreva via veloce, senza che io riuscissi ad ingranare quella marcia che mi avrebbe condotta lontano, dove occorreva andare per realizzare il mio futuro solo immaginato. Mi tenevano legata lì i miei genitori divenuti anziani e fragili, il pensiero della solitudine dentro cui li avrei lasciati e poi, piano piano, tutto quell’entusiasmo si era andato affievolendo, soppiantato da uno solido e grigio senso della realtà.

Poi arrivò quell’anno, il 2020 e nel mezzo del suo secondo mese la vita parve bloccarsi. Una malattia stava diffondendosi rapidamente dai paesi asiatici fino a noi, divenendo in poco tempo un’emergenza sanitaria e costringendoci tutti a misure eccezionali: fu dichiarato lo stato d’emergenza per quella che fu definita una pandemia.

La vita si fermò per tre mesi, letteralmente.

Fu in quella sospensione temporale, sciorinando i giorni nella solitudine della quarantena, che decisi  il corso futuro  della mia vita.

Se sarò fortunata ed uscirò indenne da questo disastro – mi dicevo ogni giorno – andrò via di qua, il mio sogno dovrà essere realtà, oppure ne cercherò un altro.

Decisi che avrei venduto la casa e mi attivai immediatamente per trovare un acquirente: la mia vicina di pianerottolo cercava un pretesto per attirare la figlia sposata vicino a sé e quale miglior esca che quell’appartamento ben tenuto proprio a due passi da lei? Attendemmo l’evolversi della situazione e alla fine della cosiddetta “fase 1” stipulammo un accordo in attesa del rogito notarile. Intanto nei giorni di apparente inerzia – non potevo incontrare nessun cliente e dunque non avevo da lavorare – riuscii ad intessere una fitta rete di relazioni che mi portarono alla meta: appena fosse stato possibile spostarsi in sicurezza, avrei incontrato il responsabile delle risorse umane di una maison parigina: stavano selezionando personale specializzato, artigiani che conoscessero il lavoro sartoriale.

Cercano me, pensai.

Il sogno si stava avvicinando a lunghe falcate.

Il 10 luglio, un venerdì mattina, quel sogno fu nelle mie mani: da ottobre la Gabrielle Blanc mi apriva le porte del suo atelier.

Mi restavano due mesi e mezzo per cercare una sistemazione, impacchettare quel che avevo deciso di prendere della mia vecchia vita e adagiarlo nel largo spazio vuoto di quella nuova; non dovevo neppure cercar casa, l’azienda mi forniva un alloggio, un monolocale a due passi dalla sede.

Decisi che mi sarebbe bastato settembre: avevo chiaro in mente cosa lasciare andare, molto – Annamaria, la figlia della mia vicina aveva acconsentito di buon grado a comprare per una manciata di euro in più anche il mobilio – il resto sarebbe finito in un paio di scatoloni da affidare ad un corriere.

Venti giorni di luglio e l’intero agosto erano vuoti e decisi di riempirli di me.

Affittai una casetta sul promontorio di fronte al mare, in una località non molto distante da dove avevo trascorso la mia vita e che aveva sempre esercitato su di me un fascino inspiegabile.

Papà ci portava in gita a Santa Maria di Leuca una volta all’anno, sul finire dell’estate e dopo la visita alla Madonna percorrevamo la litoranea fino a Otranto: un nastro d’asfalto incuneato tra rocce calcaree e terra rossa da un lato e dall’altro scogliera a strapiombo sul mare più azzurro che si possa immaginare. Ad un certo punto, in una località di cui non conoscevo il nome, tra le rocce spuntavano casette dentro la macchia mediterranea, tra gli ulivi ed io prendevo ad abitarne una, come fosse mia. M’immaginavo di dormire nel fresco di lenzuola colorate, tra le correnti d’aria di finestre spalancate e di svegliarmi alle prime luci dell’alba con la smania di guardare il mare illuminarsi con i raggi del sole nascente.

Affittai una casetta, una di quelle dei miei sogni di bambina, a Novaglie, così si chiamava quel posto, come seppi dopo e mercoledì 15 luglio mi insediai portando con me una valigia di vestiti colorati, alcuni libri e la mia solitudine, chiedendomi se non stessi sbagliando a seppellirmi in quel posto isolato.

In realtà mi adattai subito al luogo e poi alle persone che discrete mi erano intorno.

La mia casa era circondata da un giardino a terrazze, ma poco più in là un’altra casa mi faceva compagnia. Scoprii già il giorno dopo che l’abitava un uomo che viveva lì tutto l’anno. Lo intravvedevo al mattino, seduto a bere il caffè sotto un pergolato gemello del mio, assorto in pensieri suoi, spesso attento nella lettura di un libro o a lavorare su un PC.

Non dava segno di accorgersi della mia presenza ed io facevo attenzione a non darne.

Poi una mattina, tre o quattro giorni dopo il mio arrivo, mentre cercavo uno scoglio su cui appollaiarmi a prendere il sole, non troppo lontana dal punto in cui avrei potuto fare il bagno, me lo ritrovai a pochi passi da me, nella posizione esatta in cui lo coglievo al mattino, nel suo giardino.

“Buongiorno – mi sorprese con voce bassa – direi che possiamo passare alle presentazioni. Ci manca solo il nome, no?! Io sono Biagio”.

“Io mi chiamo Teresa, buongiorno. Beh sì, effettivamente dopo quattro caffè insieme direi che è ora di conoscere i nostri nomi”, scoppiai a ridere.

Intanto mi domandavo da dove mi venisse questo cameratismo con un perfetto sconosciuto. Decisi in fretta che la spigliatezza della nuova Teresa, per quanto sorprendente, mi piaceva e mi ci abbandonai senza pensieri.

O meglio, credevo di non averne ma pensavo, pensavo a squarciagola! Mi si affollavano dentro gli occhi e la testa, fotogrammi di lui – sotto al pergolato, con la tazzina di caffè in una mano, passeggiando in giardino, con il libro tra le mani, intento a dare acqua alle piante, sotto la chioma larga di un grande fico alla ricerca forse di frutti maturi…

Ma quando t’ho guardato così tanto?-  mi chiedevo

“La discesa migliore per fare il bagno è di qua, vieni” la sua voce bassa bucava i miei pensieri. Alzai lo sguardo e lui mi indicava un punto poco distante, la mano tesa a prendere la mia, come fosse la cosa più naturale del mondo.

Ecco, mi innamorai lì, su quello scoglio bruno, una mattina di luglio, con il sole affacciato ad est, scintillante sul mare calmo.

Mi innamorai di una voce, di una figura persa nel verde, di un sorriso che pareva aver aspettato solo me.

Mi sembrò del tutto naturale guardarlo arrampicarsi sullo scoglio in alto, alle mie spalle, dopo avermi fatto approdare sulle alghe fresche – lui audace che si tuffava tra le onde fredde del mattino e dopo essersi scrollato via l’acqua dal viso, volgerlo a me invitandomi con gli occhi a raggiungerlo. Come fosse sempre accaduto, come se ci fosse sempre stato, con me.

Non volevo dirlo neppure a me stessa ma quando, sotto la canicola del pomeriggio salentino, decidemmo di tornare a casa a pranzare, io lo amavo già.

“Ho frise e pomodori del mio orto e stamattina all’alba ho raccolti dei fichi dolcissimi”, me lo diceva includendomi in quell’affresco, offrendomi oltre al pranzo anche il prendersi cura di me incominciato su quello scoglio. Ed io ero già dentro il suo trullo affrescato di bianco, mi pareva d’abitarci da un tempo indefinito.

Mi innamorai perdutamente, inspiegabilmente, senza un briciolo di ragione, come nelle storie raccontate.

Ci vollero pochi giorni perché ci raccontassimo, non per conoscerci, giacché ci sembrava ci fossimo sempre stati accanto, ma per il piacere di ritrovarci nelle parole dell’altro.

Lui seppe di me, di com’ero, di quello che sognavo, della realtà che stavo salutando per andare a prendermi la vita che volevo.

Io seppi di lui, della sua vita solitaria su quel promontorio sul mare, delle due stanze in cui viveva, con i mobili arrangiati e le tazze e i piatti spaiati e la sua testa in un mondo popolato di voci antiche. Era professore di filosofia in un liceo della cittadina vicina, collaborava con alcune riviste letterarie, scriveva un libro, ne aveva pubblicati altri due.

E sembrava non aver aspettato che me. Ed io lui.

Vivevamo insieme senza che fosse necessario dirsi nulla, senza promesse che sapevamo non avremmo potuto mantenere.

Per quarantatré giorni dimenticammo il prima e non guardammo una sola volta al poi. D’altronde conoscevamo bene il passato e la scelta del futuro sembrava cosa certa. Almeno per me.

Il telefono vibrò piano, lo spensi rapida per non svegliare Biagio.

Mi girai su un fianco e restai a guardarlo: dormiva forse, oppure preferiva farmelo credere per rendere più facile il mio passo. Accarezzai quei capelli troppo lunghi, il viso brunito dal sole; gli misi la mano sulla nuca, come facevo sempre. Senza toccarlo, lo accarezzavo per l’ultima volta, solo con gli occhi.

Poi scivolai fuori dal letto, mi vestii senza far rumore ed uscii.

Il sole si affacciava ad est, regalando un velo d’oro al mare più bello.

Biagio aprì gli occhi: non dormiva. Allungò la mano sul cuscino a fianco, dove sapeva avrebbe trovato quella busta gialla, appena appena stropicciata.

Novaglie, 31 agosto 2020

Caro Biagio, amore mio, eccolo il giorno mai nominato. E’ qui, sotto i miei piedi esitanti, fra le mani che mi tremano; è qui, forte come ce lo siamo raccontato senza parole.

Abbiamo scelto di dimenticarci, di cancellare traccia di quel noi, volubile e fragile. Io non lo so cosa o chi ci ha messo davanti questo nastro di strada tra mare ed ulivi, da percorrere insieme, non lo so. Chiunque sia, avrà la mia gratitudine eterna per avermi regalato te.

Nei giorni nostri abbiamo conosciuto la tempesta, levandoci alti nel cielo, ci siamo inabissati nelle viscere segrete della terra oscura che ci impasta, cercando l’emozione pura dell’istinto.

Non ci conoscevamo, se non per un’idea che potevamo avere l’uno dell’altra, come nei giochi di bambini; eppure ci siamo rincorsi nel bosco fitto delle nostre vite, mirando ad una luce in lontananza, senza nome, senza destinazione.

Abbiamo ricevuto il dono effimero di un tempo tutto nostro, volendoci un bene immenso, fingendo di amarci, per provare il modo in cui sarebbe potuto essere, in un altro tempo.

Mi hai regalato la bellezza che non ho mai posseduto né mai avrò più; me ne hai fatto omaggio generoso, eleggendomi regina in una favola scritta nel vento.

Ci dimenticheremo, amore mio, lo faremo nel modo esatto che ci detta una ragione che si pone adesso perentoria, la nostra vita scelta, noi stessi.

Ci cancelleremo tappa per tappa: metteremo via ogni bacio, poi ogni nostro abbraccio appassionato e puro; gratteremo via dai nostri cuori ogni eccesso, laveremo i pensieri.

E se dovessimo tornare a ritrovarci lì dove sappiamo di esistere sarà, forse, senza la furia appassionata che ancora oggi ci infiamma, sarà soltanto il tiepido sospiro che affiora in certe notti malinconiche, guardando un cielo denso di stelle; sarà un respiro corto e poi uno scrollare delle spalle risoluto, per cancellare una piccola storia racchiusa tra due parentesi, inutile, per nulla funzionale alla stesura del racconto delle nostre vite, parrebbe. Mi fa male il corpo intero dirlo…

Oppure sarà un battito in più del cuore al suono di un nome, all’eco di ritorno da valli lontane, dove scorrono i nostri desideri.

Ci ritroveremo così, in un racconto scritto una sera di fine estate – una lettera d’amore tra le pagine di un libro che odora di salsedine lontana.

E’ stato bellissimo, lo sarà per sempre.

Tua Teresa

Parigi, 30 gennaio 2030

Fa freddo stasera. Mi avvolgo le spalle in un plaid, raccolta su me stessa in un angolo del mio divano. Sono stanca, ma felice. La mia vita è diventata quello che sognavo, quasi tutta.

Quest’estate ritornerò in Italia, prenderò in affitto una casetta sul mare, a Novaglie, avrò tre settimane per ricomporre me: il pezzo che ho lasciato su quegli scogli, il fantasma che ancora vaga, talvolta, tra le stanzette piccole dell’appartamento in cui sono cresciuta e la donna che sono diventata.

Il sole e il mare saranno il mio mastice e poi la mia coperta.

E forse mi diranno se quella follia è stata nient’altro che un amore fuggente.

L’estate salentina me lo dirà.