Racconto di Patrizia Birtolo

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Miriam raggiunse il pavimento del solaio puntellandosi sui gomiti. Facile, come issarsi fino alla casa sull’albero costruita da papà a Reszel. Papà era così alto.

Arrivava ai rami giusti tendendo appena le braccia avanti.

Eccola la soffitta sgombra e vasta come la sua delusione. L’impiantito polveroso, il chiarore obliquo dai lucernari, il caldo soffocante. Unica presenza nel sottotetto un vecchio lenzuolo nell’angolo, a coprire una catasta.

Miriam s’avvicinò e, annoiata, lo scostò.

Quando vide cosa c’era sotto fece un salto indietro.

La creatura giaceva abbandonata su un cumulo di sacchi di juta, l’aria scomposta d’un gigantesco burattino coi fili tagliati.

Eppure, Miriam ebbe pungente certezza che aspettasse d’esser risvegliato, come nella fiaba di Śpiąca królewna. Forse era un principe da destare con un bacio.

 

Non ci riuscì quella volta, né altre. Il bacio non funzionò, nemmeno scuoterlo prendendolo per le spalle giganti. Neanche boccacce, insulti, carezze.

Le pause forzate tra ogni visita Miriam le trascorreva lambiccandosi su nuovi tentativi.

Pizzicotti no, per paura di spezzarlo brano a brano. Toccandolo, le dita affondavano sottopelle.

L’epidermide era crostosa, friabile. Più sotto ancora si percepiva turgore di muscoli sodi, d’una pienezza elastica. Strano, nessun odore. Anzi: nonostante la creatura fosse relegata senza lavarsi da chissà quanto, sapeva di buono. C’erano, sì, piccole ma disturbanti macchie sottopelle, come semi scuri conficcati nel derma.

Forse la poca igiene? Facevano impressione, ma aveva superato la cosa. Quel suo profumo, così simile a quello dei bajgiel. La sofficità dei panini caserecci s’era cementificata in muscoli, nervi, forza grezza.

Oltre al mistero dell’occupante in soffitta, c’era quello del buonumore di Nonna. La casa splendeva, tutti i lavori fatti alla svelta, senza fatica. Mai una lamentela. Su cosa non transigeva?

Durante le pulizie, nessuno tra i piedi.

L’altro aspetto che faceva scervellare Miriam era l’altezza sproporzionata del padre. In casa nessuna foto del Nonno, Nonna era bassina. Eppure, il padre era stato ribattezzato “Il rabbino più alto del mondo” dagli studenti del Kollel. Due metri e ventisei, dominava la comunità in ogni senso.

Un gigante su cui contare.

Poter contare su qualcuno non significa sia propenso a dirti tutto ciò che vuoi sapere.

Gli unici cui chiedere chiarezza erano i meno inclini a volerlo fare.

Miriam comprese che per rianimare il cieco omone raggomitolato nel sottotetto doveva studiare.

Se la Torah racchiudeva ogni risposta, sapeva anche questa.

Il giorno che salì in soffitta conoscendo nome e storia delle creature come lui, suoi fratelli, colossi d’argilla vissuti in altre epoche e altrove, sapeva lo stratagemma.

Ma quale bacio: la chiave era in fronte, non nelle labbra.

Ora era grande abbastanza da intuire l’importanza di svegliarlo, ancor più fermarlo al momento giusto.

Memorizzò e cancellò la parola מת e scrisse אמת‎.

La creatura s’animò d’improvviso, un gigante anchilosato, ferocemente volenteroso.

Miriam aveva tredici anni, troppi per passatempi innocenti e futili.

Pochi per altro.

Eppure, quando il Golem avanzò sovrastandola in tutta la sua imponenza, sentì un calore liquido infiammarle le cosce.

Avrebbe dovuto essere l’estremo tentativo. Fu invece il primo di molti incontri.

 

Era sposata con Isaac quando tornò in Polonia per liquidare la casa di famiglia alla morte del padre.

Una giovane moglie affettuosa, fedele, del tutto a suo agio nel ruolo di Signora Ha-Carmeili.

S’era ripromessa di sistemare le cose e riprendere la sua vita alla svelta. Corroborava la convinzione con il sazio scetticismo dell’età adulta. Non aveva fatto i conti con la soffitta.

Dopotutto Nonna era morta nel suo letto, vegliata dal padre, ben oltre quanto s’era augurato il Reich per tutti loro. Ad aprire la porta ai mitra spianati c’era stato Lui. Le pallottole si conficcavano nella massa del Golem per rimbalzare sui nemici. Talvolta, paralizzati di meraviglia, i nazisti gli davano tempo d’uno scatto fulmineo. Il Golem spremeva teste come acini d’uva matura. A questo pensava Miriam, quando tolse il lenzuolo. Lo trovò seduto là sotto, indifeso, scontento. Rigido come un enorme tozzo raffermo, le giunture ammuffite. Da troppo non veniva riplasmato: la borsa nera in guerra, la vecchiaia dei suoi…

«Kocham» gli sussurrò sfiorandone la fronte, cancellando anni in un gesto.

Il Golem annusò l’aria con fare torpido.

Accortosi di lei, esultò, la stessa animalesca esuberanza del cane che riaccoglie il padrone. Spontaneo come il bimbo che sgambetta felice se vede un viso noto affacciarsi alla culla.

Miriam pensò non ci fosse nulla di male. Dopo, l’avrebbe riaddormentato per sempre.

Si amarono. Lui con l’ingordigia dell’attesa, lei con quella dell’addio.

 

Nacque Eddie. Erano felici, lei e Isaac.

Il pancione spropositato diventò un bambino florido e forte, Tel Aviv sembrò il posto più bello del mondo. «Mazel tov» disse il rabbino. «Mazel tov» dissero tutti.

Lasciarono Tel Aviv per gli Stati Uniti; Miriam scherzò sul fatto che Eddie si fosse adattato subito a quel paese enorme crescendo a dismisura anche lui.

Gli acquisti d’una taglia più grande incalzavano; le scarpette appena adoperate smesse come nuove.

Soffriva nel vederlo disperato. Nonostante fosse così buono e gentile, i giochi suoi e degli amici gli si rompevano in mano appena sfiorati. Quando svettava fra i coetanei invece sorrideva compiaciuta.

Non importava la diversità, c’erano abituati, erano ebrei.

Nessuno l’avrebbe canzonato apertamente, in un soffio poteva abbattere qualunque bullo.

Certo, la fame insaziabile era un problema per le loro tasche, Eddie non solo cresceva come gli altri bambini: cresceva, cresceva e cresceva. Ma erano felici così.

Quel figlio, ben prima del previsto e del dovuto, li superò in altezza. Torreggiando su chiunque s’era creato un varco nella vita: nemmeno trent’anni e s’esibiva al circo, la gente faceva la fila per rimirarlo.

C’era stata persino una fotografa venuta per un ritratto di famiglia. Diane, si chiamava, che poi era una di loro, la figlia dei Nemerov, quelli dei magazzini Russek’s.

Per essere una di nome era proprio gentile: aveva lasciato copia dello scatto.

La fotografia finì addirittura pubblicata col titolo Jewish Giant, taken at Home with His Parents in the Bronx. Così lo chiamavano nel quartiere. Il gigante ebreo.

Il suo Eddie, ragazzo d’oro, mai persa la pazienza, non c’era modo di contrariarlo.

Tranne quando s’insisteva perché assaggiasse dei bajgiel. Non ne sopportava la vista, figuriamoci il sapore. Il primo morso l’aveva schifato come un boccone guasto. Mai stato verso di fargliene mangiare più. S’infuriava. Il carretto del venditore di ciambelle se le ricordava ancora le manate di Eddie.

A parte questo, veramente un bravo ragazzo, un gigante buono. Buono come il pane.

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https://www.ibs.it/qualcosa-di-rosso-libro-patrizia-birtolo/e/9788896793817

https://ciesseedizioni.it/prodotto/cime-di-rapa-tempestose