Racconto di Luciana Prisciandaro
(Pubblicazione 22 ottobre 2019)
Un letto vuol dire abbandono, qualcosa e in un certo senso qualcuno da cui farci accogliere allorché siano stati deposti abiti polverosi ma anche pensieri avvelenati.
Contiene la parte recondita di noi, quella non visibile ai più e non per niente sta nel cuore della casa.
Qui si può tralasciare la severità del quotidiano in verticale, ingozzarsi di noccioline covare pensieri anche futili (dicono che riesca meglio, per via di minore pressione ortostatica).
Per lei, riordinatrice di camere in onorata carriera, i letti erano componenti di uno
scenario professionale.
Li vedeva sfilare in sequenza davanti agli occhi ogni mattina, da quelli monacali ai principeschi con baldacchino, dai prodotti Ikea a quelli in edizione limitata.
Disfatti in maniera selvaggia o appena incuneati come da un tocco di vento.
Odorosi di pelle giovane e di creme o invasi da umori pesanti.
Ognuno con una vita dentro, fatta di placidi addormentamenti o di nottate
sulle spine.
Ognuno coi segni di un malinconico distacco.
Da un letto si parte e ad un letto si ritorna,dopo aver percorso un destino nebuloso.
Ci voleva arte a fissare le coperte sotto il materasso, a studiare la pendenza delle coperte e ad allineare i cuscini restituendo leggerezza alle piume.
Un giorno, con la schiena dolente e sfibrata dalla ripetitività, stramazzò a corpo morto su uno di loro.
Uno dei più belli di sua conoscenza, con lenzuola di raso e federe ricamate.
Un avvallamento tenero per membra provate,quasi un abbraccio amoroso.
Era una mattina di ordinaria domestica quiete,col mondo che ronzava dietro i vetri.
La colse il sonno, in un attacco proditorio. Nel pomeriggio la ritrovarono lì, come una pupa d’alcova.
E il benservito non si fece attendere.
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