Racconto di Giovanni Boncristiani
(Sesta pubblicazione – 2 aprile 2020)
Chiusi la porta alle mie spalle, lentamente con cura e in silenzio come stancamente facevo oramai da anni, quindi uscii.
L’aria del mattino era fresca e la strada vuota e apparentemente sgombra più del solito ma data l’ora, ciò era plausibile.Entrai in auto, la accesi e iniziai il mio ennesimo noioso viaggio verso il luogo di lavoro.
Osservando la campagna ai lati della strada, come sempre facevo, mi accorsi che gli uccelli, quelli candidi, dal collo lungo e sinuoso, eleganti, che spesso si attardano nei campi alla ricerca di cibo, questa volta non erano dove le altre volte gli osservavo. E neppure il pastore, ricurvo e lurido col suo gregge e il cane al seguito non era nel solito posto, dove passando, mi piaceva guardarlo anche per soli pochi istanti.
Non ci feci caso.
Nel cielo enormi nubi grigie sospinte da un forte e silenzioso vento si rincorrevano oscurando a tratti alterni lo splendore del sole. Gli alberi, ondeggiando, muovevano i loro rami e le foglie era come salutassero. I campi pieni d’erba sembravano un verde mare in tempesta.
La grande strada che conduce alla cittadina dove lavoro era priva di auto, sia nel senso in cui io viaggiavo sia in quello opposto. La radio, compagna unica e inseparabile, quasi un’amica, taceva inspiegabilmente.
Anche qui non ci feci caso più di tanto, anche se…
Parcheggiai come sempre in mezzo ad altre auto; il solito gruppetto di ragazzi che vedevo abitualmente fumare a fianco del cancello d’ingresso stavolta non c’era e neppure le persone che tutti i giorni osservavo correre e far ginnastica nel vicino parco.
Nessuno!
Proseguii a passo svelto e leggermente stordito da ciò che stava accadendo, comunque più incuriosito che preoccupato, entrai nell’edificio.
Vuoto!
Superato il primo corridoio, osservai la fotocopiatrice che partoriva in modo continuativo copie di fogli, tutti bianchi, emettendo senza sosta in una lenta e ipnotica litania; ne rigettava talmente tanti di fogli che cadevano a terra e si sparpagliavano come finalmente liberi di poter volare.
Un rumore più forte mi fece correre nell’atrio, lì osservai un grosso scatolone che, poggiato sulla soglia dell’ascensore, faceva aprire e chiudere ripetutamente le ante come se la porta fosse impazzita e cercasse di fare ciò che non poteva.
Da un’altra stanza fuoriusciva uno strano rumore, entrato nel locale compresi che era un neon che lampeggiando emetteva cupi scricchiolii.
Con la coda dell’occhio scorsi la sagoma di un ragazzo con i calzoni corti, quelli del tipo che non si usano più da molti anni; il giovane camminava dirigendosi rapidamente fuori dall’edificio.
Senza pensarci iniziai a rincorrerlo come se non potessi fare altro. Le mie gambe però erano molto pesanti e perciò i movimenti lenti, cercavo di correre ma non ce la facevo.
Nonostante tutto finalmente lo raggiunsi e afferrandolo per le spalle solo allora realizzai che era un ragazzo giovanissimo.
Il ragazzo si dimenava per divincolarsi, per cercare di parlargli e tranquillizzarlo lo girai e lo guardai in volto.
Quel bambino ero io…
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