Racconto di Margit Horsky

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«Ho bisogno di vedere il mare. Devo respirarne l’aria». Schiacciò il mozzicone nel portacenere con un moto che mi sembrò di stizza.

«Ma fa freddo, è ottobre!» dissi stringendomi nel giubbotto. Eravamo sedute al bar, all’aperto, sennò non poteva fumare.

«Non fare la lagna. Se hai voglia di qualcosa in modo così impellente, le condizioni climatiche non ti devono fermare. E io ho voglia di mare. Dai, in mezz’ora ci siamo». Tirò fuori il portamonete e mise i soldi accanto ai bicchieri di spritz ormai vuoti.

Sapevo che non le avrei fatto cambiare idea. E poi, se non ci fosse stata lei a mettere un pizzico di follia nella mia vita assennata, i miei giorni si sarebbero susseguiti come una fila di formiche: cariche di bricioline per l’inverno, ordinate, tutte uguali, monotone.

Alzandomi presi le ultime noccioline dalla coppetta e me le ficcai in bocca. Pensai che senza Brunella, a dare sale alla mia vita in quel periodo forse sarebbero state solo loro.

Guidava cantando. Non era molto intonata, ma ci metteva l’anima e scoppiava a ridere con la sua voce rauca da fumatrice se prendeva una stecca in un acuto.

«E dai, canta con me, non fare la difficile. Mica dobbiamo incidere un disco!»

«OK ma cambia musica, metti Loredana Bertè».

Per noi era stata un’icona in altri tempi e le sue canzoni avevano il potere di riportarci a momenti euforici del nostro passato. Alle pazzie improvvise, le corse sfrenate di notte, le ubriacature magari finite in lacrime sulla riva del mare. E gli abbracci consolatori e la promessa di esserci sempre. Per tenerci a galla o per volare in alto.

Così, cantando a squarciagola, procedemmo verso est, verso il passato, che però era ancora così vivido in noi.

Ci eravamo conosciute a una manifestazione studentesca, il primo anno di università. Fu amicizia a prima vista. E fu quasi amore, per me almeno. Brunella era tutto quello che io non riuscivo a essere: sfrontata, coraggiosa, decisa. E con più di un briciolo di pazzia. Un vero muro portante per me che non ero nessuna di quelle cose. Eravamo entrambe carine, ma i ragazzi vedevano sempre prima lei. Li attirava come falene verso un lampione.  E questa era stata la sua esaltazione ma anche la sua sofferenza. Perché si innamorava follemente, dava tutto di sé e il più delle volte si ritrovava depredata. E allora io, che neanche avevo goduto di un inizio di incendio, consolandola l’aiutavo a spegnere il fuoco delle sue pene amorose. Perché soffriva ogni volta come fosse l’unica, ogni amore era totale e spiazzante. Dava tutta sé stessa. Quasi sempre alle persone sbagliate.

Nel corso degli anni ci eravamo perse e ritrovate. Lei sempre in giro per il mondo a fare le cose più disparate, io sempre nella stessa città, con un lavoro stabile. Un porto sicuro al quale era lei a tornare. Ma i mesi, a volte gli anni di lontananza, sparivano ai primi abbracci, le confidenze, le risate. E tornavamo ragazze, come se non fosse passata che qualche settimana.

Ed ora eccoci qui a più di cinquant’anni, lei sempre single, io con un divorzio doloroso alle spalle, a cantare Mare d’inverno con tutta la forza che avevamo in corpo, come ragazzine.

Un vento gelido ci diede il benvenuto in una spiaggia deserta.

All’orizzonte, sopra un mare agitato e ruggente, e di una bellezza sublime, si innalzavano nuvoloni bianchi che sembravano i grattacieli di una città fantastica. Il vento ci spruzzava in faccia goccioline salate e ci scompigliava i capelli. Camminavamo sulla battigia aspirandone l’odore salmastro e facendo attenzione a non farci raggiungere dalle onde che si spegnevano a riva. Io mi stringevo il bavero alla gola, avanzando un po’ piegata in avanti per offrire al vento la minima resistenza.  Brunella sembrava fendere l’aria come una polena: altera, silenziosa, gli occhi luminosi che cercano lontano. Era svanita ogni inquietudine in lei, quasi fosse riuscita a domare la violenza delle onde. O una qualche altra apprensione che le veniva da dentro.

«Guarda!» disse indicandomi un kiter che volteggiava lontano.

Le evoluzioni del ragazzo erano eleganti e leggere; sembrava volare sull’acqua senza sforzo, come se il mare, il vento fossero il suo elemento naturale. Poi ne comparve un altro: due aquiloni lassù a sfidare la gravità, si allontanavano e poi, come per magia, erano di nuovo vicini.

«Quelle siamo noi, ci separiamo e ci ritroviamo, sempre nello stesso vento, in equilibrio a volte precario sopra un mare inquieto». Lo disse con quello che mi parve un velo di malinconia.

«Siamo fortunate, no? A esserci sempre state l’una per l’altra,» le dissi sorridendo.

Mi guardò con dolcezza e poi guardò il mare.

«Mi hanno dato dieci mesi di vita, forse un anno».

Il kiter cadde in mare proprio nel momento in cui cadde anche il mio cuore, senza rumore, nel gelo.

La guardai implorante. Lei mi mise un dito sulle labbra ad azzittire una frase che non sarei comunque riuscita a pronunciare. Sorrise.

«Guarda, si sta rialzando! Dai che ce la facciamo anche noi».