Racconto di Angela Potente

“RaccontiContinuaTu”

 

Scendeva le scale, aveva fretta, il taxi la aspettava. Stava chiudendo, finalmente, quella porta.

Salendo sul taxi sorrise tra sé. L’auto sfrecciava nel traffico e più avanzava più lei sentiva crescerle nel petto una rinnovata sensazione di libertà. Si perse guardando i palazzi che le scorrevano davanti, il grande ponte che si stagliava all’orizzonte le faceva l’occhiolino e la vita le stava facendo nuove promesse. Tutto sarebbe cambiato ora. Trovare il coraggio di andarsene aveva richiesto più di una notte insonne, ma c’era riuscita. Ed era successo proprio quando aveva perso le speranze di farcela. Aveva deciso che il giorno della partenza, del distacco, dovesse corrispondere con la fine della settimana, per come ci hanno abituato a percepire i giorni e il tempo. La simbologia stava tutta lì. La fine. E un nuovo inizio. Ma i giovedì passavano e le scatole e gli scatoloni si accumulavano in un caos primordiale nel quale si era persa e non si raccapezzava più. Le valigie restavano lì. Aperte. E non sapeva cosa portare, cosa lasciare. Come si può decidere quale pezzetto di vita portare con sé e quale lasciare alla polvere? Così le valigie restavano lì. Ancora vuote. Come un buco nero in attesa di ingoiarla. Gironzolava nell’appartamento facendo attenzione a non calpestare i detriti della sua vita sparsi sul pavimento. Un bicchiere in mano a ricordarle quanto non dovesse bere e quanto invece non riuscisse nemmeno per un minuto a considerare la sola idea di smettere. Ma sapeva che avrebbe smesso. Quel venerdì avrebbe significato anche questo. La rinascita doveva essere completa. Un venerdì che iniziava a dubitare arrivasse mai. Era già arrivata al quarto giovedì e ancora resisteva nelle macerie. Il crollo era avvenuto in un preciso momento e in una precisa ora. Solo che non se ne era resa conto subito. Era stato come se avesse solo sentito il boato senza vedere la valanga. Alla fine si era ritrovata sotto le macerie e invece di uscirne si era costruita una nicchia tra i mattoni rotti.

I giorni passavano, i venerdì arrivavano e se ne andavano. Era combattuta tra il desiderio folle di lasciare tutto e da una stessa forza contraria che la faceva abbarbicare a ciò che restava della sua vita. Lei sapeva, lo sentiva in ogni fibra del suo corpo che il suo posto non era lì, che qualcos’altro la attendeva altrove. Ma la paura era più forte, era come una catena stretta al petto, che la teneva legata. Trascorreva le giornate, con i capelli scompigliati (da quanto non si pettinava?) a fumare una sigaretta e poi un’altra con il fumo ad annebbiarle la vista, a confonderla. Con il tabacco che si consumava insieme ai suoi giorni. Tra un calzino spaiato da stendere e una camicia che rimaneva per giorni abbandonata come uno straccio sul bracciolo del divano.

Te lo ricordi quando credevi che la tua vita sarebbe stata come un abito di Balenciaga? Elegante in ogni dettaglio, di seta e chiffon. Perché avevi talento dicevi. Beh lo hai sprecato, e la tua vita è come un pessimo golfino di pessima fattura preso ai saldi di un grande magazzino. Ed è inutile che poi ti attacchi quel sorriso finto ed esci e ti illudi di fare cose. Sei solo una figurina doppia attaccata male su quell’album che chiami esistenza. Guardati... Questo se lo ripeteva ogni volta che uno specchio, o un vetro, le restituiva la sua immagine. Con quell’espressione terrorizzata negli occhi.

Ma quella mattina qualcosa era scattato in lei. Non avrebbe saputo nemmeno dire cosa in realtà. Aveva guardato la stanza, gli scatoloni sparsi, i soprammobili, le fotografie incorniciate – memorie di un tempo felice – la coperta fatta a mano abbandonata sul letto, i piatti sporchi nel lavabo, la cucina imbrattata di sugo del pranzo del giorno prima, la finestra dai vetri sporchi, così piccola che per vedere uno spicchio di cielo doveva sempre sporgersi rischiando di volare giù, la scrivania ingombra di fogli e appunti. Era un’istantanea perfetta della sua esistenza fino a quel momento. Andarsene significava ammettere il suo fallimento? Questa era la domanda che le tormentava le notti e le intossicava i giorni. L’idea di trasferirsi nella grande città era stata forse una pazzia? Cosa avrebbero detto i suoi vecchi amici vedendola tornare nel piccolo buco da dove proveniva? Una cittadina talmente minuscola che pure sulle mappe era a malapena segnalata. L’avrebbero derisa? Le domande e le possibili risposte le affollavano la mente da settimane. Ma quel giorno osservando il suo appartamento un pensiero diverso aveva fatto capolino nel suo cervello: non era costretta a tornare a casa. Poteva, anzi voleva, andare ovunque e ricominciare. Aveva arraffato le prime quattro cose che le erano capitate sotto mano e le aveva infilate in una borsa, aveva chiamato un taxi e abbandonato quelle mura per sempre. Niente valigie, niente scatoloni, niente fardelli appresso di una vita che non le apparteneva più. Mentre l’autista la conduceva ancora più lontano le tornarono in mente i versi di una vecchia poesia che aveva scritto tanto tempo prima:

Ho un paio di scarpe nuove da consumare. Comincerò a camminare senza voltarmi indietro. Solleverò granelli di polvere e ogni granello sarà un passo in più. Impolvererò le mie scarpe di sogni e desideri. Polvere rossa come la rabbia come la strada che segna il mio incedere. Ho un orizzonte e tanto basta. Ho un paio di scarpe nuove da consumare e sogni vecchi mai consumati.

Li ripeté ancora e ancora. Poi puntò lo sguardo dritto davanti a sé. Dritto verso il futuro.