Racconto di Lucia Marcone

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Amo la tua follia e il tuo maledetto sorriso che strappa via la vita, come l’afa di agosto il vento maestrale – anonimo – letto su un muro della Bolognina.

 

Quell’anno la festa della mamma cadde il 9 maggio era domenica. Il 3 maggio in comunità iniziò la settimana celebre, un travaso continuo di idee e iniziative. Il menù da pensare, i famigliari e le autorità da invitare, sistemare i tavoli in giardino,  tirare fuori dai capanni i gazebi, spolverare le sedie e molte da lavare. Il giardino da pulire insieme alle aiuole intorno casa.

Diventammo tutti personaggi, e pregavamo, imploravamo il bel tempo e che tutto filasse bene, anche se in pochi erano fiduciosi nelle potenze del cielo e della fede.

Giovanni dopo la fine del grande Marco, il ragazzone obeso, si era legato teneramente ad un altro paziente debole di testa e linguaggio.

Si chiama Fedele e parla un italiano perfetto…se parla!

Hanno il compito di raccogliere le foglie sulla ghiaia, insomma fare pulizia fuori la struttura. Delle strane scintille di gesti e di parole filano tra di loro: borbottano, si spingono mentre rastrellano, raccolgono e buttano tutto dentro una cassetta di legno con le pareti intermezzate da  brevi spazi. Poi partono verso l’orto per buttare il raccolto nel bidone del riciclo.

Appaiati, con un sacro gesto di quasi devozione, con la cassetta che danza sulle loro mani,  vanno, ma Fedele è più alto di Giovanni. Per cui sono slivellati, la cassetta pende da un lato. E tutti li guardiamo, nel loro viaggio, non per curiosare o condannare ma per studiare quella religione di impegno e di lavoro.

La cassetta pende, le foglie si perdono, ricadono sulla ghaia del giardino da dove sono state prese. Andando, andando scoppia una tensione fulminea tra loro.

-Ah matto non tirare… ah matto… abbassati!  Gli urla Giovanni.

-il matto sei tu che scappi avanti!

C’è qualcuno da lontano che assiste all’operazione dei due urlatori e dice loro:

-Ah matti state facendo un casino del diavolo e basta, state pulendo niente.

E’ Maria una ragazza che lentamente e in modo distaccato sta lavando un tavolo.

Giovanni non ci sta e dopo aver lasciato il lato della sua cassetta fra la ghiaia le urla con un accenno di saluto:

-Gatta morta fatti i cazzi tuoi.

-Io sarò una gatta morta ma tu hai il pisello morto, ti è morto sotto la doccia con l’acqua gelata di quest’inverno – risponde la Maria.

E ancora Giovanni – O bella il mio pisello è morto, ma la tua gatta ha perso anche il pelo-.

E restiamo tutti a bocca aperta e sorridiamo.

Intanto i ragazzi delle foglie secche hanno guadagnato il cancelletto dell’orto, lo attraversano e scendono gli scalini di legno con la cassetta vuota.

Dinanzi al bidone del riciclo sollevano a quattro mani nell’aria la cassetta, come una piuma, vola in mezzo al compostaggio.

Ridono, si guardano negli occhi come due innamorati.

– Abbiamo fatto bene – dice Fedele – le foglie muoiono nel pattume, stanno meglio fra la ghiaia, nessuno è mai troppo matto da uccidere le foglie. Tu piuttosto – additando Giovanni – stasera vai dall’operatore e gli racconti ….l’accusa…ricevuta da quella gatta morta di Maria.

Hai ragione …sempre… la mattina… è una tragedia… e viene l’operatore, apre la porta… Giovanni sbrigati, chiude, arriva un altro…  Giovanni hai finito!  E che cavolo! Apri, chiudi, chiudi apri… la colpa è loro… mi sa che è morto veramente!

 

(Da – Il canto delle creature – ultimo mio edito sulle dipendenze, è un testo per adolescenti, insegnanti, famiglie che vivono il problema).

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