Racconto di Ambrogio Bozzarelli

(Dodicesima pubblicazione)

 

Antonio guidava la sua nuova auto, una mg z 1500 luxury. Già, la solita auto cinese assemblata come solo i cinesi sanno fare. Un pezzo qui, quando avevano acquistato il marchio, importante e famoso della casa costruttrice inglese, poi un motore là e così via. La maneggevolezza e soprattutto il costo veramente basso rispetto alle altre auto europee della medesima cilindrata lo avevano convinto.

Non vi si era ancora del tutto abituato, ricca com’era di tutti quegli accessori elettronici che lui usava con assoluta parsimonia temendo di provocare chissà quali catastrofi. In fondo lui era un uomo semplice.

“Comunque va bene” pensava, mentre sull’autostrada a una velocità di 120 km orari, da lui definita di “crociera”, procedeva ascoltando alla radio una delle poche stazioni che trasmettevano musica che gli piaceva.

L’aveva presa bianca la macchina, perché, e sorrise al ricordo, come aveva detto al concessionario: “è il colore della purezza”. Già perché lui, almeno una volta era stato anche puro.

Si ravvivò un po’ i folti e ricci capelli neri con la mano destra, un tic che aveva sin da quando frequentava il liceo.

L’autostrada, per quell’ora fortunatamente, era abbastanza libera e lui poteva così guidare con assoluta tranquillità. Solitamente quella tratta, almeno da Savona ad Imperia, era sempre intasata a causa dei continui lavori che facevano parte integrante e irrinunciabile di quasi tutte le autostrade liguri dopo il crollo del ponte Morandi avvenuto oramai nel lontano agosto 2018 a Genova e che aveva causato 43 morti. Aveva ben a mente quella data, perché da quel giorno la sua vita era cambiata.

Prima, prima di quel 14 agosto Antonio Accinelli all’età di 36 anni, con quei ricci capelli neri era stato un semplice impiegato di banca. A differenza dei suoi colleghi di lavoro, quasi tutti un po’ piccoli, leggermente obesi, lui era alto e longilineo, con una accentuata eterocromia dell’iride e quel fisico asciutto di cui andava fiero soprattutto perché agli occhi delle donne lo facevano sembrare un vero atleta. Lui che invece non aveva mai praticato alcun tipo di attività sportiva, neppure quando frequentava le scuole.

Era stato, a detta di tutti gli insegnanti, un ottimo studente, sempre promosso a pieni voti. La sua indole di ragazzo semplice e disposto ad aiutare i compagni di classe meno preparati e più bisognosi nello studio l’aveva portato ad esser benvoluto da tutti e all’epoca molto ricercato dalle ragazze. Quasi senza accorgersene però divenne una specie di dongiovanni. Si era iscritto all’università, facoltà di giurisprudenza: aveva idee convinte sulla necessità di poter aiutare a formare la giustizia. Voleva diventare un giudice.

All’altezza di Spotorno il cielo si era tutto coperto e presto iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. Il meteo della radio, sempre accesa, proprio una decina di minuti prima aveva preannunciato piogge, anzi forti piogge con venti provenienti dal deserto del Sahara che avrebbero finito per sporcare ogni cosa con quel tipico coloro di giallo sabbia. Istintivamente osservando l’intensità della pioggia rallentò ancora la velocità: adesso non superava mai i 90 km orari. La prudenza non era mai troppa, soprattutto considerata la situazione.

“Ancora questa volta e poi basta”, pensò mentre le precipitazioni parevano voler aumentare.

“…Judge, judge send me to the eletric chair…” un vecchio blues dalla splendida voce della grande Bessie Smith usciva dagli altoparlanti della radio e il suo passato prese a confondersi con il presente.

La “vocazione” di diventare giudice, tutto il suo entusiasmo nella giustizia che lo aveva indirizzato alla facoltà di giurisprudenza si bloccò subito, al primo anno: non era riuscito a superare neppure un esame.

«Cribbio ma questa sta diventando una vera tempesta! Speriamo che non si metta a grandinare!» lo disse ad alta voce, quasi a voler sovrastare il rumore provocato dall’acqua e dal vento.

“Ah sì, davvero, questa volta è l’ultima, e devo definitivamente cambiare vita”.

Aveva deciso.

In fondo oramai poteva anche ritirarsi. Mentre la stupenda voce dell’imperatrice del blues continuava a diffondersi nell’abitacolo, ripensò a Laura. L’aveva conosciuta proprio quel giorno. Il 14 agosto del 2018, mentre a Genova stava per compiersi la tragedia del Ponte Morandi, lui in Savona tornava verso casa con la sua Hyunday Tucson 4X4. Sotto un improvviso e violento acquazzone aveva notato quella piccola figurina che correva sul marciapiede su improbabili tacchi a spillo; il braccio sinistro tutto proteso verso il basso con la mano aggrappata ad una corta gonna a pieghe di un vivace color rosso nel tentativo di tenerla ferma dalle improvvise folate di vento, mentre con la destra si era tirata sin sopra la testa una piccola giacchetta della medesima stoffa e colore della gonna, troppo piccola per poterla coprire bene , lasciando completamenti bagnati lunghi capelli biondi .

“Un buon bel bocconcino” era stato il suo primo pensiero.

E così aveva rallentato, accostata l’auto al marciapiede, tirato giù il finestrino l’aveva chiamata:

“Signorina, signorina … si sta bagnando tutta, salga su che la porto a casa, faccia presto …” la porta subito aperta: si sentiva, lo sapeva, era irresistibile, lui, dongiovanni galante, sempre pronto a nuove avventure.

Ma da quel giorno però, la vita di Antonio cambiò completamente.

Sino ad allora quante donne aveva avuto?

Aveva iniziato all’università, quando, accortosi di non essere poi un così grande studioso, si era però reso conto di quanto piacesse alle donne. E così era diventato un vero e proprio accaparratore di donne, quello che solitamente lo si definiva uno “sciupafemmine”. Ricordava perfettamente la fortuna di esser uscito con la figlia del presidente della filiale di quella banca, ora non più esistente perché fallita, ma grazie alla quale, alla faccia dei “concorsi”, lui era stato assunto in banca, Non in quella, ma in una concorrente, dove ancora lavorava.

Sorrise al pensiero: non ricordava neppure il nome e, a pensarci bene, neppure il viso, forse solo una e persino un po’ opaca, visione di nudità. Antonio Accinelli, scapolo impenitente, una casa ereditata dai genitori deceduti da tempo, una vita in cui poteva fare quello che voleva, secondo i dettami della propria filosofia che, come spesso gli piaceva riferire ai suoi colleghi e alle sue varie conquiste femminili recitando la canzone dei Gufi: “Io vado in banca, stipendio fisso, così mi piazzo e non ci penso più…”.

Ottimo impiegato, sempre preciso e serio, riusciva a lasciare completamente fuori dal lavoro quel suo unico hobby, se così si poteva chiamarlo: le donne. Ma lo faceva con stile e persino, se vogliamo, con modestia senza vantarsene mai. Così fu e rimase per tanti anni, sino all’incontro con Laura. Lei, bionda bellissima, piccola, ma veramente ben fatta con, come aveva subito notato lui, tutte le curve al posto giusto e quei capezzoli turgidi che lo facevano impazzire. E lui in effetti impazzì.

Perché Laura poi, piano piano, finì per prendere il sopravvento. Antonio da serio impiegato di banca, nonché incallito dongiovanni, sciupafemmine, venne di fatto da lei “sciupato”. Non solo perse interesse verso altre donne, non solo iniziò a pensare di poter continuare a vivere solo con lei, ma ben presto ne divenne succube, quasi schiavo. Più passava il tempo più Laura pretendeva. E presto ad aumentarne le necessità arrivarono gli sprechi. Perché mai continuare a vivere la vita triste e grigia da impiegato di banca quando il mondo poteva procurar loro una vera vita, agiata e luminosa? Laura sapeva di esser bella, anzi di più; conosceva l’arte di ammaliare un uomo. Sicuramente Antonio non era stato il primo, ma a lui tutto questo non importava: essere ai suoi piedi, assoggettato al suo volere ai suoi desideri in fondo era anche sessualmente eccitante. Una vita fatta di sprechi, e poi la conoscenza della polvere bianca che tanta forza ti dava e quante porte poteva aprirti improvvisamente: un nuovo mondo! E così per lei lui iniziò dalle piccole malefatte. Fu molto più semplice del previsto, grazie alle sue conoscenze bancarie, crearsi un conto corrente all’estero: no, no in Svizzera, ma più vicino, lì, appena superato il confine dopo Ventimiglia.

Il tempo peggiorava, quel nero laggiù dalle parti di Andora non prometteva nulla di buono.

Anni di follie e divertimenti sino a quel giorno in cui Laura gli chiese l’impossibile. Quel giorno erano un po’ strafatti senza dubbio, ma lui sapeva ancora ragionare: una rapina, quello mai. Ci fu una violenta lite. L’unica fortuna, per lui, era che Laura non avesse parenti, qualche conoscente ma molto superficiale e nessun lavoro, perché lei, da sempre, sin dall’età di 19 anni, aveva vissuto a spese, chiamiamolo pure sfruttamento, degli uomini.

Una prostituta? No, lei non si considerava tale, e in effetti tale non la si poteva definire. Laura sceglieva un uomo e, per lei doveva essere l’unico della e per la sua vita: rimaneva fedelissima sempre. Ma era il “lui” che a causa delle sue sempre più esigenti richieste finiva per allontanarsi definitivamente, spesso anche in malo modo, e lei, senza lavoro, senza un soldo, ma con la sua bellezza, ne cercava un altro. Come era successo con Antonio, ma con una decisiva differenza: Antonio fu l’ultimo uomo a lasciarla. E anche dopo che Antonio mise fine per sempre alla sua schiavitù, rimase ancora qualche debito, ma, una volta estinti tutti i debiti la voglia di continuare a far crescere quel conto corrente segreto, gli era un po’ rimasta e così aveva continuato.

Fino a quel giorno. “Sì questa è l’ultima volta” ripeté guidando. Del resto era passato più di un anno e ancora nessuno aveva denunciato la scomparsa di Laura; pareva che nessuno avesse interesse a sapere che fine avesse fatto Laura Morcelli. Lui era stato molto attento e preciso. Sin da quando, dopo aver pagato i debiti di lei nell’abitazione in cui viveva in affitto, l’aveva fatta vivere in casa sua. A quei pochi vicini che incontravano, la presentava come Laura Accinelli, sua sorella tornata dall’Inghilterra dove si era trasferita subito dopo la morte dei loro genitori, per stare con lo zio inglese. Laura era tornata in Italia dopo la morte dell’anziano zio e provvisoriamente veniva ospitata in casa del fratello sino a che non avesse trovato un lavoro. Antonio si sentiva molto tranquillo: nessuno avrebbe mai rinvenuto il corpo: con una perizia che neppure sapeva di avere era riuscito a tagliarlo a pezzi, pezzi che aveva poi sotterrato singolarmente un po’ovunque in un raggio di centinaia e centinaia di chilometri quadrati, un po’ in Liguria, in Piemonte disseminati in Val Maira, Val Vermenagna, in Lombardia e persino un pezzo anche in Trentino. Beh, era stato anche fortunato che durante tutte le sue “gite” con quelle parti di carico nessuno lo aveva mai fermato per un controllo. E poi, anche nel caso eventuale di un ritrovamento di qualche elemento che fosse in qualche modo collegabile a Laura Morcelli, era sicuro che nessuno avrebbe mai potuto ricondurlo a lui. Anche perché con quei pochi vicini che ne avevano avuto conoscenza aveva fatto sapere che sua sorella aveva trovato fidanzato e lavoro in Sicilia e là da tempo si era trasferita.

A volte pensava quanto potesse esser strana la vita. Aveva rifiutato di compiere una rapina:

“Ma dai, ma scherzi? Un reato così grave, e il pericolo? E se poi …ti rendi conto con le armi? Magari parte un colpo e ci scappa il morto”! No, No!”.

Lo aveva detto, urlato, ma lei insisteva. Sino a che lui alla fine prese la decisione. Ma forse non era soltanto la storia della rapina, era stato un po’ tutto, tutto quello che aveva subito da Laura, prima e dopo e domani, una sommatoria di cause.

Ora guidando rifletteva: “Dalla rapina all’omicidio”. In ogni caso lui era stato pratico preciso e bravissimo.

Del resto subito dopo aveva fatto in modo di farsi vedere in giro con Ornella Sini, collega di banca, frequentandola seriamente, seppur saltuariamente, ancora sino a due giorni prima. Anche se da un po’ di tempo pensava di voler fare un nuovo cambio di vita.

Stava arrivando vicino ad Andora quando la tempesta di pioggia si tramutò in grandine. “Ecco, lo sapevo, oggi non dovevo neppure partire”!

I colpi con cui piccoli grani di ghiaccio cadevano sull’auto, la velocità con la quale una imponente massa di acqua accompagnava l’incessante caduta dei chicchi di grandine e si infrangeva sui vetri senza che i tergicristalli azionati alla massima forza riuscissero in qualche modo a rendere più visibile la strada, lo fecero rallentare ancora. Sporgendo il busto in avanti estendendo al massimo la cintura di sicurezza cercava di intravvedere una piazzola di sosta: doveva esserci e, se non ricordava male, forse anche un autogrill. La tempesta di ghiaccio, perché tale era, non pareva attenuarsi, sentiva le gomme scivolare sulla superficie, una curva, una leggera frenata e l’auto che, nonostante la bassa velocità improvvisamente sbandava, le mani strette attorno al volante nel tentativo di rimettere la vettura in carreggiata. Stava sudando.

“Cribbio, finisce che …”, ancora un piccolo slittamento poi laggiù, in lontananza quel palo alto con l’insegna luminosa: un distributore c’era una via di fuga sulla destra per entrare nell’area di servizio, sterzò e poi quasi un ’urlo: “Sì! C’è anche l’autogrill!”

C’era.

Aveva raddrizzato completamente l’auto, rallentato ancora, attivato il segnalatore luminoso di destra anche se non aveva alcun automezzo dietro, e con un sospiro di sollievo lentamente si infilò nel parcheggio a lisca di pesce completamente vuoto. Rimase ancora un attimo ad ascoltare le ultime note di quel pazzesco blues, prima di spegnere il motore. E di colpo solo ora si rese conto di quanto forte ed incessante fosse il rumore della grandine. Rimase allibito dalla grandezza di quelli che ormai non erano più semplici “chicchi” ma vere e proprie palline, grosse come le biglie di vetro con le quali giocava da bambino. Contemporaneamente iniziò anche a vedere i danni che questa grandine stava provocando all’auto.

“Uscire subito, di corsa e dentro al bar, via…” dal pensiero all’azione fu frazione di un secondo. Tolta la chiave, afferrato il borsello che teneva appoggiato sul sedile vuoto del passeggero, aprì di scatto la portiera, con il borsello tenuto sopra la testa si gettò sotto la piccola tettoia posta lungo tutta la bassa costruzione dell’autogrill, al suo riparo chiuse l’auto con il comando a distanza, un profondo respiro e con la schiena appoggiata alla porta di entrata rimase ad osservare il manto stradale sul quale si stava posando un incredibile strato bianco quasi fosse neve. Spinse la porta, entrò: le luci e l’ambiente caldo gli diedero subito un senso di sicurezza. Si mosse verso il banco dietro al quale una ragazza bionda in tuta nera con una grande scritta davanti, il logo dell’autogrill, stava lavando con aria di sufficienza alcuni bicchieri. Solo allora si accorse di essere solo. Era l’unico avventore, l’unico cliente lì dentro: solo lui e la ragazza con la tuta nera.

«… Buon giorno…» timidamente quasi a non volerla disturbare.

«‘giorno», con voce stanca e senza alzar la testa, continuando ad osservare le proprie mani che ora asciugavano i bicchieri.

Antonio si guardò ancora un po’ in giro, quasi a cercare qualcuno, ma il locale era completamente vuoto.

«Buon giorno» ripeté un po’ insensatamente ma con più autorevolezza. La ragazza sollevò il capo e i suoi occhi castani osservarono il nuovo, unico cliente:

«Desidera qualcosa da bere o da mangiare?» gettando da parte l’asciugamano e posando le sue lunghe affusolate mani sul bancone.

Antonio notò che non aveva alcun anello alle dita. “Cribbio che bella. Ė giovane… Avrà si e no 25 anni”.

«Buon giorno, mi scusi, ma sono rimasto un po’, come posso dire, ah ecco attonito: fuori un diluvio di acqua e grandine, poi entro qui aspettandomi di vedere il locale pieno e invece tutto questo silenzio…» fluivano le sue parole e sorrideva adesso osservando quegli incredibili occhi scurissimi che contrastavano col bianco, pallido volto e i lunghi lisci capelli biondi. Si sporse un poco in avanti verso di lei appoggiando i gomiti sul bancone in un atteggiamento suo tipico, quasi di complicità.

«Del resto con tutte le volte che faccio questa autostrada …ecco se non ricordo male direi che è la prima volta che qui non c’è nessuno…» fece una pausa poi la guardò nuovamente, questa volta con un sorriso invitante e ricco di sottintesi per continuare con un’aria leggermente interrogativa:

«Ma adesso che l’osservo bene: non è che lei è nuova di qui? Perché, signorina…» calcando su quest’ultima parola «non ricordo, sinceramente, di averla mai» e già lì la sua mente prese a fantasticare, il suo istinto ritornava prepotentemente.

«Si, si…» lo interruppe la ragazza che proseguì poi con un atteggiamento di malcelata sufficienza. «Comunque io ho da fare, se vuole qualcosa son qui per servirla, ma soltanto se ordina, in caso contrario può lasciarmi in pace che ho da lavorare».

Un “no” così duro non se lo aspettava; d’accordo che appena un mese prima aveva compiuto 42 anni, d’accordo che voleva cambiare vita, ma riteneva di avere ancora un certo fascino, soprattutto sulle ragazze giovani come doveva essere la biondina: il fascino della persona matura, dell’uomo che conosce il mondo e che ben potrebbe vivere e far vivere una bella avventura. “No, Cristo: non è certo il momento.”.

Si riprese subito dopo il pensiero, almeno così a lui sembrò, e disse: «Ah, mi scusi, non volevo… allora sì, ecco un toast ed una birra, grazie. Mi siedo lì, va bene?». La ragazza rispose con un cenno della testa e girandosi prese a preparare quanto richiesto.

Antonio si accomodò ad un tavolino rotondo poco distante dal bancone. Osservò ancora un po’ intorno e di nuovo quell’impressione strana, inconcepibile che lo aveva così colpito: il locale sempre totalmente, incredibilmente vuoto. Allungò lo sguardo verso le vetrate dell’entrata ma la grandine ora mista a pioggia cadeva con una violenza inaudita e creava come una vera e propria parete che non permetteva di vedere oltre.

«Ecco» la voce della ragazza lo riscosse.

E, mentre stava per rispondere, lei con un sorriso leggermente ammiccante si sedette proprio di fronte a lui.

«Mi scusi per prima, ma cosa vuole alle volte il lavoro mi fa venire i nervi», la voce dolce, ammaliante.

«Ma no, ci mancherebbe, sono stato io scortese».

La sua mente ricominciò a lavorare incessantemente. Si versò un po’ di birra nel bicchiere, prese in mano il toast e poi con un sorriso accattivante osservandola direttamente negli occhi:

«Beh, signorina, siamo solo noi, se vuole mangiare qualcosa qui con me adesso, almeno sino a che non entra nessuno…». C’era qualcosa di irreale, ma in fondo era piacevole: fuori il freddo, ghiaccio e gelo e lì dentro nessuno tranne loro due, quasi in intimità. Anche lei rispose con un sorriso ma questa volta, almeno così lo interpretò lui, molto più aperto ed invitante:

«Sa cosa desidererei davvero? Andarmene, fuggire, scappare per sempre da questa schiavitù, chissà …», un ampio sospiro e poi «Vivere ecco!»

Non ricordava bene come dopo si susseguirono i fatti.

Quando lei le disse il suo nome: Laura. E di colpo il riaffiorare dei ricordi, e anche lei era bionda.

Quando – quanto tempo era passato? – quasi con cura lei spense tutte le luci e chiudendo la chiave l’entrata dell’autogrill, senza che nessuno fosse più entrato, senza che alcuno si fosse fermato nel parcheggio o presso il distributore, lei, “Laura” si accomodò così, semplicemente vestita soltanto con quella tuta nera, sul sedile del passeggero, accanto a lui.

Quando subito ripartì, sempre sotto una grandinata violenta che non mostrava in alcun modo di voler cessare.

Quando poi sul rettilineo, dopo aver raggiunto una velocità discreta. lui lasciò subito il cambio innestato sulla quarta marcia e con la mano destra dolcemente prese ad accarezzare la gamba di Laura.

Quando poi sfiorandole il ginocchio spostava la mano facendola risalire lentamente.

L’urto fu così violento che anche coloro, ed erano davvero tanti, che si trovavano all’interno dell’autogrill sentirono il colpo. Uscirono in diversi, nonostante la pioggia che continuava a cadere copiosamente. Alcuni camionisti che erano in sosta scesi dai loro Tir corsero subito verso lo svincolo di entrata nell’area di servizio.

Accartocciata tra il guard-rail e il cartellone verde che indicava l’area di servizio stava una bianca, lucente mg z 1500 luxury, distrutta e fumante. Il corpulento camionista che per primo riuscì a raggiungere quell’ammasso di lamiere contorte aprì senza problemi ciò che restava della portiera lato passeggero. Trovò l’uomo con il braccio destro lungo disteso a toccare il sedile vuoto del passeggero; il guidatore, dalla cui bocca usciva un rivolo di sangue, pareva ancora vivo, anche se non si potevano neppure vedere le sue gambe probabilmente completamente schiacciate nel violentissimo urto: doveva viaggiare ad una velocità veramente folle.

Antonio aprì le labbra tra i fiotti sempre più scuri di sangue per sussurrare con voce roca un nome:

«…Laura.», poi reclinò il capo.