Racconto di Mike Papa

(Quarta pubblicazione)

 

Dopo quello che Franz avrebbe chiamato, in mancanza di altri termini, “incidente”, regnò solo il silenzio, come se l’accaduto avesse risucchiato in un buco nero ogni forma di suono, condannando il mondo a un oblio senza fine.

La quiete innaturale fu rotta all’improvviso da energici e ritmati colpi alla porta.

Ta… ta-ta-ta-ta-ta… ta-ta.

Il padrone di casa sobbalzò, uscendo dallo stato quasi catatonico in cui era piombato negli ultimi minuti. Realizzò di essere ancora in salotto, fece vagare lo sguardo tutt’intorno e represse a stento un conato di vomito.

Occristo, pensò. Dio mio!

Si trascinò in cucina e si sciacquò la faccia con l’acqua fredda del rubinetto. Avrebbe voluto che quel ge­sto cancellasse l’incidente, che lo relegasse al livello di un sogno, una specie di allucinazione o un brutto trip, ma non si faceva illusioni: le prove del disastro erano sparse per tutto il salotto, in bella vista. A pensare all’abominio rabbrividì, maledicendosi per l’imperdonabile leggerezza che aveva portato a quella catastrofe.

Intanto i colpi alla porta continuavano, sempre più insistenti. Aveva riconosciuto il modo di bussare, solo uno, tra i suoi conoscenti, usava ancora quell’antiquata cadenza al posto di un innocuo toc-toc: O’Sullivan, che da qualche settimana aveva parcheggiato la sua fatiscente roulotte in uno spiazzo erboso dall’altra parte della strada. Erano diventati buoni vicini, trovando molti interessi che li accumunavano, la maggior parte illeciti. Anche se lo conosceva da poco, sapeva che non avrebbe smesso di martellare la porta finché non fosse stata spalancata o non fosse riu­scito a buttarla giù. Ancora intontito capì come la seconda opzione fosse da scartare, Non c’è nessun biso­gno anche della porta sfondata, adesso. Andò ad aprire ed eccolo lì, Sully, con la sua barbetta rossa, la lattina di Budweiser in mano e la vocina da eunuco: «Ehi amico, ho sentito uno scoppio niente male. Di là ha tremato tutta la cristalleria.»

Rise a quella che voleva essere una battuta, ma il suo pubblico non raccol­se.

Ne provò un’altra: «Hai fatto esplodere un paio di petardi nella vasca da bagno?»

Niente. Pubblico dif­ficile, quella sera.

«Mamma mia che faccia. Tieni, fatti un sorso.»

Franz obbedì meccanicamente. Nella lattina era rimasto solo un misero goccio. Caldo, per di più.

O’Sullivan continuava a far andare la bocca: «Ci hai dato sotto, eh? Hai ancora quell’erba favolosa, scommetto. Ca­volo se è buona, ancora non mi riprendo del tutto da… quand’è stato, ieri? O l’anno scorso?»

Nessun ac­cenno di sorriso, il pubblico non reagiva neanche all’adulazione. Al diavolo, veniamo al sodo.

«Ce ne fac­ciamo una? Io porto le birre, ne ho una confezione da sei che sta affogando nel ghiaccio. Ci stai?»

Franz riuscì a parlare. Gli sembravano secoli che non lo faceva e la voce gli uscì roca: «È… è successo… un incidente.»

«Incidente? Dove, come. Fammi entrare, così mi spieghi.»

Non aspettò che Franz si scostasse, sgusciò come un ratto tra lo stipite della porta e il padrone di casa mentre questo stava ancora rispondendo: «In salotto…»

«In salotto? Ma che… Fammi vedere, va.»

Franz cercò di fermarlo, ma era troppo lento per quel sorcio irlandese.

«No no… non anda…»

O’Sullivan era già arrivato sulla porta della stanza. Buttò un’occhiata all’interno, esaminò cosa era successo e perse tutta la sua baldanza. La birra gli tornò su all’istante. Vomitò sul parquet, che avrebbe conservato per sempre la macchia di acido.

«Cazzo!» disse con gli occhi fuori dalle orbite dopo aver rigettato tutte le tre Bud bevute nell’ultima mezz’ora. Con le gambe molli e l’aiuto di qualsiasi sostegno che riuscì a trovare raggiunse l’amico che era rimasto in corridoio.

«Ma che… CHE CAZZO HAI COMBINATO?»

«È stato un incidente.»

A Sully venne in mente quando da piccolo aveva dato fuoco alla cassettiera di Josie. Lì per lì gli era sembrato un buon modo per cancellare le prove appiccicose delle sue frequentazioni intime con le mutandine della sorella. Aveva cercato di giustificarsi con le stesse parole, “È stato un incidente”, ma la madre non gli aveva creduto neanche per un secondo e gliele aveva suonate di santa ragione.

Represse la voglia di fare lo stesso col suo amico.

«Quel macello tu lo chiami… Ma mi vuoi prendere per il… E no, eh! Ho capito il tuo piano… Ti serve un complice, vero? Ciao ciao, carino, io non ho visto niente. Niente di niente. Hai affer­rato il concetto?»

Franz gli artigliò un braccio. Si sorprese di avere ancora abbastanza forza.

«Aiutami.»

O’Sullivan lo guardò come si guarda un pazzo.

«Aiutarti? A fare cosa? Lo sai che non è il mio aiuto che ti serve, in questo momento. Lo sai, vero? Te ne rendi conto, sì, o sei talmente fuori che non hai visto bene quello che c’è di là?»

Franz non lo lasciava.

«Puliamo… Mettiamo in ordine…»

Sully si concesse una breve risata isterica.

«Per chi mi hai preso, per mister Wolf? Ti sembro uno che ri­solve i problemi? Cazzo, mi stai facendo male al braccio.»

Cercò di scrollarsi di dosso la mano, ma l’altro non accennò a mollare la presa.

«Ti prego.»

«Ascoltami, amico, ascoltami attentamente. Lo sai meglio di me che non c’è niente che tu o io possiamo fare, ormai. E quando dico niente intendo dire niente. Nada, rien, nothing. Lo capisci? LO CAPISCI O NO?»

Franz piagnucolò: «Non è vero. Possiamo pulire, mettere a posto…»

«Ma ti senti quando parli? Ci vorrebbero una fiamma ossidrica e un anno di tempo per scrostare dalle pa­reti tutto quello… quella…»

L’immagine di ciò che aveva visto in salotto gli tornò vivida davanti agli occhi e lo stomaco gli balzò in gola, di nuovo. Ruttò una bolla acre direttamente in faccia all’amico, che neanche se ne accorse.

«E noi non abbiamo né l’una né l’altro. No no, io me ne torno nella mia tana. Non so niente, non ho vi­sto niente. Neanche ti conosco, se qualcuno me lo verrà a chiedere. Mi dispiace, fratello, ma se tu sei fot­tuto, e lo sei, ci puoi giurare, io non ho nessuna intenzione di fare la stessa fine. E quando quel meccanico di merda avrà finito con la macchina, schizzerò via che neanche Superman. Mai stato in questo posto schifoso, mai.»

Un pensiero passò per la testa confusa di Franz, qualcosa sui topi che abbandonano la nave che affonda. Si arrese e lo lasciò andare.

«Sei uno stronzo.»

«Uno stronzo vivo, però. Adios y buena suerte.»

Rientrò di corsa nella sua roulotte, tolse il blocco di cemento che fungeva da gradino e sbarrò la porta con tre chiavistelli.

Franz gli urlò dietro, se non altro per avere un minimo di rivalsa: «Non ti serviranno ad arginare il castigo, quando arriverà!»

Ma doveva ammettere che il suo amico aveva ragione, non c’era in assoluto niente che si potesse fare per mettere una pezza a quello che era successo. Pulire, rimettere in ordine, addirittura fuggire non avrebbero cambiato di una virgola la catena di eventi messa in moto dall’incidente. L’unica cosa che avrebbe potuto essere utile, a quel punto, era una macchina del tempo, per tornare indietro a due minuti prima che la si­tuazione gli sfuggisse dalle mani. Prima che commettesse quel piccolo, catastrofico errore di distrazione.

Ma non aveva una macchina del tempo.

Rassegnato e incapace di fare altro andò in cucina e si sedette al tavolo, con la testa tra le mani, a piangere e aspettare l’inevitabile punizione.

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