Racconto di Margit Horsky

(Terza pubblicazione)

 

I rangers ci avevano avvisato di fare attenzione, di non tenere dentro la tenda nessun alimento: niente di appetitoso, soprattutto cioccolata o miele, niente bibite all’arancia o limone. Ma neanche creme da corpo dal profumo fruttato o dentifricio alla menta. Tutto conservato in macchina, con finestrini chiusi. A Yosemite Park, si sa, ci sono orsi di tutte le misure ed estremamente ghiotti.

Durante il giorno avevamo fatto un’escursione con una guida, cercando di vederne qualcuno in lontananza. E, in effetti, ci eravamo riuscite: cannocchiali appiccicati agli occhi avevamo visto un giovane orso rossastro entrare e uscire dal fogliame. Come ci era sembrato bello e innocuo da lontano! E come eravamo state felici per l’avvistamento.

«Che fortuna!» c’eravamo dette.

Ora era buio. E non era un campeggio con piazzole e lampioni la nostra dimora. Ma un pezzo di bosco recintato alla meglio.

Alla luce di una torcia avevamo piantato la piccola canadese verde. Eravamo stanche dopo il viaggio di ore e l’escursione guidata. Dovevamo ottimizzare il tempo, così non avevamo piantato la tenda alla luce del giorno.

E ora eravamo lì, in mezzo al bosco, senza pareti protettive intorno, solo una pesante tela impermeabile.

Unica presenza umana, qualche tenda sparsa qua e là nel buio. Illuminata dall’interno, pareva una grossa lucciola posata sull’erba.

Tacevamo i nostri timori per non aumentare il senso di spaesamento e l’inquietudine. Ma era chiaro, avevamo una fifa blu.

Di bagni, ovviamente, neanche a parlarne. Tutto si faceva in natura.

«Vai prima tu?»

«Vai vai». Disse Paola. E con un colpo secco chiuse la zip e mi tagliò fuori da quell’esile rifugio.

Mi allontanai verso i cespugli, gli occhi che scrutavano il buio, le narici dilatate per cogliere odori strani o di pelo umido. Ma c’era solo profumo di muschio e di qualche invisibile fiore selvatico già chiuso per la notte.

L’udito, dei sensi, era quello che funzionava di più.  Grilli che si chiamavano, un uccello che lanciava un grido che pareva di dolore. Un rumore di sterpi calpestati.

Inutile dirlo, ogni tentativo di liberarmi andò a vuoto, solo una veloce pipì e via di corsa alla tenda.

«Sei tu?» chiese Paola dall’interno, udendo dei passi.

«No, l’orso Yoghi,» risposi. «Dai apri!»

Ci sedemmo sull’uscio con un misero panino al prosciutto tra le mani chiuse a conchiglia, cercando di non lasciar andare quel po’di profumo che aveva.

All’improvviso, sulla destra, sentimmo un raspare sul terreno, dei passi che niente avevano di umano, un ansare pesante. I peli si rizzarono sulle braccia. Una sensazione di gelo ci avvolse. Non avevamo il coraggio di fiatare.

L’animale si avvicinava, ma nel buio non riuscivamo a vederlo. Lo sentivamo soltanto, con tutto il corpo e con tutta l’anima.

Quando ci fu quasi addosso, ci puntò due occhi gialli in faccia.

Paola, con fare quasi gentile, gli porse il panino, come si fa con un viandante affamato: il braccio proteso. Negli occhi un’umile preghiera.

Il grosso cane fulvo lo azzannò tutto contento e se ne andò scodinzolando richiamato dal fischio del suo padrone.