Racconto di Vera Casoni

(Prima pubblicazione – 11 febbraio 2021)

 

 

Van tutti matti per me!

Saporita, dorata, calda, appena uscita dal forno. Con qualche granello di sale grosso negli alveoli.

Rilucente come una perla.

C’è chi mi mangia in purezza direttamente dalla carta data dal fornaio.

E ve lo posso garantire.

Ogni morso è un assaggio di felicità.

Ebbene sì, son la focaccia.

Il mio profumo è commovente e sensuale e il mio sapore ispira pensieri sublimi.

A cubotti sono perfetta per l’aperitivo.

Farcita di prosciutto e mozzarella divento un classico street-food.

Qualcuno mi inzuppa nel cappuccino (uso tipicamente genovese) e qualcun altro mi accompagna con un bicchiere di vino bianco (o gianchetto).

Lo faceva anche il poeta greco Anacreonte (VI-V sec. a. C.).

“Cenai con un piccolo pezzo di focaccia e bevvi avidamente un’anfora di vino”.

Derivo dal tardo latino “focus”, cioè cotta nel focolare.

E ho un passato illustre: già i Fenici e i Greci mi preparavano con orzo, segale e acqua.

Così pregiata da essere offerta agli dei in occasione di riti propiziatori.

Sono citata pure nell’Eneide.

La Sibilla getta a Cerbero una focaccia di miele (con erbe soporifere).

Posso definirmi “sacra”.

Ero consumata perfino in chiesa, durante i matrimoni e anche ai funerali.

Ma, alla fine del 1500, il vescovo di Genova, Matteo Gambaro, mi bandisce dai luoghi sacri.

Sciagurato!

Ho una sorella famosa: la focaccia al formaggio.

Lei è nata a Recco (Genova).

Per sfuggire alle incursioni dei Saraceni, gli abitanti si ritirano nell’entroterra, carichi di farina, sale, olio, necessari per sopravvivere. E qui, talvolta, barattano l’olio e il sale (di cui ne hanno in abbondanza) con il formaggio dei pastori del luogo.

E cuociono l’impasto ripieno di formaggio su una pietra di ardesia.

Questa è la sua origine.

Prelibata e apprezzata anche oltre i confini territoriali.

Ma torniamo a me!

Sono assai versatile e anche un po’ vanitosa.

Cambio spesso vestito. A volte verde al profumo di salvia e rosmarino, farcita di olive. A volte, invece, bianco, di cipolla a fettine.

Anch’io ho la mia ode come il carciofo e il pomodoro.

Entro, infatti, nei versi di un grande poeta di Genova: Vito Elio Petrucci (1923-2002).

“Io sono sentimentale e mi commuove se è con la cipolla … me la sogno di notte / e poi mi sveglio che perdo la bava come una lumaca …”.

Il poeta Costanzo Carbone (1884-1955) mi ricorda così:

“Tutta piena di ombelichi

umida d’olio di Diano

per i signori e per i facchini”.

“Bisogna mangiarla appena esce dal forno e camminando lentamente e, se si è in vista del mare è meglio ancora, la focaccia si condisce anche di mare”, racconta di me nel 1976 lo scrittore-giornalista Vittorio Rossi.

Devo ringraziare anche il cantautore Carlo Denei che, nel 2015, mi dedica la canzone “Secolo e focaccia”.

Il migliore buongiorno è per lui comprare il Secolo XIX e un “bellu toccu de fugassa”.

Come dargli torto?

Una mia lontana cugina, nonché rivale è la focaccia barese.

Lei dice di essere più gustosa di me, di me focaccia genovese!

Perché ha i pomodorini e le patate.

“Sono un must in Puglia, sono una carta vincente!”

E tu? “Avasce la creste”. “Vattinne và!”

Mi offende così.

“Ma non rompere ü belìn”, ribatto io.

Comunque, so solo questo.

Così unta, umida e profumata, sono stata l’amore di Fabrizio de André, Gino Paoli, Renzo Piano e Sandro Pertini.

E aggiungo poi che a Ge-Voltri si recava di persona l’autista di Agnelli per portarmi a Torino.

Non dico altro.

Sono io la regina.

Però mi tocca riconoscerlo.

Anche se a malincuore.

Nel 2019 sono stata spodestata dal trono.

Una giuria di 100 esperti ha incoronato la focaccia barese come la più buona d’Italia.

È successo al FICO Eataly World di Bologna.

Sarà.

Del resto, “de gustibus non est disputandum”.

Ma prima o poi, stanne certa, ti renderò pan per focaccia.