Racconto di Martina Di Massimo

(Prima pubblicazione – 2 marzo 2020)

 

Oggi è l’ultimo giorno della mia vita. 24 Febbraio 1999, in un luogo insignificante del Michigan. Come lo so? Beh, c’è una pistola carica qui sul mio tavolo, solo un proiettile. Accanto, un Dostoevskij, un Celine, no, un Cioran no, è una lettura troppo deprimente per chi ha intenzione di suicidarsi. Poi un Fitzgerald, per terra un Keroauc e due Steinbeck. Sono caduti poco fa e non avevo voglia di raccoglierli.

Sui-ci-dar-si. Come suona male questa parola, un po’ viscida. Quel dittongo iniziale, ui, non c’entra proprio niente. Ui. In controluce vedo il cerchio imperfetto del Mescal lasciato dal mio bicchiere sul legno scuro e rigato del mio tavolo. Non mi ricordo mai di che legno sia, ogni tanto qualcuno mi dice che dovrebbe essere questo, che dovrebbe essere quello, che dovrei trattarlo, insomma le solite cose non richieste, le solite conoscenze inutili buttate lì. Io credo invece che il legno sia come la pelle, la propria pelle, che non vada protetto, anzi, credo che debba raccontare delle storie. Le righe del mio tavolo sono come cicatrici, bruciature, tatuaggi, lividi. Ad ogni modo anche se volessi decidermi a curarlo penso che sarebbe troppo tardi, perché oggi è l’ultimo giorno della mia vita.

È un giorno come un altro, non mi sono mai piaciute le cose programmate, l’ho deciso poco fa tornando a casa a piedi. Perché? Perché ho vissuto abbastanza, ho trentaquattro anni, e mi sono già state concesse le due esperienze più importanti per cercare di cogliere il senso dell’esistenza, la galera e un amore vero. E un mese fa si è ritirato Michael Jordan, che cazzo ha da offrire il mondo ancora. Non l’ho trovato comunque, questo senso, ma almeno ancora nessuno mi pulisce il culo e posso ancora tirarmi l’uccello.

Le due e ventitre. Silenzio. Mi hanno staccato il riscaldamento da due mesi. Riesco a vedere l’unghia incarnita del mio piede, tutto quel pus mi fa eccitare. Non so quali pensieri debba avere uno che ha deciso di suicidarsi. Si deve piangere? Ridere? Io vorrei una lingua calda sul mio cazzo. Credo che mi sparerò davanti allo specchio, in vestaglia. In vestaglia e con la mia unghia incarnita.

Sono nato a Fremont, Michigan. No, non sono uno di quelli che da bambino andava al lago con il padre mentre la mamma a casa preparava una torta. Mio padre si è sempre spaccato la schiena in fabbrica. Siamo in Michigan, diventi un operaio per forza. Non aveva né tempo né voglia di portarmi a morire di freddo a pescare. Mia mamma era un’insegnante. Ah, mi chiamo Tristan Puckett.

Sarò onesto. Ketamina. In quegli anni era una miniera d’oro. No, mai fatto uso. La tenevo nel ranch che era di mio nonno, dove tenevamo il fieno. Solite storie, per i cavalli, Vostro Onore. Dei tizi venivano, mi pagavano, io gliela davo. Finiva lì, così ogni mese. Non era per loro, no. Era per i cavalli da corsa. Non conoscevo personalmente queste persone, sapevo che dopavano i cavalli e che pagavano puntuali, tanto bastava. Non mi è mai fregato un cazzo dei cavalli dopati, o di tutte quelle cause che gli uomini abbracciano per sentirsi meno schifosi. Non voglio salvare nessuno, l’inquinamento, la caccia alle balene, la gente che muore di fame, la guerra, il traffico di esseri umani, non me ne frega niente, io non dopavo i miei cavalli, ma qualcuno avrebbe dopato quelli da corsa, con o senza di me, quindi tanto valeva che ci facessi qualche soldo sopra. Mica ero io a fare le iniezioni, mi annoiano pure le corse di cavalli.

La ketamina era mia per quei pochi giorni che stava lì da me, me la portava Bates, io la sistemavo, e ogni 22 del mese avevo i miei straordinari. Minimo rischio con buon guadagno. Bates diceva che loro se ne approfittavano, che avrei dovuto avere molto di più ma mi sono sempre accontentato nella vita e fatto gli affari miei. Bates è un tale che sembra un maggiordomo in pensione, quando parla ansima e gli si fissa la bavetta ai lati della bocca. È una brava persona ma si angoscia troppo secondo me. Era stato lui a propormi questo affare, io non ero mai stato in nessun tipo di giro, ma avevo il ranch, che era una grande copertura. Se anche ci fossero stati dei controlli non sarebbe stato insolito trovare della ketamina tra i cavalli. Mi aveva garantito che il rischio fosse minimo, mi sono fidato.

Poi un giorno, stavo leggendo John Fante, si presentarono due signori in divisa, uno che ancora non sapeva di essere frocio, e mi portarono via, neanche il tempo di finire il capitolo. Ce ne avete messo di tempo signori. Io in galera, il ranch sequestrato. Lo sapevano anche loro che io non c’entravo un cazzo, pensavano di bloccare il giro. Sono cose che succedono. Cinque anni, non male. Cinque anni da sobrio, i peggiori della mia vita. Di giorno parlavo con la gente, non me la sono passata male. È di notte che il tempo non passa mai. Senti i rumori, i passi, i pianti, la gente che si masturba, c’è chi russa ma soprattutto senti i pensieri. Lì dentro prendono forma, corpo, li vedi camminare su due gambe, li vedi riposarsi, li vedi pensare. In carcere anche i pensieri pensano. Poi il letto cigola, quello sopra si rigira nel letto, ti cade la polvere sopra. Insomma robe così. Però quando sei dentro non pensi mai a cosa sarebbe stato meglio fare, a cosa avresti dovuto fare altrimenti, alle persone che avresti dovuto ascoltare. Pensi che sei lì e basta e che è meglio che il tempo passi alla svelta. Quando esci lo fai meglio perché hai avuto tutto il tempo per pensare a cosa hai sbagliato. Non io comunque. In cinque anni non ho capito un cazzo. Ho letto, mi sono abituato a cagare con gente vicino. Quando sono uscito tutto era esattamente uguale, il bar, casa mia, anche il mio maneggio. Le persone, sempre limitate, sempre banali.

Non mi è pesato stare lì dentro, non c’era nessuno fuori ad aspettarmi, nessuno che mi mancasse o qualcuno in particolare a cui scrivere lettere. Mi mancavano i miei cavalli, questo sì. Mi mancava il loro pelo sotto le mie mani, i loro muscoli, gli stivali sporchi di sterco e fieno. Mi è mancato il loro linguaggio, silenzioso, fiero, selvaggio, amico. Mi è mancata la loro libertà, non la mia.

Ho conosciuto molta gente lì dentro, l’importante è farsi rispettare, dicono. Come farlo? Non te ne deve fregare un cazzo. Ero in cella con un argentino che puzzava da vomitare e un tizio di Boston, quando lo hanno portato dentro era incravattato. L’argentino, Julio, era lì dentro già da undici anni, gliene mancavano altri diciannove. In undici anni lì dentro, e altri sette in America, non aveva ancora imparato una parola della nostra lingua. Tutte le sere pregava davanti la foto della moglie, una donna con i baffi e un culo enorme, di giorno mi raccontava delle puttane che erano sotto di lui. Non me ne fregava un cazzo, non me ne frega un cazzo neanche adesso, però lui era convinto che io capissi la sua lingua e quindi parlava. Ho provato a farmi insegnare qualche parola, ma non sono mai stato un tipo che si applica. Però almeno ora so come chiedere un altro bicchiere e un pompino in spagnolo: “uno màs por favòr” e “mamàda”, e a pensarci ora il primo vale anche per il secondo. Probabilmente ora ha già finito di pregare e si sta masturbando su qualche puttana. L’altro, il bostoniano, era lì dentro per molestie sessuali. Non che avesse mai fatto male a qualcuno, no. Però, ecco, male in carcere non ci stava. Si chiamava Olson mi pare, ed era la sua prima volta al fresco. Come me. Era stato incastrato dalle telecamere di una lavanderia self-service. Le frequentava ogni notte, frugava tra le asciugatrici alla ricerca di mutande da donna e ci si masturbava nell’unico punto della stanza in cui le telecamere non arrivavano. Una volta finito rimetteva il tutto a posto. C’erano state diverse segnalazioni nel quartiere, perché il servizio sborra-e-sporca non è previsto nelle lavanderie self-service, e così l’hanno trovato lì una sera ed eccolo nella mia cella. Si è fatto pochi mesi, suppongo che in questo momento sia a cazzo nudo in qualche lavanderia da qualche parte nel mondo. Non ho più pensato a lui, ma ho sempre trovato ingiusta la sua condanna. Insomma a lui andava di masturbarsi lì e l’ha fatto, io non vado in giro a dire alle persone dove devono masturbarsi. Ogni tanto ho ripensato a Julio e a sua moglie grassa, dio un culo veramente enorme, le tette attaccate alle cosce, i baffi e quei denti enormi… quando si sono sposati era una modella, mi ha detto. Beh! La vita ti ha proprio fregato vecchio mio. Aveva queste puttane, ma la moglie non sapeva niente. Rendevano molto, era molto ligio nel suo lavoro, loro scopavano e lui si prendeva i soldi, tanti soldi. Poi qualcuno ha parlato e via che l’hanno arrestato, niente più puttane, niente più soldi. Però in carcere aveva il suo giro di affari. Che razza di impegno. Come cazzo fanno queste persone ad applicarsi così a qualcosa? Io non ho voglia di fare un cazzo, non ho voglia di impegnarmi in nulla. Sì, tenevo la ketamina nel fieno, ma il rischio era minimo mi avevano detto e tutti quei soldi me li sono sempre bevuti tutti. Vostro onore, l’ho fatto per sbronzarmi meglio. Era la verità. Però non l’ho convinta, una donna figurati. Frigida come tutte le donne giudici della fottuta America. Poi è arrivato un altro tizio, uno di origini francesi che pensavo di essere a Guantanamo o che so io. Era uno di quegli stronzi nati nel nostro paese ma che ci tengono a rimarcare le proprie origini. Non era un tipo semplice. Uno potrebbe pensare che in carcere nessuno lo sia, invece non è vero. Julio era un tipo semplice, mi piaceva, anche se non sapeva una cazzo di parola della nostra fottuta lingua. Non sono mai andato a trovarlo, perché so che sta bene, ma se non avessi deciso di uccidermi proprio oggi, beh tra qualche anno l’avrei aspettato fuori dal carcere cazzo. Mi è stato detto che sono stato molto fortunato, che in carcere è pieno di figli di puttana. Io penso invece che non avrei neanche dovuto finirci lì dentro.

Sono uscito in primavera, il 18 maggio 1990, non ho chiamato un taxi. Sono andato a piedi al primo bar sulla strada e mi sono sbronzato. Poi mi sono reso conto di non conoscere la strada per casa mia, così ho dovuto chiamare un taxi, o meglio è stato il barista a farlo.

Sono salito. Il tassista lo sapeva che era il mio primo giorno in libertà, nessuno frequenta quel bar, se non ex carcerati e guardie. Non esistono ex carcerati però, una volta che entri ci resti per sempre, non dentro, ma nella condizione di carcerato. Le persone ti guardano in modo diverso, pensano che sia giusto giudicarti, i più indulgenti pensano che hai avuto un’infanzia difficile, altri non ti vogliono nel loro quartiere, poi ci sono gli altri ex carcerati che non ti considerano un vero carcerato perché non ti sei fatto almeno dieci anni, insomma robe così. Probabilmente il tassista in questione era uno di quelli che non voleva problemi e che si sentiva un cittadino più onesto di me. La sua voce era lagnosa come il filo del miele che non si stacca dal cucchiaio, la malinconia della sua gobba appestava la macchina. Nei rettilinei mi osservava e il suo sguardo era quello di un padre che osserva il figlio seduto nel suo banco il primo giorno di scuola e nello stesso tempo quello di una iena che si nutre del miasma della carcassa che ha trovato. Che poi il suo nome scientifico è Crocuta Crocuta, che cazzo di spasso. Una volta da ubriaco ho intavolato questo discorso, insomma, un nome così ridicolo per un animale che a mio parere ha una sua autorità. Nessuno sapeva niente e nessuno aveva niente da dire. Le persone non hanno mai niente da dire, devono essere sempre stimolate e se le bracchi un po’ puoi ottenere al massimo qualche osservazione colorita come quando guadagni l’ultima goccia di un limone marcio che non hai voglia di buttare. Io continuo a trovare la cosa molto divertente, un po’ come Majakovskij che chiamò il suo barboncino Scottie. Ci sono animali o insetti che hanno nomi pazzeschi, ad esempio la cimice, che nei manuali si chiama Nezara Viridula, ti aspetti chissà cosa e alla fine è un insetto talmente misero che non spaventa nemmeno, con quell’aria inerte, apatica, rinunciataria, quasi a implorarti di schiacciarla. Mentre la iena, un mammifero così altero e compiaciuto, subisce la sorte di quel ridicolo nome.

Mentre riflettevo su questo mi ricordo che mi venne in mente una frase di Keroauc “Vedo l’America scorrere sullo schermo privato del mio finestrino”, certo lui non deve essere mai stato nello squallore cancerogeno del Michigan, lui si riferiva a quei rettilinei della nostra America dove non c’è niente e proprio per questo c’è tutto, e tu sei lì e non hai bisogno di niente perché ci sei tu con la tua mente, l’aria, la tua insoddisfazione che ti rende frenetico, il vuoto che gonfia la tua anima e potresti pisciare anche nudo in mezzo alla strada senza essere visto da nessuno se non da te stesso e trovarti così ridicolo da pensare anche di farti una statua ed esserne il sacerdote. Passammo davanti ad un negozio di timbri. Che razza di prodigio è stato Keroauc per il mondo, per noi tutti, anche per quelli che non l’hanno letto, perché così hanno potuto restare nella loro sciatteria ed inettitudine, perché c’è bisogno anche di gente del genere, perché se tutti cerchiamo il significato della vita quello fugge perché si sente accerchiato e allora non la finiamo più. Per questi tizi Keroauc è On the road, che cazzo ne sanno loro, dei brividi, dell’angoscia, del sudore, degli scantinati, dei lividi, delle delusioni, della ricerca di non si sa di cosa. Jack suonava e beveva e stava male e la sua sofferenza ha dato la vita a chi lo conosceva e a chi lo ha conosciuto tramite la carta.

Inizia a fare molto freddo nella stanza. È mercoledì. Tecnicamente è già giovedì e questo mi fa riflettere. Ho sempre odiato i giovedì, sono giorni assurdi, inutili, inadeguati. Non succede mai un cazzo e il peso della vita ti si attacca addosso, ti piomba sulle spalle, ti tira la lingua, ti pizzica il culo. Domani sarà giovedì, non voglio spararmi di giovedì cazzo, non voglio morire in un giorno del cazzo. Mercoledì va bene, metà settimana, niente di teatrale. Sono nato di mercoledì. Non ho programmato il giorno ma è successo che scegliessi proprio il mercoledì. Sveglierò qualcuno. Nel palazzo vivono un ex pugile, una ex prostituta e un artigiano. Tutti insieme. Lo so perché me lo ha detto il portinaio una volta. Chissà che discorsi fanno. Li sveglierò. Non so chi altro viva in questo posto. Non mi sono neanche fatto una doccia. Potrei farla, in effetti.

Sono qui steso a letto. Una volta in un bar avevo conosciuto un serbo. Quel bar era sempre pieno di serbi, c’era una fabbrica lì davanti. Non ricordo come si chiamasse, avrà avuto quarantadue anni e come tutti gli slavi non aveva stile nel bere. La prima volta che lo vidi stava parlando con il barista, gli diceva che in Serbia, se ti offendi dopo un torto, sei un ladyboy, cioè una donnetta, che i veri uomini non si offendono mai. Lo trovavo lì tutte le sere. Una volta mi ha detto che era andato a dormire con le braccia incrociate perché pensava che sarebbe morto nel sonno, perché aveva mangiato troppo. Trovai la questione veramente assurda. Poi è morto davvero, non quella notte però. Gli è scoppiato il fegato.

Sono seduto sul mio davanzale, appoggiato al vetro. Diciannovesimo piano, un posto veramente insulso. Vedo le luci, le macchine e i bus notturni, proprio ora di sopra qualcuno si è rigirato nel letto, ho sentito le molle del materasso. Chissà se è sveglio e a cosa sta pensando, con che umore è andato a letto, se domani ha degli impegni, se si è addormentato piangendo, se dorme solo, se oggi gli è morto qualcuno, se ha la febbre, se domani si sposa, se deve prendere un aereo. Arriverà in orario? Lo perderà? Speriamo che senta la sveglia. Oppure è sveglio come me, e pensa a quello a cui penso io, forse ha deciso di uccidersi, magari si sta chiedendo anche lui cosa sta facendo quello di sopra, o quello di sotto, tipo me, che non sto facendo nulla, se non osservare i neuroni luccicanti di questa città.

Una volta un italiano mi ha detto «Sarò veramente un uomo libero il giorno in cui morirà mia madre». «Perché?» gli chiesi. «Perché a quel punto sarò libero di spararmi». Nonostante avessi trovato l’affermazione molto italiana, capii il suo punto di vista. Chissà poi se è morta e se si è sparato. Quell’uomo aspettava la libertà per spararsi, io aspetto di spararmi per essere libero. Libero da questo corpo e da questa vita. Ci saranno persone che penseranno che io sia un viziato, un ingrato, un superficiale, un egoista, forse un teatrale, in effetti non si svegliano le persone che dormono. Per me la notte non è mai esistita, sono sempre stato sveglio, ho osservato il mondo da questa finestra.

Mi sento come uno di quei personaggi dei romanzi che improvvisamente ti deludono. Tu li segui, ti immedesimi, sottolinei, pensi di esserti identificato e poi tac, sbagliano. Tradiscono, o peggio compiono l’azione redentrice che tu non volevi facessero. In poche parole ti deludono. E poi che si fa? È scritto su carta. Non puoi modificare. L’autore è morto, ha scritto il suo bel romanzetto, ti ha illuso con questo personaggio e poi è schiattato. In genere tisi o polmonite, se sei fortunato suicidio. E tu sei lì come un coglione senza più il tuo bel personaggino che ti piaceva così tanto. Quindi che fai? Non leggi più il libro? No, non si fa. Vai avanti. Ma non hai più il tuo personaggio. Ne cerchi un altro? Li avevi già scartati tutti per aggrapparti a questo, puoi rispolverarli certo, ma li devi riabilitare. E quel poco di accattivante che avevano tu, proprio tu, lo avevi cassato per lasciare il palcoscenico al personaggio che ora se l’è svignata. Niente devi andare avanti senza personaggio. Insomma oggi mi sento proprio così. Sono un personaggio deludente di un romanzo. Partito bene, con un bel nome, di quelli evocativi, che ricordano un dolcetto raffinato ungherese o turco, che ti lascia sulle mani un po’ di zucchero, un nome sensuale che odora di tabacco, oppure imponente e incontestabile, perfetto in ogni sua lettera, sembravo il personaggio che ogni lettore avrebbe voluto incontrare, sembrava che leggessi nel pensiero ma che allo stesso tempo riuscissi anche a stupire, a farmi amare e invece ho deluso il lettore, che in questo caso sarei io, quindi sono il lettore di un personaggio che interpreto e che mi ha appena deluso.

Si chiamava Arizona.

Quegli occhi. Era una persona sensazionale.

Ricordo ogni dettaglio del giorno in cui entrò nella mia vita.

«Cosa leggi?».

Si era appena svegliata. Ogni volta che finivo poi cadeva in un sonno mortale ma sorridente. E quello ero il momento che preferivo perché potevo farmi i cazzi miei, specialmente leggere. Non c’è niente di più umano che leggere a cazzo nudo sul letto. Non puoi farlo sempre però. Cosa fai, ti porti un libro dalle puttane? Eh no. Sono cose che puoi fare a casa tua, anche perché le puttane non dormono. Mi infastidì il fatto che si fosse svegliata così presto, interrompendo il mio silenzio, con quella domanda del cazzo. Aspettai che me lo chiedesse almeno altre due volte. Ovviamente lo fece, perché le donne una volta che le hai scopate si sentono in diritto di conoscere la tua vita.

«Cosa stai leggendo?». Si stiracchiò come un gatto da salotto, con quei capelli lunghissimi color cioccolato, lucentissimi, da bambola. Feci finta di niente e pensai al minor numero possibile di parole da usare.

«Cosa leggi?».

Prima che potessi rispondere si alzò e andò in bagno. Le guardai il culo, l’unica parte di lei che non mi disturbava. Il suo culo non mi rompeva i coglioni. Quando lo volevo c’era, quando non lo volevo se ne stava per i cazzi suoi. Peccato che i culi non abbiano vita propria, eh no. Che poi è la parte più schifosa del nostro corpo, cazzo col culo caghiamo. Erano le dieci di sera, avevo una infinità di tempo per me, e nessuna intenzione di regalare quella infinità alla stronza che stava usando il mio bagno. Cercai le mie mutande, le infilai, erano al contrario, controllai allo specchio se per caso scopando mi fosse andata via quella fottuta pancia. No, nemmeno questa volta. Andai di fretta in cucina a prendere una birra. Uscì dal bagno, assolutamente a posto, con le calze, gli stivali col tacco, il suo bel sorriso inutile.

«Non ti chiedo neanche di andare a mangiare qualcosa, non mi ci porterai mai».

«Hai detto bene infatti, io adesso esco e di conseguenza anche tu».

«Esci così? In mutande, al contrario, e quella camicia hawaiana gialla e verde acqua?»

Il suo tedio mi ricordava mia madre, era morta da cinque anni. Cancro. Le solite puttanate della vita. L’unico vero ricordo che avevo erano le sue mani che simulavano quelle di un pianista intento a suonare. Le muoveva sempre, mentre mangiava, mentre guidava, mentre leggeva, una volta pure mentre dormiva.

Guardai il mio tavolo. Era tutto sporco. Perché le cose non si puliscono da sole? In effetti non mi ero accorto di essere mezzo nudo, essendo già proiettato nella mia infinità ostacolata da quella mortale che quelle due volte a settimana veniva a casa mia a prendersi il mio sperma e il mio sapone per le mani, mi apriva il frigo e addirittura una volta si era infilata le mie pantofole.

Riuscimmo ad uscire, mi salutò con ironia. Lei mi aspettava come il gatto che aspetta che il topo esca dal buco, aspettava che io mi innamorassi di lei, come tutte le donne di questo maledetto mondo una volta che te le sei scopate. Non esistono donne con cui dividere l’anima insieme allo sperma, per il tempo in cui devi godere. Le loro pretese sentimentali sono la punizione per tanto godimento, la prova che nella vita non puoi godere e basta, devi prenderti tutti i fastidi successivi. Camminai per strada molto velocemente, dovevo andare al bar, uno stronzo grasso mi doveva 600 dollari, tre mesi prima gli avevo scopato la madre.

Arrivai. Il neon fucsia, il solito cibo scadente. No, lo stronzo non c’era. Ma io avevo tempo. Tutto il tempo, la mia infinità. Nessuno a cui dovere niente, nessuno a soffrire la mia assenza o i miei ritardi. Ero libero, mi sentivo libero, non salutai nemmeno nessuno. Volli festeggiare quella sensazione.

«Champagne! Ma prima dammi una birra, Sal».

Senza fare domande, Sal, che non faceva domande proprio perché era lui che aveva le risposte, stappò una birra e prese l’unico champagne che aveva sotto il banco, uno di poche pretese, tra l’altro regalo di un cliente che poi era morto.

«Beviamo Sal, questa è per noi. Però per pagarti devo aspettare uno stronzo ciccione che mi deve un sacco di soldi, perché nelle tasche non ho un dollaro. Lo aspettiamo insieme» gli dissi.

«Tutti quei soldi si aspettano sempre» rispose lui.

«Sal, brindiamo a me e a te, e a tutte le persone che non ci conoscono e che quindi non ci possono rompere i coglioni».

«A noi, e ai miei soldi».

«Si capisce». Bevvi sorseggiando.

No. Arizona non entrò in quel bar unto e trasandato, no, non entrò e io non rimasi colpito da lei. Arizona non l’avresti incontrata da Sal, o in qualsiasi altro bar d’America. Nemmeno al parco, o in biblioteca, in un locale, su un taxi, al lago, in negozio, per strada o sulla luna. No. Arizona era quella persona che incontravi solo se la vita decideva di farti un regalo. E queste persone non si incontrano per caso, ti ci imbatti perché la vita ha deciso così. E così fu per me. Come dicevo quindi, fu lei a venire da me. Al tempo non mi curavo molto della mia vita, che per me era una incombenza con quale dovevo fare i conti ogni giorno, ma che avrei volentieri affidato ad altri per poter stare tranquillamente al bar a sbronzarmi. Proprio in quel periodo arrivò Arizona. Fu come se non fosse mai esistita prima, come se fosse comparsa in questo mondo apposta per venire da me, per lo meno io ho sempre voluto pensare così. Il caso implica la possibilità che per questione di neanche un minuto qualcosa possa non succedere e, come ho già detto, il caso non si adeguava ad Arizona. Per caso incontri gli amici, per caso ti imbatti in un bar, o per caso vieni arrestato, o per caso muori, o vedi una bella donna, o finisci in una rissa, cose così. Arizona non bussò alla mia porta, né lei per caso mi incontrò. Arizona era un’idea che aveva preso forma nella mia mente senza che io lo sapessi. Arizona era già in me. Amavo questa idea prima ancora che prendesse forma.

Era Luglio 1996. Ovviamente il tizio grasso non arrivò e Sal segnò il mio debito. Era già mattino e come ogni mattino ero sbronzo da fare schifo, e come ogni mattino sbronzo da fare schifo mi presentai al mio ranch. Kahty erà lì già da due ore, come ogni mattino. Kathy è una donna morbida di sessantuno anni, vedova e pratica, tutto quello di cui avevo bisogno. È sempre stata lei ad occuparsi delle questioni del ranch. Barcollavo e non vedevo l’ora di stendermi sul fieno. Non ero neanche passato a casa, puzzavo e il bar aveva chiuso solo da venti minuti. Ero arrivato a piedi pensando di smaltire la sbornia.

Appena Kathy mi vide, corse verso di me. Sembrava una pazza.

«Dove eri finito?? Ti ho chiamato per tutta la notte, pazzo incosciente!». Ora, se c’è una cosa che Kathy sa, è che non mi frega di un cazzo e di nessuno, perciò se mi aveva chiamato tutta la notte, se avevo capito bene quello che stava dicendo, il motivo avrebbe potuto essere solo uno: Scommessa. Senza chiedere nulla mi avviai alla scuderia. Vuota. Il sangue si cristallizzò nelle vene, insieme a tutto l’alcool in circolazione.

«Katherine dov’è il mio cavallo?»

«Abbiamo dovuto farlo uscire, ha vomitato tutta la notte, sputava sangue». Mi guardai intorno, lo riconobbi da lontano. Ricordo di non essere mai stato così lucido, nonostante la situazione. Nel recinto enorme, il mio cavallo, Scommessa, e lei, Arizona.

«Chi sei? Non toccare il mio cavallo».

«Sono il veterinario, dovrò farlo per forza. Anzi le dirò di più, è tutta la notte che lo tocco». Era una tosta, niente convenevoli del cazzo. «Non toccare nulla, se non vuoi sputare sangue anche tu». Aveva la coda, i capelli castani, qualche lentiggine. Shorts di jeans, una maglia qualsiasi, stivali, la mascherina.

«Ora prelevo un po’ di sangue e vediamo che problema ha. Tenetelo lontano dagli altri cavalli fino all’esito delle analisi. Beh cos’è quella faccia? Nemmeno tu hai un bell’aspetto. Sicuro di sentirti bene? In quel caso comunque non posso visitarti, servirà un medico».

In quel momento tutta la storia dell’umanità e l’umanità stessa divennero nulla perché io avevo guardato i suoi occhi. Quegli occhi furono l’anno zero della mia vita. Di tutte le esperienze della mia vita, quella fu la più intensa. Dolci, sensuali, impudichi, penetranti, mi avevano paralizzato, mi avevano rimproverato la mia pochezza. Avevo vissuto senza averli mai incrociati.

«Sì forse è meglio chiamare un medico anche per te».

Arrivò Kathy. «Mi perdoni Dottoressa Martin, sono sicura che Tristan sia stato sgradevole come sempre».

«Tristan?». Non mi ero accorto di nulla. Poi si presentò.

«Arizona Martin».

«Arizona?».

«Sì. I miei genitori mi hanno concepita tra i canyons. Ora vado a consegnare queste provette e a farmi una bella dormita. La consiglio anche a te». Se ne andò.

Bates è stato spesso su questa finestra. «Oggi è tutto così Bates, sai. Tutto così a rilento. È giovedì d’altronde. «E quindi? Quindi oggi è una giornata di merda e non mi aspetto niente di buono». «Senti se vuoi ti porto da qualche parte, in giro, e che ne so, magari scappa fuori qualcosa di buono». «No, Bates. Oggi è andata così. Puoi portarmi al bar se vuoi ma non cambierò idea».

Speriamo di non finire sui giornali domani. Scommessa non è morto poi, non quel giorno per lo meno. Quel figlio di puttana è morto di vecchiaia, è morto da cavallo libero, nessuno lo ha mai cavalcato, nemmeno io. Avrei potuto fare di più per te amico mio, avrei voluto portarti in Nevada o nello Utah e liberarti veramente. Ma gli altri cavalli non ti avrebbero capito, avrebbero giudicato le tue origini di cavallo da scuderia, come hanno sempre fatto le persone con me con il carcere. Non ci siamo mai liberati davvero, Scommessa. Questa notte lo faccio anche per te. Ci hai fatto prendere un bello spavento quella volta, ti eri avvelenato con una pianta andando sempre in giro, un po’ come me con l’alcool. Arizona ti ha fatto guarire, ha salvato sia me che te.

Ovviamente l’ho sposata tre mesi dopo. E l’ho portata in Arizona, tra quei canyons che l’hanno concepita, lì dove la terra è al suo stato primordiale. Ha levigato la mia vita come il fiume ha fatto con quelle rocce.

È arrivato il momento. Sono le quattro passate. Un solo proiettile. L’America muore sotto di me, questo grande e triste paese mi abbraccia per l’ultima volta. Ho un po’ di sonno. Non dormirò mai più, non respirerò più, non mi laverò più.

Ci sono stati giorni in cui mi sono chiesto se avessi avuto ancora un’anima se non avessi più avuto accesso ai suoi occhi e al suo corpo. Ho penetrato ogni parte di lei e ho avuto ogni attimo della sua vita. In Arizona vivevano la semplicità e la forza dell’acqua, l’animo selvaggio della terra. Poi l’hanno investita. E più niente.

«Signor Puckett purtroppo dobbiamo informarla che sua moglie fosse incinta da tre settimane». Le mascherine sulla loro faccia non si muovevano neanche.

Guardo il mio letto. Quante volte, nuda, l’avevo osservata leggere o dormire. Arizona. Terra arida e selvaggia, Arizona, mio amore. Arizona, montagne rosse. Arizona, pelle calda, Arizona, spine e silenzio. Arizona, anima antica. Arizona, terra primordiale levigata dall’acqua. Arizona, pioggia che nutre. Arizona, aria da respirare. Arizona, libera. Arizona, distesa infinita. Arizona, sesso incontrollato. Arizona, luogo incolto. Arizona, madre. Arizona, brutale.

Ora ti raggiungo amore mio, manco solo io. Ultimo giro di giostra, ultimo giro di bicchieri, Sal sta per chiudere, ci manda via. Prendo la pistola. Cosa ti hanno fatto cara e malinconica America? Brindo a te con l’ultima goccia di Mescal. A noi due, America. Non piangere per me. Tanti figli ora brindano per te. Non piangere.