Racconto di Davide Morelli

(Prima pubblicazione)

 

 

Ogni sera si gusta la scena. Si siede sulla poltroncina di plastica. Mette le braccia conserte. Però non sta bene e le adagia sui braccioli. Reclina il capo, quindi si appoggia allo schienale. Accavalla le gambe. Quindi le distende. Nota l’addensarsi delle ombre. Osserva i giochi di luce e ombre sul terreno. Pensa che i suoi pensieri sono avviluppati, contorti, ma non sa che farci. Qualcuno strombotta.  Aspetta un segno che sia un segnale inequivocabile, ma sa che l’attesa è vana, come la promessa mai mantenuta di mollare tutto e di cambiare vita (ma quando mai, visto che non riesce mai a cambiare in parte infinitesimale nemmeno sé stesso?). Sa che ogni tramonto è indistinguibile. Si può confondere con infiniti altri. Ma sa anche che ogni tramonto ha i suoi lineamenti; traccia i suoi solchi lividi nel cielo. Cerca di ricordarsi in rapida successione gli altri, ma lo sforzo di memoria è altrettanto inutile. Il suo sguardo rimane intrappolato per un istante in un pulviscolo, in fuorvianti granelli di polvere. Si distrae. Non si concentra. È approssimativo, sbadato. Poi riprende il gioco. Gli giungono nelle pupille le traiettorie di puntini luminosi, il flusso intermittente di fotoni. Ogni venatura nel cielo è una sensazione. Il tramonto dipinge il cielo con pennellate violacee decise. Ogni tramonto crea un quadro impressionista. Ma è perfettamente consapevole che queste sono per l’appunto impressioni e perciò fugaci, effimere. Pensa che non c’è niente che si staglia definitivamente nel cielo. Questa sua attività di contemplare il crepuscolo è improduttiva, ma necessaria. Qualcuno deve pur farla perché il sole tramonta per essere ammirato dagli uomini. La sua è un’operazione che non ha risvolti pratici e allo stesso tempo ha conseguenze inimmaginabili per il mondo.   Guarda le sfumature violacee che coinvolgono le fabbriche, gli edifici, le pale eoliche. Fissa il sole e l’immagine risulta per qualche attimo sfocata. Chiude gli occhi e percepisce fosfeni. Li riapre e il mondo è di nuovo davanti a lui. Si gusta l’andirivieni di raggi di sole. Non sa se tutto ciò è pura armonia o totale entropia.  Si chiede se questo tramonto lascerà una traccia nella sua memoria. Pensa che il cielo in definitiva è solo uno sfondo anonimo. La protagonista assoluta è quella palla infuocata in cui vorrebbe identificarsi almeno per un istante. Pensa che ogni tramonto è una ferita che si riapre come tutti gli amori desiderati e mai corrisposti. Lui è qui e ora, ma allo stesso tempo altrove, presente e assente al contempo. Pensa allo spazio e al tempo. Percepisce una fulminea successione di istanti, una rapida sequenza di immagini nella mente. Sente che è vivo. Sente che è vicino alla soglia del sogno. Sente che è la vita di uno qualsiasi di una sera qualsiasi in un posto qualsiasi. Ascolta il via vai dei passanti al di là del muro di casa. Tutto si perde nell’indistinto. Quindi si ritrae da quello spettacolo. Si alza e va a cena. Poi andrà a letto. Insomma le solite cose. Un altro giorno è finito.