Racconto di Loredano Cafaro

(Prima pubblicazione)

 

 

Sono l’ultimo pensiero felice. Non ne sono nati altri, dopo. Sono venuto al mondo per caso, come spesso accade a quelli come me. Un sabato mattina, una panetteria, una ragazza bionda che si avvia verso l’uscita con la borsa della spesa in una mano e il sacchetto del pane nell’altra. Papà che le tiene aperta la porta, lei che risponde con un sorriso. Beh, io sono quel sorriso.
Non ero l’unico pensiero felice, allora. C’erano gli improbabili racconti di uomo buffo, come lo chiamo io, il migliore amico di papà. C’era il profumo di caffè nel retrobottega, nella pausa di metà mattina. C’era ancora persino l’immagine di lei, angelo in nero nell’atrio del portone di casa, la sera del loro primo appuntamento. Eravamo in tanti ma la maggior parte dei miei fratelli non lo era affatto, felice. Giorno dopo giorno sempre più numerosi, invadenti, arroganti. La schiena di uomo buffo che svaniva tra la folla verso le porte d’imbarco. Il sapone sfregato sull’anulare sinistro e la fede nuziale che non voleva scivolare via. La lettera di licenziamento che tremava tra le mani.
«Il sorriso di una sconosciuta: ma fammi il piacere!» mi prendeva in giro il “no” al primo e unico invito a una donna dopo il divorzio.

Era il più cattivo; anche ora, rinchiuso qui dentro, posso sentirne la risata.
Ho visto soccombere gli altri pensieri felici uno dopo l’altro. I fratelli tristi hanno dato loro la caccia e li hanno imprigionati nel labirinto dell’oblio: è qui che li ho ritrovati, quando è toccato a me.
Sono riuscito a fare compagnia a papà per molto tempo, prima che i fratelli tristi potessero catturarmi. Dovevo nascondermi, muovermi in fretta. Trovai riparo tra le sfumature di una riflessione sull’amore aggrovigliata su sé stessa. Avrei potuto restarci per sempre, non mi avrebbero trovato mai. Ma papà aveva bisogno di me, così ogni tanto facevo capolino: quando fissava il televisore spento, quando raggomitolato nel buio cercava invano il sonno. E poi un giorno mi hanno preso. Li guidava lui, il “no” al primo invito dopo il divorzio.
Era un venerdì sera di metà dicembre. Papà era sul ponte Maria Teresa, affacciato oltre il parapetto a osservare i riflessi degli addobbi natalizi sull’acqua sottostante. Estrasse un biglietto e una penna dalla tasca del giaccone, poi scrisse tre righe in calligrafia incerta. Piegò il foglio in due, lo sistemò con cura sul parapetto e vi depose sopra un fermacarte in metallo a forma di dado che aveva portato da casa, in modo che non volasse via.
Temendo il peggio, mi impegnai così tanto a farmi notare da papà che dimenticai ogni cautela. Fu allora che i fratelli tristi mi circondarono ed ebbero la meglio. «Il sorriso di una sconosciuta» udii alle mie spalle, poi quella dannata risata. Quanto tempo sia trascorso da allora, non lo so. Ma adesso papà è solo con loro.
«Devo uscire da qui».
«Nessuno è mai fuggito dal labirinto» scuote la testa una canzone degli Smiths.
Percorro ogni corridoio, ogni anfratto, ignorando i fratelli che incontro lungo la strada e mi ripetono che è inutile. Seguo ogni curva, ogni rampa; vado a destra, a sinistra, in alto, in basso. Ciò che trovo è soltanto la sua voce: è ancora lì che ride, il bastardo. Già. Forse non è necessario trovare l’uscita, forse le pareti non sono così spesse. Ne scelgo una e vi batto contro con entrambi i pugni, colpisco ancora e ancora fino a tingerla di rosso.
«Papà, sono qui!» grido. «Papà!».
Poi qualcosa picchia dall’altra parte. Dall’esterno, una mano si apre un varco. Ne affiora un’altra, entrambe afferrano le mie e mi trascinano fuori. Libero? Sono libero! Guardo il mio salvatore.
«Sei nuovo!».
È un golden retriever che tira papà per l’estremità della giacca e poi si allunga a lambirgli il viso, lì su quel maledetto ponte.
«Vieni con me» dice. «Col tempo li libereremo tutti, ma adesso corri, dobbiamo andare ad aiutare gli altri».
«Gli altri?» domando incredulo.
Gli altri. Il calore della doccia dopo il primo giorno in officina, lo sguardo complice della cuoca in mensa, la stretta di mano energica del nuovo vicino di casa.
Prendo il mio posto tra loro. Non siamo più soli, papà. Non sei più solo.
Chiudo gli occhi e ascolto quella maledetta risata svanire.
«Fate spazio, ci sono anch’io!» si unisce a noi un nuovo arrivo: la telefonata di uomo buffo dall’altro capo del mondo.
Ci scambiamo uno sguardo d’intesa, formiamo un cerchio e ci prepariamo alla lotta.
C’è ancora speranza.