Racconto di Giuseppe Borrelli

(Prima pubblicazione)

 

“Si signora, è a condensazione, questa caldaia si lavora i suoi stessi fumi di scarico e li ricicla; così il risparmio di metano è notevole, in pochi mesi ne avrete ammortizzato il costo”.

Marta guardò la caldaia agganciata al muro della sua nuova casa, poi si rivolse al tecnico impegnato nelle operazioni di installazione.

“È sicuro che sia questo il punto giusto per piazzarla?” chiese lei.

“Sicuro signora – replicò, subito, il tecnico guardando in alto il grande balcone sopra le loro teste.  – Deve stare in un luogo aperto, ma deve essere protetta dalle intemperie. Sotto a questo balcone è il luogo migliore, protetta dal Sole e dalla pioggia”.

Marta concordò con l’analisi del tecnico e, sospirando, si girò a guardare le file degli alberi di arancio e limone, dei quali il grande giardino della sua nuova casa era pieno.

Gli alberi da frutto, gli olivi e le vigne erano, al contempo, sia il panorama visibile che gli unici vicini di casa della signora Marta Serio.

Erano passati otto mesi dalla sua udienza di separazione.

Suo marito, un californiano, pilota di aerei di linea, aveva, un bel giorno, deciso di mandare all’aria il loro matrimonio e di frequentare una dirigente della sua compagnia; di nazionalità norvegese.

Marta aveva capito già molto tempo prima, però, che di sentimentale nel loro rapporto c’era rimasto ben poco.

La relazione di Marta Serio e di Randy Smith, nei suoi ultimi tempi, era fatta di pochi incontri saltuari, tra un volo e l’altro, e di poche parole.

La loro separazione era stata però, più serena del loro stare insieme.

Randy era ricco, non solo per i 300mila euro annui che percepiva dalla compagnia aerea; ma anche per le molte proprietà americane che aveva acquistato dalla madre, mentre era sposato con Marta in regime di comunione legale dei beni.

Conti alla mano, allora, tra la liquidazione della quota, per rinunciare a ogni diritto su tali immobili, e quasi 100mila euro annui di mantenimento per il loro figlio quindicenne Luca; Marta aveva un conto in banca notevolmente consistente.

Con un quarto della somma erogata dall’ex marito, allora, lei aveva deciso di mettere in azione la sua laurea di agronoma e di aprire una azienda agricola.

La trentanovenne romana aveva, quindi, acquistato un grande cascinale che un tempo era stata una casa colonica, nelle campagne di Marino, nei pressi di Roma.

Un posto meraviglioso e tranquillo, a pochi minuti da Castel Gandolfo e dal Lago di Albano.

La casa aveva ben poco di colonico, però, in quanto grazie ai fondi della regione Lazio, i precedenti proprietari, l’avevano adibita ad agriturismo.

Solo che una volta arrivati i soldi dei contribuenti, e terminati i faraonici lavori all’immobile; i proprietari non ne avevano voluto sapere proprio niente della vita bucolica e campestre, ed avevano prontamente messo in vendita la proprietà a dieci volte il suo precedente valore.

Una truffa ai danni dei contribuenti, perfettamente legale ed alla luce del sole.

Marta aveva acquistato immobile e terreni ed era felice della sua scelta.

La casa era grande e spaziosa, proprio come quelle di una volta, ed era immersa nel verde dei suoi 9 ettari di campagna.

Il muro di cinta, il grande cancello all’entrata del cascinale, poi, rendevano la dimora sicura e riservata.

Le pareti esterne dell’edificio erano di pietra viva e cemento, mentre gli interni erano nuovi e lussuosi.

I precedenti proprietari, poi, avevano fatto installare, sempre a spese dei contribuenti laziali, dei pannelli solari, seppur fosse presente la linea di corrente pubblica, oltre ad un pozzo con pompa meccanica ed autoclave.

Il tutto a rendere il casolare ancora più autosufficiente e confortevole.

Marta riemerse dai suoi pensieri e guardò in alto verso il balcone.

“Luca, la smetti di giocare davanti a quel computer? Lo vedi che bella giornata? Perché non vai a fare una passeggiata?”

Dal balcone e dalla porta-finestra della sua camera, Luca, seduto davanti al suo pc, rispose a voce bassa: “ Passeggiata? Bluah!”.

Era dal mattino, infatti, che il ragazzo attendeva con ansia l’arrivo di un messaggio di posta elettronica.

Voleva sapere se il suo racconto rientrava tra quelli inseriti nell’elenco delle opere che avrebbero partecipato alla serata di gala di un concorso letterario che si sarebbe tenuto in provincia di Lucca.

Il gran finale del concorso “Occhi nella Notte”, dedicato al genere “Fanta-Horror” , al quale Luca aveva partecipato con il suo racconto: “ Ruma il Vampirata ”, con il sottotitolo: “  I Seguaci della Fiamma Nera ”.

La storia del capitano Ruma Worstein, e della ciurma di pirati del vascello pirata “Verama”; i quali vennero tutti maledetti per aver sconfitto dei cannibali caraibici, devoti ad un antico Dio pagano e furono, perciò, condannati a diventare dei vampiri.

Vagando per i 7 mari come dei vampiri-pirati, quindi, o, appunto, come“Vampirati”; Ruma e la ciurma del Verama, da perfetti antieroi dal profilo “borderline”, non rinunciavano alle loro scorribande, e ad aiutare i più deboli, tra una bravata e l’altra.

Fiduciosi, un giorno, di poter ritrovare la “Gemma di Khatun”, la quale messa di riflesso incontro alla luce del primo mattino, avrebbe ridonato loro la umanità perduta.

Il giovane scrittore era fiero della sua opera.

Ma il ragazzo quindicenne che ancora si annidava in fondo alla sua anima, nutriva sempre un latente velo di malinconia.

Luca, ormai, non ci pensava più a suo padre…

Lo aveva sempre visto poco.

Sin da bambino, non aveva mai potuto passare molto tempo con lui.

Il suo accento strano mentre parlava in italiano, la sua pretesa che il figlio dovesse parlare in inglese; quelle valigie sempre messe lì, vicino alla porta, quei continui saluti prima di partire e quei regali, sempre meno appropriati, ad ogni ritorno.

Luca, da piccolo, pensava che suo padre Randy fosse un astronauta, e che pilotasse un’astronave che andava su Marte.

Lo aveva raccontato, pieno di orgoglio, anche alla maestra della prima elementare.

Poi i viaggi su Marte erano diventati sempre più lunghi ed i ritorni sempre più brevi.

Luca non aveva mai potuto parlare con suo padre, anche quando aveva un problema o quando ne aveva bisogno per un consiglio.

Fino a quando non aveva capito, ascoltando i discorsi concitati e frustrati della madre con zia Carla, che suo padre aveva un’altra relazione in America, con altri due figli nati da questo rapporto extraconiugale.

Era cresciuto praticamente senza un padre, Luca.

Certo non gli mancava nulla, la loro condizione economica era agiata, e sua madre era sempre stata straordinaria; ma Luca aveva, in ogni momento, un piccolo senso di vuoto, dentro.

Il giovane scrittore sbuffò, riemergendo dai suoi pensieri, si stiracchiò e decise che era venuto il momento di alzarsi.

Si diresse verso la cucina, uscendo dalla sua stanza e superando il corridoio che divideva le due camere.

Luca ebbe nuovamente una sensazione di avvertire il rumore di persone che parlavano a bassa voce.

Sentiva quelle voci ogni volta che stava per entrare in qualche stanza.

Questo avveniva sin da quando, poche settimane prima, erano arrivati nella nuova casa.

Poi, una volta entrato nella stanza, quelle voci sparivano; tanto che il ragazzo aveva ormai determinato la convinzione che si trattasse di rumori provenienti dall’esterno, tipo versi di uccelli o gatti, e che lui interpretava come un vociare.

Ancora una volta, infatti, non appena entrato nella camera, Luca notò che quel brusio scomparve.

Il giovane non ci prestò molta attenzione, prese dal freezer il cono gelato, purtroppo per lui di soia, a causa delle manie salutiste della madre, e decise di scendere in giardino a godersi la splendida giornata di sole.

Luca non vide la mail che era appena giunta sul suo pc, altrimenti forse si sarebbe insospettito per il fatto che la commissione, dopo aver letto il suo scritto, stava venendo a casa sua per conoscerlo di persona…

Comunicando che sarebbero arrivati da Lucca, solo, intorno alle 21.

Luca scese le scale diretto verso il grande androne di ingresso della casa.

Si freddò!

Vide una figura incappucciata entrare nella seconda stanza a destra dell’androne: la grande sala da pranzo!

Il gelato gli cadde a terra.

Rimase per un attimo senza respiro.

Il suo cervello lavorò freneticamente per elaborare l’immagine che aveva visto o che gli era parso di vedere.

Non riusciva a comprendere se si fosse trattato di una figura materiale e reale o se fosse una qualche forma di evanescenza impressa sui suoi occhi dalla luce intensa dell’androne.

Tenuto conto, poi, delle molte ore passate nella penombra della sua stanza.

L’unico modo per verificare quale fosse la soluzione giusta, era scendere ed andare a vedere nella sala se ci fosse o no qualcuno.

Ma gli tremavano le gambe.

Si aprì la porta dell’androne.

Luca trasalì.

Entrarono due persone.

Erano sua madre Marta ed il tecnico della caldaia.

Si diressero proprio sulla seconda stanza posta alla loro sinistra: il salone del pranzo.

Marta chiese al figlio cosa stesse facendo li, imbambolato sulle scale, ma Luca non riuscì nemmeno ad articolare il linguaggio.

Voleva dire loro di fermarsi, di non entrare, ma non riuscì ad emettere nessun suono.

Sua madre ed il tecnico entrarono nella sala.

Luca aspettava di udire cosa sarebbe accaduto.

Ma non accadde nulla.

La madre Marta ed il tecnico continuarono tranquillamente a parlare delle condutture del metano e dell’aria nei termosifoni.

Luca prese il suo gelato in terra, ancora incartato, e scese le scale.

Entrò nella sala da pranzo.

Effettivamente non vi era nulla di strano.

Nella grande stanza c’erano solo loro, le due finestre erano chiuse dall’interno, tra l’altro erano chiuse anche le grate in ferro.

Luca comprese che nessuno poteva essere entrato in quella sala, perché da lì non vi era modo di uscire, senza essere visti.

Il ragazzo cominciò a riflettere sull’immagine che aveva visto.

Ripercorse con la memoria ogni immagine e sensazione che aveva vissuto poco prima sulle scale.

Il gelato, la luce del grande androne, le scale e… poi quell’immagine sfocata impressa sulla pupilla del suo occhio destro.

Una figura evanescente, appena intuita con la coda dell’occhio.

Un passaggio fugace ed immediato, una andatura spedita di un corpo che non pareva nemmeno avere essenza.

Un alito di vento, immediatamente svanito non appena Luca si era girato nella sua direzione.

Ripercorrendo ciò che era successo Luca dubitò di aver realmente visto qualcosa.

La sua attenzione venne, quindi, rapita da quanto stava dicendo il tecnico alla madre.

“Fate bene, signora, ad avere queste grate cosi doppie alla finestra, qui vicino c’è il campo degli zingari. Ma quelli non sono zingari normali. Fanno cose strane…”.

Mentre Marta chiuse la porta di casa, dopo aver pagato e salutato il tecnico, si trovò a sorridere mentre rifletteva su cosa fossero, per quella persona gli “zingari normali”.

Poi, però, rivide l’espressione dell’uomo quando aveva detto che i gitani del campo vicino a loro, facevano “cose strane”.

Quel tizio credeva davvero in ciò che diceva, era realmente preoccupato.

Marta tornò indietro, aprì la porta e controllò che il cancello in fondo al giardino fosse chiuso.

Lo era.

E non ci pensò più.

 

 

Era buio.

Il bosco circondava la casa colonica.

Quel luogo tanto arioso ed accogliente di giorno, rigoglioso di alberi e di una natura pulita ed incontaminata, ora pareva un’unica grande ombra che insidiava la casa colonica di Marta e Luca.

Edificio, questo, che si stagliava in quella landa oscura di segreti antichi e celati, come ultimo bastione e baluardo di presenza umana.

Una fortezza per proteggere le certezze della modernità, da un epoca lontana e perduta.

Quando la notte si impossessava dei boschi, ed antiche voci riecheggiavano tra le fronde degli alberi.

Testimonianze di remoti passaggi e di storie dimenticate.

Quando solo il fuoco era luce e dimora di chi si trovava, nottetempo, nel dominio delle ombre degli alberi.

Qualcuno aveva ricordo di quel passato.

Il loro fuoco non poteva essere visto, perché sommerso dagli alberi.

Di notte il fumo non poteva scorto.

Le loro voci erano lontane da altri esseri umani.

I loro canti e le loro danze si perdevano in quel luogo remoto.

Giungevano da un tempo antico.

Erano un groviglio di corpi e di anime.

Uno spettacolo morboso che nessuno doveva vedere.

Un tributo alla Notte.

Un fuoco che non brillava per le loro anime ed una invocazione alla oscurità che li avvolgeva.

A quella Terra lontana e perduta.

Quando nessuno chiamava loro Zingari.

Quando essi erano “Luri”.

Quando, sotto la Luna, loro suonavano il Liuto.

Per Lei.

La Rana.

Nessuno può pronunciare il suo nome.

Altrimenti gli spiriti dei morti, gli antichi della loro stirpe, divenuti guardiani, maledicono chi compie tale blasfemia.

Ma in una notte come quella, in un luogo come quello; i “ Mulè”, gli spiriti, danzavano con il loro popolo.

Ed il suo nome poteva essere adorato.

BHEKA.

La Rana.

Dea della Notte.

I loro Padri la pregavano nelle steppe sterminate.

Quando la notte era fredda e buia.

Dundra, la Luna li guardava dall’alto, ma non si curava di loro.

Loro erano soli, nella notte; ed alla notte chiedevano mercè.

Loro suonavano per Lei.

E Lei era compiaciuta.

Come in quella notte.

Lei era lì, danzava con loro.

Da tanto tempo non si danzava sotto la Luna, da tanto tempo non si pronunciava il suo nome.

Perché tutti loro, erano stati già giudicati e condannati per i loro credi.

Nessuno tra gli zingari voleva più avere a che fare con loro.

Li avevano allontanati ed avevano detto loro di non volerli più vedere.

Privati di ogni rapporto e sostegno da parte delle altre comunità che credevano in Devel, il Dio buono, suo figlio Tikno, e Santa Sara, la Vergine Nera.

Ma Bheka aveva parlato.

Aveva parlato alla sua HaligaGagja, alla sua santa donna, la più vecchia e potente del campo.

Questo credeva la HaligaGagja, e seppur la sua età fosse veneranda, non si era domandata per quale ragione la sua stirpe, per millenni, avesse proibito di pronunciarsi il nome della Rana.

Perché ci sono invocazioni, litanie ed evocazioni che si propagano come radiazioni.

Onde sonore che travalicano confini che dovrebbero rimanere inviolati.

Ci sono aderenze nell’Infinito che non dovrebbero mai collidere.

Luoghi infinitamente lontani, alieni, appartenenti ad una natura diversa.

Dimensioni distaccate da quel che noi chiamiamo realtà.

Eppure fluttuanti nel nostro medesimo spazio.

Celate da un velo di diversa sostanza e condensazione.

Occupanti lo stesso spazio, ma materialmente ininfluenti ed inesistenti l’una per l’altra.

A volte, però, preghiere e canti troppo intensi sono come fari nel buio.

Finestre aperte tra gli Infiniti Abissi.

Squarci di differenti realtà che si fondono in un piccolo luogo.

E qualcosa può entrare.

Qualcosa che sente e che ricorda un suono antico e remoto.

Un richiamo conosciuto.

Che in un tempo dimenticato portò via con sé, la sua progenie.

Rivivendo quella privazione, Lei segue la luce di quei canti insani.

L’aria, allora, si incendia.

Esplode.

La gente cade in terra.

Urla.

Lei è qui.

Bheka.

La Rana.

E’ qui!!.

E rivuole indietro la sua stirpe.

La sua progenie che, eoni prima di lei, aveva compiuto lo stesso viaggio.

Senza mai più tornare.

Fu così che 125 zingari, ripudiati ed esiliati da tutte le altre comunità gitane per i loro credi antichi e vietati, divennero un banchetto.

Dopo la luce intensa e lo scoppio, le persone non videro più nulla.

Infatti non c’era nulla.

Fino a quando l’aria non cominciò a ruotare in un punto, posto a pochi metri dal fuoco, in direzione del bosco.

Il vortice di aria improvviso, dopo poco si arrestò.

E l’aere cominciò a ondulare.

Era una scena insensata ed innaturale.

Poi, anche l’ondulamento dell’aria cessò.

Ed innanzi agli zingari attoniti e gelati dal terrore, a circa un metro e novanta dal suolo, nell’aria vuota, dove non c’era nulla, si aprì una fauce spaventosa.

Una fauce senza un corpo.

Una bocca enorme aperta nell’aria.

Solo i denti brillavano di una intensa luce violacea.

All’interno della bocca si poteva scorgere la profondità considerevole del suo stomaco

Emise un grido spaventoso.

Il tanfo che promanava da essa era mefitico.

Ed iniziò il pasto.

Bheka.

La Rana.

Come un immenso squalo invisibile che nuotava nell’aria, fagocitò uno ad uno i suoi adoratori, con una indicibile e famelica ferocia.

Le loro grida disperate si persero nella notte.

 

 

Nel vialone che portava all’ingresso della casa colonica, una vecchia Fiat Panda di colore rosso si era fermata proprio davanti al cancello.

Scesero due uomini ed una donna, erano cupi e infastiditi.

Nella mail del pomeriggio avevano detto che sarebbero arrivati lì alle 21, provenienti da Viareggio.

Erano quasi le 23.

Le difficoltà per trovare il posto erano state molte.

Ma ora erano lì.

Ed avevano voglia.

Voglia di soldi, di droga, di sfogarsi e, perché no, di sangue.

L’idea era buona, simulare un concorso per giovani scrittori su internet.

Fare versare loro la quota.

Poi dire che aveva vinto un tal dei tali, e buonanotte.

Erano sei anni che Rodolfo Ianno, Sonia Bruti e Silvio Miceli, raccoglievano soldi e rapinavano case, grazie al concorso “ Occhi nella Notte”.

Erano pregiudicati, tossicomani e, nel tempo libero, adoratori di Satana.

Ed avevano trovato un’occupazione.

Una proficua occupazione.

Andavano a trovare i concorrenti… a casa loro.

Quelli più promettenti dal punto di vista reddituale, ovviamente.

Se si trovavano in città, entravano, imbonivano e si facevano dare soldi.

Se si trovavano fuori città; salutavano e, poi, ripassavano più tardi per rubare in casa.

Ma ora la scena era perfetta.

Casa lussuosa, sperduta in aperta campagna.

Stasera avrebbero fatto il botto.

Soldi, preziosi e tutto quello che c’era.

E, magari, era meglio non lasciare testimoni.

Quando bussarono parlarono con Marta, e spiegarono di aver perso tempo a trovare la casa.

Marta si meravigliò dell’ora tarda, ed espose le sue perplessità circa il fatto che le pareva strano che fossero venuti da Viareggio per incontrare suo figlio.

Ma Luca non ne voleva sapere.

Loro erano gli organizzatori del concorso, e dovevano entrare.

Così fu.

A Sonia Bruti non pareva vero, di trovarsi in una casa così grande e bella.

Già pregustava l’ammontare del gruzzolo.

Rodolfo Ianno e Silvio Miceli, invece, non potevano credere di trovarsi in casa, in un luogo sperduto, con una bionda da schianto come Marta Serio.

I tre criminali non riuscivano a smettere di sorridere, nemmeno mentre salivano le scale in direzione della stanza di Luca.

Marta era rimasta nella seconda cucina, al piano terra, a preparare dei drink.

Luca accese il computer e predispose la stampa del suo racconto.

Gli organizzatori dovevano leggere il racconto per iscritto.

Ma mentre lo faceva, lo scrittore quindicenne, non potette fare a meno di notare i tatuaggi dei suoi sedicenti giudici.

C’era un campionario di prim’ordine, in tema demoniaco-stregonesco-esoterico.

Stelle a cinque punte rovesciate con simboli all’interno, croci rovesciate, nomi del Maligno scritti in molte lingue.

Luca dava peso a certe cose.

Molto peso.

Si cominciò a preoccupare.

Soprattutto per sua madre.

Cominciò a valutare gli sguardi compiaciuti e le battutine ammiccanti dei tre intrusi.

E realizzò quanto stava per accadere.

Disse che i fogli nella stampante non bastavano, e che doveva scendere a prenderli.

Scese per le scale, incontrò la madre che stava salendo.

Le fece posare il vassoio con i drink in terra.

“ Mamma ce ne dobbiamo andare!”.

“ Perché Luca che succede?”.

“ Niente per ora, ma qui è pericoloso”.

“ E dove andiamo? Hanno la macchina davanti al cancello”.

Luca alzò lo sguardo verso l’androne della casa, ed il suo respiro si fermò.

Lo vide di nuovo.

Fu meno di un attimo, ma lo vide e questa volta ne era sicuro.

La figura incappucciata fece un fugace passaggio, ancora in direzione della grande sala da pranzo, verso destra.

Luca ebbe un’intuizione.

Prese la madre per la mano e scese di corsa verso quella stanza.

Da sopra gli intrusi cominciarono a chiamare prima, e poi presero a scendere le scale.

Marta e Luca entrarono nella grande sala da pranzo.

Luca si guardò intorno, fino a che non notò qualcosa, in fondo, sulla destra, sul muro portante.

La parete composta di mattoni di tufo antichi, ridipinti in un moderno color pietra, era leggermente aperta sulla sua estremità sinistra, vicino all’ultima delle finestre.

Era difficile da scorgere, ed infatti quella apertura non c’era mai stata prima di allora.

Luca si diresse verso la parete.

Avvicinandosi, anche Marta si rese conto della leggera insenatura. Sembrava una porta, con le pietre di tufo che sporgevano “ a zig zag”, sul suo lato destro.

Luca aprì la porta ed entrò nel buio trascinando la madre con sé.

Richiuse subito la porta, la quale si incastrò perfettamente, congiungendo le pietre sporgenti con la parete, e non lasciando più nessuna traccia visibile della sua esistenza.

Gli intrusi arrivarono di corsa nella stanza.

“ Sono entrati qui!”, urlò Sonia.

“ E dove sono? “ chiese Silvio, correndo a vedere le finestre: ” Sono chiuse”.

“ Sono scappati fuori!”, gridò con forza Rodolfo, correndo verso l’uscita, seguito dai suoi due complici.

Luca fece illuminare il display del telefonino.

Si accese una piccola luce.

Erano su un pianerottolo.

Poi c’erano delle scale, ma il telefonino le illuminava solo per pochi gradini.

Il luogo era vecchio, molto vecchio.

C’erano polvere e ragnatele.

Marta si aggrappò alla parete opposta a quella alla quale erano entrati.

“ Come usciamo di qua, Luca?”.

Luca si guardò intorno fiducioso, ed indicò alla madre una grossa maniglia metallica sulla porta.

Marta si tranquillizzò.

“ Chiama i carabinieri”, chiese la donna.

“ Non c’è segnale qui”.

Poi un ruggito spaventoso.

Delle urla strazianti.

Luca e Marta gridarono.

Dal giardino giungevano della grida colme di terrore, e dei rumori, a dir poco, spaventosi.

Marta afferrò la maniglia, ma Luca la bloccò.

“ Restiamo qui” ansimò disperatamente il ragazzo, così che la madre convenne che fosse la cosa migliore da fare.

“ Che sta succedendo Luca? Perché siamo scappati? Perché siamo qui? Come sapevi di questa porta nascosta?”.

“ Mamma ho sbagliato a farli entrare, sono gente pericolosa”.

“ Sì ma ora che è successo? Quelle grida venivano dal giardino?” chiese Marta.

“ Forse hanno lasciato il cancello aperto, può essere entrato qualche lupo, o qualche orso” rispose il figlio.

“ Li ha sbranati?” domandò la donna.

“ No, saranno scappati via” replicò Luca.

“ Come facciamo a chiedere aiuto, da qui?”, chiese Marta.

“Non lo so, mamma.”, piagnucolò Luca.

“ Va bene, Luca” concluse la madre, sforzandosi di voler mostrare al figlio di avere i nervi saldi: “ Resteremo qui per un po’, aspetteremo che le cose si calmino, poi usciremo; quei tre saranno scappati via, pensando che abbiamo chiamato i carabinieri, e quell’animale lì fuori, prima o poi, se ne andrà.”

Luca non era molto convinto, ma non potevano restare chiusi su quel pianerottolo per sempre.

Il ragazzo guardò le scale, ma subito si tolse dalla testa di scendere con sua madre in quella profonda oscurità.

Passarono alcune ore.

Marta e suo figlio, con circospezione, aprirono la porta nascosta, con passo leggero e con la paura di dover ripiegare immediatamente nel luogo posto dietro la parete della sala da pranzo; guadagnarono l’uscita dell’androne.

La porta era appoggiata allo stipite.

Si diressero sulla sinistra della casa, per raggiungere il garage e la loro Renegade.

Non prestarono attenzione al fatto che la Panda fosse ancora davanti al cancello, spostata sulla sinistra, in un posto scuro dove non poteva essere scorta.

C’era tanto sangue.

Brandelli di esseri umani.

Membra dilaniate.

Vestiti straziati.

Marta si bloccò dal terrore.

Luca terrorizzato, senza parlare, strattonò la madre per farla continuare verso la loro Jeep.

Qualunque cosa fosse successa lì, ora dovevano fuggire.

Fuggire via, senza esitazione.

La loro attenzione venne, però, distolta da uno strano fenomeno.

In direzione del muro di cinta e del cancello.

L’aria cominciò a volteggiare.

Poi a ondulare.

Ed infine, una bocca enorme si spalancò nel vuoto, dinanzi ai loro occhi!!

Emise un ruggito ed un tanfo spaventosi.

Era solo una enorme bocca, nell’aria, e null’altro.

Dietro di essa si poteva scorgere distintamente il muro!

Era troppo per un essere umano.

L’orrore gelò le loro anime.

Non riuscirono nemmeno più a gridare.

Non potettero fare neanche un passo.

Anche se respiravano ancora, Luca e Marta erano rigidi ed immobili come fossero già morti.

Eppure la bocca spaventosa non ruggì verso di loro.

La fauce senza un corpo, ringhiava verso un punto posto ad una quindicina di metri sulla loro destra.

Si girarono.

E se avessero potuto gridare, se avessero avuto ancora una spilla di fiato, lo avrebbero fatto.

A circa sei metri dal muro della casa, c’era… in piedi un monaco incappucciato!

La bocca nell’aria caricò con una furia selvaggia.

Lo spostamento d’aria fu colossale.

Tra la polvere sollevata, Luca ebbe la sensazione di scorgere l’essere che stava dinanzi a loro.

Sembrava un elefante gigantesco, ma aveva la testa e le zampe come una enorme e spaventosa rana.

La fauce nell’aria raggiunse il monaco.

Lo inghiottì con ferocia.

Ma sembrò perdere il controllo dei suoi movimenti.

Il mostro invisibile non controllò più la sua spinta.

Non si fermò.

L’impatto fu devastante.

Sembrò che un camion si fosse abbattuto a velocità sostenuta sulla casa.

L’edificio colonico era solido ed imponente, ma sembrò che stesse per crollare.

Solo lo spostamento d’aria del colpo fece cadere a terra Marta e Luca.

Il muro, nel punto dell’impatto, era quasi crollato.

Luca si rialzò prontamente da terra, la polvere si diradò, ed il ragazzo si accorse che nel tratto della parete, interessata dall’impatto… adesso… l’aria sanguinava!!.

Dal nulla fuoriuscivano frotte di sangue violaceo.

Mentre sul terreno si era formata l’impronta di una sagoma enorme; e, tutt’attorno ad essa, ora, si stava letteralmente riempiendo di sangue viola.

Luca e Marta alzarono lo sguardo.

Il Monaco era lì.

Esattamente dove si trovava quando era stato caricato dal mostro.

Come se la bocca nel vuoto lo avesse letteralmente attraversato, e non trovando appoggio e consistenza nel morso, non aveva arrestato la sua spinta, ed aveva perso l’equilibrio schiantandosi contro la casa.

Luca intuì che quella figura, allora, per essere ancora lì in piedi, non doveva avere alcuna materiale sussistenza.

Era solo un’immagine.

Era un fantasma! Uno spettro!

Attraversato dal suo assalitore invisibile, senza conseguenza alcuna.

Il Monaco si girò verso di loro.

Madre e figlio rimasero in silenzio.

Poi si diresse verso il muro della casa.

Non si fermò nemmeno davanti alla parete.

Marta e Luca non videro bene ciò che accadde, perché le lacrime di terrore avevano annebbiato i loro occhi.

Il Monaco era scomparso.

Non c’era più!

Luca emise un labile piagnucolio.

“Grazie”.

Dopo di che aiutò la madre ad alzarsi.

Claudicando, allora, i due aprirono il garage, avviarono l’auto, e lasciarono quei luoghi

Mentre le prime luci dell’alba rischiaravano il buio di una notte di sangue, Marta e Luca, presero la strada per Roma.

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