Racconto di Chiara Moltoni

(Prima pubblicazione – 5 gennaio 2019)

 

Erano stati imbarcati su di un’ambulanza talmente diroccata da scongiurare lo sfondamento del sedile ad opera del peso dell’autista, un infermiere grande e paffuto, un naso avvinazzato e una bocca esangue come una tagliatella in astinenza da un corposo ragù di salsiccia.

A farli salire sul mezzo – divisi in piccoli gruppi, a seconda dei ceppi e della destinazione finale – il cui interno odorava più di cioccolato rancido che disinfettante, un secondo uomo, medico, adesso in piedi sul retro, di fronte agli portelli spalancati, un lungo camice bianco in linea con gli zigomi scavati, sollevati grazie a chissà quali fili nascosti, collegati alla spazzola di una fitta rete di capelli grigi germogliati da un cranio a forma di pera.

Fu proprio quest’ultimo a dire: – I più infettivi si tengano pronti a scendere alla prima fermata – come se a cinguettare fosse stata l’unghia a becco del suo dito indice, puntata verso quattro poveracci alti come un bambino di due anni, un collare stretto a un corpo informe di uno sgargiante color lime, arroccati uno sull’altro in una gabbia addossata verso il fondo del mezzo.

Oltre al piazzale di asfalto crepato, nel bel mezzo del quale l’ambulanza aveva stazionato per circa mezz’ora, battezzando ogni ciuffo d’erbaccia con il ventaglio onnipotente del lampeggiante, solo un circolo di minacciose nuvole basse. L’avvicinarsi di un galoppante roboare mostrava una variegata criniera di fulmini.

– Presto! – esortò con voce squillante il medico, dopo essere stato colpito in piena cervicale direttamente da un tuono.

Sbatté gli portelli, raggiunse l’abitacolo dal lato passeggero, prese posto e fece segno all’autista di partire.

Non fu facile, per quest’ultimo, mettere in moto. L’autunno inoltrato stava ormai aprendo senza alcun ritegno le cosce alla rigida mazza invernale e la batteria tossiva già da un po’ una secca mancanza d’acido e antigelo.

Dopo quindici tentativi e una qualche preghiera non ascoltata (che la puttana del tuo lurido sifone di un buco di culo rimanga gravida di un lercio plotone di sputi!), l’ambulanza partì, giusto l’attimo prima che una grossa goccia colpisse il seccume dei tergicristalli.

Il mezzo lasciò lo spiazzo imboccando una strada laterale.

Nessuna sirena ruppe il tunnel di case e silenzio tipica dell’imbruttire di una periferia affollata da spaccio ed escrementi. Si sentì solo una gelida pioggia cominciare a battere il suo tamburo infernale.

I quattro pneumatici scivolarono sul ferro di griglie e tombini per un paio di isolati, fino a stridere dinanzi a un cancello a metà di un marciapiede giallo di foglie.

L’autista scese. Si rifugiò sotto una pensilina lasciando il motore acceso. Pigiò il bottone di un citofono incastonato in un pilastro di cemento grezzo sotto la lapide di una scritta: Ultima Spiaggia, Residenza per Anziani. Aspettò che partisse l’automazione del cancello, risalì al posto di guida, si inoltrò all’interno della cancellata, imboccò una ripida discesa e si infilò in un magazzino.

Spade di luci al neon illuminavano un cunicolo spoglio, al fondo del quale c’era la bocca chiusa di una porta scrostata; porta che si aprì in quel mentre e da cui uscì un tipo aggrappato a un mazzo di guinzagli. L’ambulanza si fermò. Infermiere e medico si tuffarono fuori dall’abitacolo. Quel posto puzzava di gasolio e pollo bollito.

– Buonasera dottor Salvezza – bofonchiò il tipo, regalando ai due un sorriso macchiato di carie.

Il dottore rispose: – Dobbiamo muoverci, quest’anno siamo già in ritardo, stanno crescendo a una velocità mai vista prima.

Fece un cenno verso il retro, si diresse al cospetto degli sportelli e quando li aprì un lieve trambusto resuscitò dal vano.

– Eccoli! – disse, indicando verso la gabbia sul fondo – Ne abbiamo in consegna quattro tra i più virulenti. Sono nati dalla famiglia di un nuovo ceppo. Basterà lasciarli lavorare ventiquattr’ore e vedrà che bel proliferare di polmoniti! Con quattro virus grandi e grossi come questi, non c’è vaccinazione che tenga: finalmente libererete un sacco di letti.