Racconto di Luisa Di Tolla

(Prima pubblicazione – 21 dicembre 2018 – repliche 21 giugno 2019– 21 giugno 2021)

 

Lamberto era stanco. Si trovava ai piedi della scalinata che dal Viale dei Colli conduceva alla chiesa di San Miniato al Monte. La leggenda narrava che fosse addirittura la preferita di Dante e Michelangelo. Guardò con apprensione la lunga serie di gradini che l’avrebbe portato in cima e si apprestò a salire. Il sole stava quasi per raggiungere lo zenit e il caldo opprimente, così inconsueto nel mese di giugno, lo fiaccava terribilmente. Alle pesanti condizioni climatiche, si aggiungeva lo stress accumulato negli ultimi mesi. Lavorava troppe ore al computer e soffriva d’insonnia. Ad appesantirlo, contribuiva peraltro anche la sua corporatura. Era un uomo alto quasi un metro e novanta, robusto, il ventre e i fianchi arrotondati da una leggera pinguedine. Dopo i primi quindici scalini, i capelli ricci e disordinati, un po’ lunghi sul collo, erano già bagnati di sudore. Sulla camicia blu, che portava a maniche lunghe anche d’estate, in corrispondenza delle ascelle, si stavano formando larghe chiazze scure. Stava salendo velocemente nonostante fosse, come sempre, in anticipo all’appuntamento. In tarda mattinata, alle 13.30, come tutti gli anni, si sarebbe tenuta la consueta visita guidata presso una delle più antiche e misteriose abbazie di tutta Firenze. Un fascio di luce, entrando dal rosone della facciata anteriore, avrebbe colpito il segno del Cancro nella rappresentazione dello zodiaco marmoreo, incastonata nel pavimento della navata centrale, annunciando in tal modo il solstizio d’estate. Il tutto non sarebbe durato più di qualche minuto, ma era uno spettacolo talmente affascinante che, ormai da alcuni anni, richiamava gruppi di appassionati. Fra costoro rientrava a pieno titolo anche Lamberto: nonostante lavorasse come informatico, era laureato in storia medievale e aveva compiuto studi sulla città di Firenze. Era scontato che non si sarebbe perso un evento del genere, neppure per tutto l’oro del mondo.

Sopra la collina, la chiesa si stagliava chiara contro il cielo turchese. L’aquila imperiale in rame, simbolo dell’Arte di Calimala, svettava in cima al frontone. I marmi bianchi e verdi della facciata risplendevano nella luce estiva. Nell’aria si avvertiva il profumo forte e pepato che emanava dal boschetto di cipressi, dietro la chiesa. In lontananza riecheggiava il canto insistente delle tortore, un lamento monotono e malinconico, quasi fastidioso.

Giunto in cima alla scalinata, Lamberto ansimava. Sentì un bisogno incontenibile di fumare. Si tastò la tasca posteriore dei jeans: per fortuna si era ricordato di portare con sé pacchetto e accendino. Percepì che raggi infuocati dardeggiavano pericolosamente la sua testa. Si guardò intorno, cercando un riparo. Il pergolato di gelsomino che cingeva la costruzione larga e bassa davanti a lui produceva una magnifica ombra. Vi si diresse quindi a grandi passi e si fermò davanti alla targa di marmo, all’ingresso della farmacia gestita dai monaci olivetani. Stette per qualche secondo a godersi la frescura, poi, con un gesto goffo, sfilò una sigaretta, l’accese e aspirò avidamente la prima boccata, quasi come fosse ossigeno. Mentre fumava, la testa leggermente piegata di lato, prese ad osservare le persone che si trovavano nel piccolo piazzale antistante la chiesa.

Uno sgargiante gruppo di giovani americani, in gita di piacere, stava parlando a voce alta e frequenti scoppi di risa interrompevano bruscamente la pace e la tranquillità del luogo. Una bambina di tre o quattro anni era seduta sul selciato della chiesa, giocando con qualche sassolino, mentre la mamma la sorvegliava attentamente a poca distanza.

Finita la sigaretta, gettò a terra il mozzicone e lo spense schiacciandolo con la punta della scarpa. Poi si girò e si mise a guardare distrattamente gli oggetti esposti nella vetrina del negozio. Dato che era ancora presto, decise di entrare per dare una rapida occhiata all’interno. Mise la mano sul pomello tondo della maniglia e lo girò. Il morbido suono del campanello avvertiva il monaco farmacista che un cliente stava entrando in bottega. Il locale, ben illuminato, era piccolissimo e ospitava le tipologie più disparate di oggetti: negli stretti scaffali erano alloggiati pacchetti di caramelle, bottiglie di liquori, segnalibri, rosari. Qualcosa di scintillante attirò immediatamente la sua attenzione: disposte in bella mostra sul ripiano destro vicino all’ingresso, alcune riproduzioni di antiche monete medievali, i fiorini d’argento. La faccia anteriore mostrava il simbolo della città, il giglio fiorentino; sul lato posteriore invece era raffigurato il patrono di Firenze, S. Giovanni Battista. Sul retro della scatola, un’etichetta riportava il periodo storico nel quale erano in corso: “Fiorino piccolo o picciolo, anni 1324-1327, zecca di Firenze”. Appagato dalla visita e rinvigorito dal fresco, Lamberto uscì dal negozio e si avviò verso la chiesa. Nel frattempo, un piccolo gruppo di persone accaldate e impazienti si era radunato sul sagrato, aspettando l’arrivo della guida turistica. Un giovane uomo sulla quarantina, alto, magro e occhialuto aveva appena svoltato l’angolo che dalla porta antica immetteva nel piazzale della chiesa. Era la guida che stava avanzando di buon passo verso i visitatori. Arrivato, salutò e si presentò, invitandoli a seguirlo all’interno. Anche Lamberto si unì a loro. Una volta entrati, Simone – così si chiamava la guida – si posizionò nei pressi dello zodiaco marmoreo e iniziò la sua spiegazione. Il brusio prodotto dal chiacchiericcio sommesso dei visitatori cessò immediatamente. Il pubblico si fece più attento appena udì che erano giunti in un luogo magico e misterioso. La scelta stessa di costruire l’edificio in quel preciso sito nel 1018, non era stata affatto casuale e l’iscrizione nel pavimento, posta accanto allo zodiaco, ne era l’emblema. Essa custodiva il segreto della “Porta del cielo”, un luogo dove il corpo si spiritualizzava e lo spirito si materializzava, una sorta di transito che permetteva il passaggio fra il mondo terrestre e quello celeste. “Hoc fecit condere Joseph – ergo rogo Christum quod semper vivat in ipsum – retinent de tempore morte – 1207”, ovvero: “Giuseppe fece realizzare quest’opera. Dunque prego Cristo di prendervi per sempre dimora. (In questo spazio sacro) il tempo e la morte perdono il loro potere – 1207”. Fino dai tempi più remoti, la conoscenza dell’uomo derivava in gran parte dalla sua strettissima relazione con la Natura. Consapevoli di vivere immersi in un profondo movimento di potenti flussi energetici, gli antichi avvertivano che in luoghi particolari della Terra le forze telluriche e cosmiche sembravano vibrare all’unisono e che, una volta intercettate, avrebbero permesso all’uomo di sconfiggere il tempo e la morte. Simone proseguì, precisando che anche la data astronomica era sovraccarica di potenza magica, perciò la congiuntura in cui si trovavano era particolarmente favorevole al verificarsi di eventi straordinari.

Il solstizio d’estate infatti era venerato da quasi tutte le civiltà della storia e in molte parti del mondo. In quel preciso momento dell’anno, il Sole, simbolo del fuoco, entrava nel segno del Cancro, elemento d’Acqua, dominato dalla Luna. Così, secondo l’immaginario, due forze opposte e complementari, Sole e Luna, Fuoco e Acqua, Luce e Ombra, Maschio e Femmina, Positivo e Negativo si fondevano nell’Uno, il principio creativo, in una sorta di “matrimonio divino”. Simone quindi aggiunse che la dualità apparteneva intrinsecamente al cosmo nel suo complesso e che il solstizio estivo aveva come elemento contrario quello invernale. I due fenomeni astronomici, che incessantemente scandivano l’alternanza delle stagioni, venivano anch’essi chiamati “porte”. In base a tale esegesi, il concetto di porta acquisiva una forza energetica inesauribile, svelando il suo significato arcano di varco spazio-temporale tra mondi opposti. Un mormorio serpeggiò tra i visitatori e sui visi di alcuni si dipinsero espressioni di vivido stupore. Lamberto rimase profondamente colpito dalle parole della guida. Pensò che avevano molto in comune con la dottrina che tanto lo appassionava, la teoria della reincarnazione, e con i principi filosofico-religiosi sui quali si basava. Era convinto che, nel mondo, ogni essere vivente, compreso l’uomo, fosse immerso nel ciclo temporale di morte- rinascita, in un eterno divenire che annullava la distinzione fra passato e presente.

La voce della guida lo distolse dalle sue riflessioni. Simone, parlando dell’interno della chiesa, sottolineava il fatto che si presentasse in modo alquanto inusuale: il punto di vista dello spettatore convergeva sopra la grande cripta del sagrato, dove sorgeva la cappella del Crocifisso, una raffinata edicola marmorea. Lamberto ricordava di aver letto che, nel 1488, Piero de’ Medici aveva affidato la sua costruzione al famoso scultore Michelozzo. Poi la guida passò all’illustrazione della simbologia solare presente nel mosaico che rivestiva le pareti del grande catino absidale. Dopodiché, tacque e guardò l’orologio. Erano quasi le 13.53: lo spettacolo luminoso stava per iniziare. Lamberto cominciò a sentirsi stanco, per cui decise di mettersi a sedere. Come nelle storie della creazione, all’inizio fu solo penombra. Un monaco furtivo e silenzioso si accinse a chiudere il portone della basilica, poi si avviò verso l’edicola e spense le luci. Un chiarore diffuso iniziò ad entrare dal rosone centrale. In pochi secondi, si concentrò in un raggio di luce e percorse la tarsia marmorea, fino ad arrestarsi per qualche minuto, con precisione estrema, sul segno del Cancro. Lamberto lo seguì con lo sguardo e fu come ipnotizzato da quello sfavillio abbagliante. Ad un tratto, si sentì invadere da una sensazione remota e ineffabile: le sue membra si stavano intorpidendo, il respiro si faceva sempre più lento e profondo. Mentre le percezioni sensoriali si stavano pian piano dissolvendo, la sua mente fluttuava in uno stato di calma assoluta, totalmente svuotata da ogni pensiero. Gli sembrò di essere scivolato in una realtà illusoria, nella quale gli oggetti diventavano completamente privi di sostanza: si ritrovò immerso nel nulla, nel senza-tempo.

La chiesa era buia. Solo un piccolo candelabro rischiarava con luce fioca il mosaico dorato che faceva da sfondo all’altare. Lamberto si guardò alle spalle, per essere sicuro che nessuno lo avesse seguito fin lì. Per paura di far tintinnare le monete nella scarsella appesa alla cintura, si avvicinò cautamente alla parete destra, illuminata dalle candele e, quasi all’altezza della porticina che immetteva nel monastero, cercò a tentoni nella pietra la protuberanza, sapendo che avrebbe dato accesso ad un piccolo nascondiglio. Dopo qualche tentativo andato a vuoto, la trovò. Spinse la pietra sporgente e intravide un piccolo vano. Da sotto l’ampia guarnacca, tirò fuori il manoscritto arrotolato, che aveva gelosamente custodito negli ultimi tempi. Sapeva che, se fosse finito in mani sbagliate, avrebbe potuto provocare danni di enorme portata, non solo agli abitanti della città, ma forse del mondo intero ed egli, in qualità di giudice al servizio del Podestà, non avrebbe mai potuto permetterlo. La formula chimica contenuta nel manoscritto valeva una vera fortuna, poiché avrebbe consentito di creare un’arma di una potenza mai conosciuta prima, una strana polvere nera, a base di carbone, nitrato di potassio e zolfo. Per entrarne in possesso, i suoi nemici erano stati capaci di qualunque malvagità, anche la più atroce. Posò quindi il rotolo nel vano nascosto e tirò la pietra verso di sé, per chiudere l’apertura. Un’ombra sgusciò furtiva da dietro una colonna e si avventò subito contro di lui. Lamberto con una spallata si girò di scatto e con il peso del suo corpo spinse il nemico contro il muro, serrandogli la gola con le mani. L’uomo, nonostante non fosse molto alto, aveva però una forza sovrumana e con un rapido movimento riuscì a divincolarsi. Si trovavano quindi uno di fronte all’altro. Quasi contemporaneamente, misero mano alle rispettive spade, ma Lamberto dopo alcuni colpi, fulminei e ben assestati, ebbe la meglio: la sua arma squarciò di netto la gola del nemico. Il cadavere ora giaceva in una pozza di sangue, ma il manoscritto era salvo. Aveva bisogno di riprendere fiato. Nonostante fosse durata solo qualche minuto, la lotta l’aveva messo a dura prova, perché, ormai da tempo, non era più abituato a maneggiare le armi. Si avviò verso una panca a metà fila e, vinto dalla stanchezza, si accasciò. Mentre sentiva le palpebre farsi pesanti, notò che la scarsella contenente i denari aveva subìto uno squarcio nella colluttazione e che una moneta era scivolata per terra. Poi scivolò nel vuoto della perdita di coscienza.

Si riscosse di colpo da quello stato di torpore, con la vaga sensazione di aver sognato. Spossato dal caldo e dalla stanchezza, probabilmente si era addormentato. Si guardò intorno e, vedendo che la chiesa era ormai vuota, dedusse che doveva essere molto tardi. Stava per alzarsi e procedere verso l’uscita, quando un intenso luccichio, proveniente dal pavimento, colpì il suo sguardo. Osservando attentamente, si accorse che il bagliore proveniva da una piccola moneta. Si piegò in avanti e la raccolse da terra. A prima vista, sembrava proprio la riproduzione fedele del fiorino d’argento, il souvenir di Firenze venduto dal negozio dei monaci. Pensò che qualche turista distratto l’avesse perso in chiesa dopo l’acquisto. Si mise la moneta in tasca e si alzò dalla panca, avviandosi verso l’uscita. Mentre stava camminando lungo la navata, ad un tratto, frammenti nitidissimi di ricordi cominciarono a riaffiorare nella sua mente, quasi richiamati da quello sfolgorio. Come in una pellicola al rallentatore, rivide se stesso nascondere qualcosa nella fioca luce della chiesa e repentinamente combattere a colpi di spada con uno sconosciuto. Si sentiva inquieto, turbato: emozioni contrastanti si agitavano in lui. Tutto gli pareva assurdo, inverosimile e, al tempo stesso, reale, concreto. Per un attimo Lamberto fu pervaso dallo smarrimento, ma in breve recuperò la lucidità abituale e decise di scacciare via quelle inutili elucubrazioni. Rivolse quindi il pensiero alle incombenze quotidiane che lo avrebbero occupato nel tardo pomeriggio.

Uscito dalla chiesa, iniziò a scendere i gradini dello scalone che immetteva sul viale. A metà scala, si fermò di colpo. Nel ricordo c’era qualcosa che non quadrava, un particolare che mancava e che invece – ne era sicuro – avrebbe dovuto esserci. Ciononostante, in quel momento non riusciva assolutamente a metterlo a fuoco. Fece un grosso sforzo e si concentrò. Con gli occhi della mente, visualizzò la scena: rivide l’interno della chiesa, le panche di legno disposte su due file, l’altare al quale si accedeva salendo alcuni gradini, lo splendido mosaico dorato. Era di nuovo teso e inquieto. L’occhio destro si contrasse involontariamente in un piccolo tic. Come aveva fatto a non averlo notato subito? Davanti all’altare c’era uno spazio vuoto: dov’era l’edicola marmorea? Perché non era al suo posto? I pensieri cominciarono allora ad accavallarsi in un frenetico turbinio. Cercò di riflettere su quale potesse il motivo di tale stranezza. Ripensò a Piero e alla commissione dell’opera a Michelozzo: la data di costruzione dell’edicola risaliva al 1448, dunque, metà del XV secolo. Improvvisamente, un’altra immagine si riaffacciò alla sua memoria: nella farmacia dei monaci aveva letto che la data di conio della moneta d’argento risaliva al 1324-1327. Non avrebbe saputo spiegare in quale modo, ma, fidandosi del suo istinto, intuì che i due particolari erano collegati fra loro. Inspirò profondamente e lentamente, più di una volta. Doveva rimanere lucido e considerare attentamente la questione. Il particolare della moneta datava la sequenza del duello al massimo al 1327: era quindi perfettamente logico che in fondo alla chiesa non fosse presente l’edicola marmorea, dato che era stata costruita quasi un secolo più tardi. Nonostante la calura, sentì un brivido di freddo che gli attraversava la schiena. Ripensò alle parole della guida: Simone aveva sottolineato che il luogo e la data favorivano il verificarsi di eventi eccezionali, aprendo varchi temporali fra passato e presente. Un’idea folle gli balenò in testa: e se fosse esistita anche una sola, seppur remota, possibilità che tutto quindi fosse realmente accaduto?