Racconto di Brillante Massaro

(Seconda pubblicazione)

Illustrazione di Alfio Albano – olio su tela

 

La sveglia suona alle sette, non ti va di alzarti. Ti accoccoli tra le coperte e pensi che devi farlo. Gusti il sapore di quei pochi minuti rubati agli altri: al lavoro, alla famiglia, ai doveri. Ma li riguadagni per te. Sono tutti tuoi, pochi minuti che ti permettono di ritrovarti. Minuti magici che ti raccontano, immagini che attraversano per qualche secondo la tua mente ma che lascerai lì, imbrigliate nelle lenzuola.
Sai che stai per cedere al richiamo del giorno che reclama la tua presenza.
Cedi.
Ti alzi.
Apri lentamente l’armadio. Ora iniziano le fatiche della giornata! Che cavolo ti metti? Passi in veloce rassegna i vestiti ammassati, intanto ti rammarichi di essere una di quelle che non butta via niente. Ti riprometti di buttare via tutto quello che non metti più ormai da tempo e fare un po’ di spazio.
T’infili la prima cosa che ti capita sotto mano e decidi di concederti uno shopping.
Fare shopping è la cosa più faticosa e stressante che ti possa capitare.
Prima devi vincere l’abulia, la voglia di non fare, perché c’è pur sempre una voglia, fosse anche quella di non lasciarsi sconvolgersi dalle voglie, poi devi deciderti a uscire.
In strada lanci sguardi distratti alle vetrine .
Sono sempre le solite, mai qualcosa di nuovo, o meglio fin troppe cose nuove: modelli ultimo grido, di quelli che se non fai almeno un paio di anni di dieta manco ti ci puoi avvicinare. Lo sai, e non hai voglia di entrare. Poi ti ricordi che sei uscita apposta, riapri mentalmente le ante del tuo armadio alla ricerca di qualche capo di abbigliamento ancora usabile che ti eviti lo strazio delle compere. L’operazione fallisce, ti decidi ed entrare.
Vaghi tra gli scaffali, intravedi da lontano la commessa che sta precipitandosi su di te e intuisci che sta per vomitarti addosso un “le posso essere utile”, l’anticipi dicendole che vuoi dare solo uno sguardo, anche perché come faresti a spiegarle che è difficile che lei possa esserti utile in qualche modo, dato che neanche tu riesci ad essere utile a te stessa? Scegli, dopo un’accurata selezione, quello che pensi ti possa stare meno peggio e chiedi dov’è il camerino.
Entri.
Lentamente ti spogli.
Ti rendi subito conto che sarebbe stato meglio un incontro ravvicinato del terzo tipo piuttosto che vedere la tua immagine spiaccicata lì sull’ impietoso specchio ad una distanza così ravvicinata da chiederti: ma sono io? Il tutto condito con una glaciale luce al neon che certo non aiuta ad ammorbidire le linee del tuo corpo!
Continui a spogliarti e ti accorgi che stai per andare alla scoperta di un mondo sconosciuto: il tuo.
Volti la faccia dall’altra parte e completi l’operazione, indossi la gonna che vorresti comprare e ti rendi conto che oggi è proprio tutto cambiato. Non ci sono più le taglie di una volta, una volta una 44 aveva una ben precisa identità, era una 44, oggi è una 44 in crisi, malata di anoressia (la commessa dice che in effetti è come se fosse una 42 la cosa ti consola ma non risolve il problema).
La gonna tira da tutte le parti, non riesci ad immaginare come possa stare bene a chicchessia, senti il tuo corpo costipato come in uno schiacciapatate e più cerchi di tirare su la cerniera, più lui deborda. E mentre ti vivi la drammatica scena che richiederà una dose supplementare di dolcini per essere metabolizzata, la commessa è lì fuori come un avvoltoio e prima ancora che tu esca, ti chiede al di là della porta: come va? Tu vorresti risponderle di farsi i fatti suoi, ma reprimi l’istinto primordiale e le comunichi che non va. Lei però non demorde e rigirando sadicamente il coltello nella piaga ti lancia un “è stretta?” mentre tenta di fare capolino per accertarsi che tu non stia dicendo una cavolata .Ti armi di pazienza e le comunichi che è stretta. Lei si precipita a prenderne una più grande. Eppure è donna dico io, dovrebbe sapere che una donna prima di accettare un cambiamento di taglia si farebbe tagliare un dito, non ci vuole una grossa fantasia, né una particolare predisposizione per la psicologia, basterebbe imparare dai vissuti quotidiani. A questo punto c’è l’unica scappatoia possibile: no, è il modello che non va.
Qui anche le commesse più ostinate, solitamente demordono.

Ormai sei in riserva, le già residue energie stanno per evaporare, esci dal negozio più avvilita di prima. Ma non ti dai per vinta! Entri in un altro negozio, scegli qualcosa che con un po’ di fortuna potrebbe anche andare e ti infili nel camerino. Deo gratias non c’è lo specchio, la luce è sempre la solita, accecante e fredda. Ti spogli velocemente, ti infili il pantalone che hai scelto e cerchi disperatamente di tirare su la cerniera. Finalmente ce la fai. E adesso? Adesso devi uscire da quel fottutissimo camerino e andare a guardarti nello specchio. E la cosa più tragica che ti possa capitare è quella di offrire l’immagine del tuo corpo ad altri prima di averla in qualche modo “controllata tu”. Ormai sei lì, pensi. Ti decidi ad uscire allo scoperto, con passi furtivi ed incerti raggiungi lo specchio. Intanto ti guardi in giro nella speranza, vana, che nessuno faccia caso a te, cerchi di fare la disinvolta, ti dai una accomodata ai capelli che tra l’infila e sfila vanno per i fatti propri. Arrivi allo specchio. Ti guardi e capisci subito che non va, non fai neanche il tentativo di girarti un po’ di sguincio per vedere come ti fa il culo.
Scappi subito.
Rientri nel camerino, guardi i tuoi vecchi indumenti stropicciati, te li infili con cura.
In fondo loro sì che ti rassicurano, da loro non ti aspetti nulla.

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