Racconto di Osvaldo Farsella

(Seconda pubblicazione – 9 aprile 2021)

 

 

La vecchia casa padronale di colore grigio smorto stava abbarbicata sulla collina, era una casa singolare, non aveva nulla di una comune casa di campagna, le tante finestre dalle spesse imposte di legno erano sempre chiuse, ma quello che più la rendeva cupa era la grossa protuberanza che stava sul tetto, una enorme soffitta dalla forma trapezoidale che con il tetto di ardesia nera gli rendeva un aspetto sinistro. Noi ragazzi eravamo incuriositi ma non osavamo affrontare il lungo viale alberato che portava alla casa, le tante leggende che i vecchi del paese ci raccontavano sulla vecchia casa della collina ci avevano così impaurito che nessuno di noi aveva il coraggio di arrampicarsi lungo il viale alberato. Qualcuno raccontava che la casa era abitata solamente d’estate da una vecchia signora, altri dicevano che la casa era infestata da chissà quali mostri. Mia nonna mi raccontava nelle lunghe sere d’inverno le storie delle “masche” andavo a dormire con la certezza che sotto il mio letto c’era una “masca” pronta a prendermi. Un altro anno passò ed io compivo undici anni e una sera d’estate con due amici decidemmo di salire alla casa, avevamo tutti paura ma baldanzosi con le nostre biciclette, fedeli amiche delle vacanze estive ci avviamo lungo il viale alberato, il buio era totale e le deboli luci dei fanali delle biciclette creavano una striscia giallastra che rendeva tutto ancora più pauroso. Arrivammo in cima alla collina senza incontrare anima viva, lasciammo le biciclette e ci avvicinammo a piedi, improvvisamente la casa ci apparve nell’oscurità, ma quello che ci sorprese era vedere attraverso le spesse imposte delle finestre una debole luce sulla soffitta segno che nella casa qualcuno ci viveva. Ci avvicinammo con cautela ma una robusta cancellata ci impediva l’accesso, Lino disse – io scavalco e cerco il cancello – mentre provava ad arrampicarsi sentimmo il suono di un pianoforte, una melodia dolcissima e triste, durò pochi istanti, un enorme cane apparve nel buio, Lino saltò via veloce mentre il cane emetteva un brontolio, fuggimmo a rotta di collo e recuperate le nostre biciclette partimmo a razzo. Tornato a casa mio padre mi chiese perché ero così sudato e pallido, gli dissi che avevamo fatto una corsa e che ora ero stanco, andai a dormire e quella notte feci sogni paurosi, diavoli neri che cercavano di afferrarmi, un grosso cane che mi voleva mordere e quella melodia dolcissima e triste. Il mattino successivo attesi con ansia che il nonno finisse la colazione e gli domandai qual era la vera storia di quella casa sulla collina, il nonno mi sorrise e si accese il solito mezzo toscano, aspirò una boccata di fumo e disse – quella casa è molto vecchia, il proprietario era un conte e qui in paese nessuno mai lo vide, era un tipo solitario, i vecchi raccontavano che nelle notti di luna piena la casa prendeva vita ed era tutta illuminata, grandi feste, tanta gente che ballava davanti ad un falò acceso, ma nessuno vide mai il fuoco, io non ci sono mai andato perché non mi interessa e tu fai come me. – Un po’ deluso da quella spiegazione dissi che la sera precedente eravamo saliti e che avevamo visto una finestra illuminata e sentito qualcuno che suonava al pianoforte, ma eravamo scappati perché un grosso cane ci aveva spaventati a morte. Il nonno mi guardò serio e disse – follie e stupidaggini da ragazzini – e tornò ad occuparsi di altre faccende.

Gli anni passarono ed io divenni adulto la casa c’era sempre ma la mia vita era cambiata, mi ero sposato e la nostra prima figlia aveva quattro anni, il lavoro era al centro della mia vita ed i pensieri della gioventù erano scomparsi per lasciare posto alla severità della vita adulta.

Cambiammo casa e anche città ma ogni tanto tornavo al paese, i nonni erano morti e i miei genitori erano anziani ogni tanto restavo da loro a dormire, abitavano in un brutto condominio che aveva il pregio di trovarsi davanti alla casa della collina che ormai non si vedeva quasi più ad eccezione di una piccola porzione del tetto dove un’imposta staccata dal muro pendeva nel vuoto lasciando un buco nero trasparire dalla finestra spalancata. Passarono gli anni e i miei genitori ormai troppo vecchi per restare da soli così prendemmo la decisione di vivere con loro in quell’alloggio ormai troppo grande. Una notte non riuscivo a dormire, era inverno ma uscii sul balcone, quella casa mi affascinava ancora e con enorme sorpresa vidi che la finestra della soffitta illuminata da un piccolo lume che dopo qualche secondo scomparve, stavo per rientrare quando nel silenzio della notte sentii quella melodia dolcissima, ero certo che era un pianoforte. Tornai a letto con il proposito di andare a visitare la casa, ma il lavoro me lo impediva, il giorno successivo avevo un appuntamento di lavoro a Milano. Stavo invecchiando e quando mia figlia si sposò io avevo cinquantasei anni, i miei genitori erano morti entrambi e noi andammo ad abitare nella loro casa dopo averla ristrutturata, a mia moglie piaceva quel posto di fronte alla collina con le montagne sullo sfondo e nessuna casa davanti. Nella notte mi alzavo ed andavo sul balcone a guardare la vecchia casa sulla collina, un enorme pino ne copriva la visuale ma tendendo l’orecchio sentivo alcune note di una melodia bellissima che si perdevano nel buio della notte. Divenni nonno e finalmente cessai anche di lavorare ed ora avevo uno scopo scoprire chi abitava nella casa sulla collina. Mia moglie sapeva che mi alzavo durante la notte e mi chiese che mai andavo a fare sul balcone, dissi che non riuscivo a dormire e che mi piaceva guardare la vecchia casa sulla collina, così gli raccontai tutta la storia, lei si mise a ridere e disse che ero un eterno ragazzino. Mia nipote Francesca aveva ormai sei anni e la portavo spesso con me a fare lunghe passeggiate; un sabato gli dissi – oggi andiamo alla casa sulla collina, sai ho quasi settanta anni e non ci sono mai andato- Francesca non era tanto convinta ma mi seguì e partimmo senza dirlo a mia moglie. Quando arrivammo all’imbocco di quello che una volta era un viale, ormai il bosco aveva ricoperto ogni cosa e del bel viale con i tigli restava solo un piccolo sentiero. I tigli erano avvolti dall’edera che li stritolava, facendo attenzione a non ferirci con i rovi arrivammo alla casa, la cancellata era arrugginita e divelta in più punti, entrammo nel cortile e mi sembrava di essere tornato bambino, però non c’era nessun cane ad assalirci, solo il silenzio ci circondava. Francesca mi disse – nonno andiamo via, ho paura di questo posto. La casa era in completo decadimento, alcune imposte erano cadute a terra e i vandali avevano rotto tutti i vetri, rimasi colpito nel vedere l’imposta dell’ultimo piano che pendeva nel vuoto e la finestra spalancata, durò pochi attimi ma sentimmo entrambi le note di un pianoforte, Francesca mi guardò e disse – che bella musica nonno, chi la suona? – risposi prendendola in braccio – non lo so, ma è il Notturno di Chopin –

Passarono gli anni e ormai ero molto vecchio, una mattina fummo svegliati da un insolito rumore, motoseghe, andai a vedere e vidi che stavano ripulendo la collina, pian piano la casa tornava a farsi vedere, quella notte mi alzai ed andai sul balcone, attesi finché sentii ancora quella dolcissima melodia, durò per molto tempo e io l’ascoltai tutta. Qualche giorno dopo la casa fu abbattuta e anche per me arrivò la fine.