Racconto di Carmelo Modica

(seconda pubblicazione – 16 novembre 2020)

 

 

 

Silvia non si lasciò vincere. Con fredda parsimonia era riuscita a stemperare la sua lotta alle ruggenti volute del vento. Aveva dovuto chiudere la finestra. Fuori il silenzio addomesticato dallo scirocco che in un primo momento sembrò pretendere la guerra. L’avrebbe rasa al suolo se solo non avesse deciso di trionfare su di lui. Per questo prima aveva chiuso le imposte e si era riservata qualche minuto per guardare le luci del paese che smorivano in muta fibrillazione. Lo scirocco, quell’alito primordiale di mostro che teneva il mondo negli artigli avvicinandolo sempre di più alle fauci, le spegneva una ad una a suggellare la fine del giorno. E della notte.

Pino era entrato in silenzio.

“I ragazzi dormono”, disse mentre si toglieva le scarpe.

Silvia, stavolta, abbassò le serrande difendendo il suo mondo dalla fine del mondo.

“Si è alzato scirocco”, disse invece. E contemporaneamente aveva sollevato un muro alla telefonata di Sandra, alla sua voce che per la prima volta non apparteneva all’amica di liceo recuperata attraverso Facebook sul gruppo del burraco. No, Sandra quella volta l’aveva chiamata personalmente. Silvia aveva immaginato che l’avrebbe fatto la segretaria, la signorina di cui Silvia insisteva a guardare le unghie tutte di un colore tranne gli anulari e il brillantino incastonato in un canino.

Silvia aveva colto quell’affettato addestramento sul tono di voce, quel controllo fluido su una sua battuta alla quale era seguito un silenzio nervoso.

“Non vieni a letto?”

Pino non aveva messo il pigiama. Silvia sospettò fosse un invito speciale e se lo fosse stato non avrebbe rifiutato. Non questa volta.

Sapeva che avrebbe perso la guerra, glielo confermò uno sfiato di scirocco attraverso lo spiffero, antico come il paese, che si apriva sbilenco tra due assi di legno che non combaciavano. Glielo ricordò quell’alito di vento atterrato di sguiscio e morto un solo istante dietro le vetrate.

Questa battaglia è mia – pensò. Lasciò che lo scirocco si portasse il resto, che bruciasse tutto col suo alito caldo. Era certa, Silvia, che quella sera, traspirasse l’inferno.

“ Sei mesi”, aveva sentenziato Sandra. Aveva cancellato tutti gli appuntamenti e licenziato la segretaria solo per quel giorno.

“Sei mesi?” Non pensò al dopo Silvia. Si rese conto che era umanamente impossibile. Pensò solo alla sua famiglia.

“Sarebbe inutile operare.” Per un attimo la stupì la freddezza di Sandra, una freddezza che sembrava tuttavia nascere dalla volontà repressa di abbracciare l’amica e regalarle le sue lacrime. L’ammirò per questo.

Lo studio della dottoressa Alessandra Zanardi era all’ottavo piano. Silvia decise di fare le scale a piedi.

 “A Venerdì – disse –  Alle quattro. Per la partita. Siamo da me stavolta.”

Si mise a letto.

“Tua figlia insiste per il cane”

“Va bene”

“Va bene cosa?”

“Prendiamolo”

“Sicura?”

“Sì.”

Pino sospirò e finalmente raccolse l’invito di sua moglie suggellandolo con un bacio.

Silvia gli accarezzò le labbra. Coi polpastrelli. Poi, rivoltandoli, le sfiorò col dorso delle dita perché rimanessero per sempre da qualche parte oltre che sulla sua bocca.

Si dimenticò dello scirocco. Quella notte non l’avrebbe avuta vinta.