Racconto di Kenji Albani

(Sesta pubblicazione)

 

Frank aveva sempre pensato di poter fare magie, ma si sbagliava.

La squadra non era atterrata con il paracadute a Mosca, era entrata in Russia dal confine norvegese poi con delle macchine noleggiate a Borisoglebsky si erano avvicinati alla capitale. Non avevano nulla con loro se non dei passaporti norvegesi fasulli.

Le armi le avevano acquistate da un contrabbandiere della periferia della metropoli russa, strano a dirsi non avrebbero combattuto con equipaggiamento americano, ma nemico.

Presero posizione in un appartamento a un chilometro dal Cremlino.

Attesero.

Il marconista lo chiamò. «Signor tenente».

«Cosa c’è?». Frank lo raggiunse.

«Messaggio in codice dal Pentagono».

Frank lo lesse. Si immaginò che presto Mosca sarebbe stata ridotta a un campo di cenere, la pioggia nera, il vento che trascinava le radiazioni verso il resto d’Europa. «È il momento».

Si equipaggiarono alla guerra, scesero nel garage e gli inquilini del resto del palazzo si ritrassero atterriti.

Corsero alle automobili, si avviarono formando una colonna che si diresse verso il Cremlino.

La sorveglianza era stata aumentata, in precedenza Frank aveva visitato come un turista qualunque il complesso di edifici principeschi, fingendo di fotografare i cannoni cerimoniali aveva studiato come poter penetrare nell’alloggio di Putin.

Adesso era il momento di usare quelle conoscenze.

Una guardia all’ingresso li puntò.

Frank allungò una Udav munita di silenziatore e lo uccise.

Batté la mano sulla fiancata dell’automobile. «Vai, vai, vai!».

Il pilota accelerò.

Arrivò un manipolo di guardie, gli AKM che sembravano artigli di uno pterodattilo malefico.

Le automobili li investirono.

Altre guardie scatenarono la loro furia di fucili desiderosi di morte.

Un’automobile noleggiata sbandò, finì contro un albero. Frank vide sangue fuoriuscire dai buchi come se fosse petrolio.

La colonna sterzò, arrivò davanti all’alloggio di Putin.

Un gruppo di guardie in colbacco li accolse scatenando un paio di RPK.

Frank prese la mira, fece esplodere la testa di uno dei mitraglieri come un melone maturo. Aveva già ucciso, in Afghanistan e Iraq, ma stavolta uccideva per salvare il genere umano dall’olocausto atomico.

Altre raffiche tolsero la vita al secondo mitragliere.

La squadra si arrampicò sulle scale, camminarono su tappeti persiani, spazzarono via una difesa a colpi di granata.

Raggiunsero l’ufficio.

Frank si mise accanto alla porta, AKM in low-ready.

Il resto della squadra fece lo stesso.

Frank sfondò la porta con un calcio. Vide Putin con un paio di generali. Notò lo stupore sul volto dei gendarmi esente, invece da quello del Presidente.

L’ex agente del KGB sorrise. «Immaginavo sareste arrivati».

Frank gli puntò il mirino dell’AKM alla fronte.

Rimase imperturbabile. «Ogni uomo ha il suo prezzo». Gli occhi azzurri brillarono come opali. «Volete diventare ricchi come i miei oligarchi? Ormai i veri miliardari sono quelli russi, non… gli americani».

«Non sono disposto a vendermi». Frank crivellò di colpi i presenti.

Rimase il silenzio.

Controllò che Putin non avesse avuto il tempo di lanciare un ordigno nucleare tattico. No, nulla, erano riusciti a fermarlo appena in tempo.

Esfiltrarono dal Cremlino, la situazione poteva essere ancora pericolosa.

Un’ora dopo stavano fuggendo dalla capitale russa che il marconista strinse i denti.

«Cosa succede?» domandò Frank.

«Putin. Ha lanciato la bomba su Kharkiv».

«Non è possibile! L’ho ucciso, l’ho ucciso. Non può più fare del male a nessuno».

Il marconista gli mostrò il cellulare connesso su un sito all-news: “ASSASSINATO IL SOSIA DI PUTIN”.

Frank si sgonfiò. Nessuna magia, più.

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