Racconto di Domenica Tumminello

(Prima pubblicazione – 3 febbraio 2021)

 

 

Dalla fermata della corriera, alla casa dei nonni, la strada era lunga. Un’ oretta di cammino a piedi tra piccoli sentieri che attraversavano vigneti, campi coltivati, frutteti. Scorciatoie per abbreviare leggermente il cammino in quella calma innaturale, quel silenzio così profondo, una pace dell’anima che non ti faceva neanche venire il fiatone quando affrontavi piccole salite. Il profumo della natura, l’aria fresca della mattina, il rigoglioso e vivo verde della campagna ti davano la possibilità di ammirare un quadro reale, intoccabile, se non da chi se ne prendeva quotidianamente cura per vivere. Non vedevo l’ora di arrivare, io piccola bambina, innamorata dello zio Andrea, alto e bello come il sole.

Strada facendo si incontrava qualche contadino indaffarato che ci salutava muovendo una mano grossolana, fissandoci fino al nostro scomparire. Mamma conosceva tutti, nata e vissuta in quel paesino fino al suo matrimonio. Pochissime le abitazioni, sparse qua e là, ma tutte ben tenute, un caloroso piccolo presepe. Arrivando finalmente sul largo stradone, tutto di terra battuta, appariva la vecchia casa in pietra. Il pesante portone in legno era chiuso, ma sapendo del nostro arrivo la nonna lasciava sempre la chiave sotto al vaso vicino, nel caso fossero ancora nei campi a lavorare.

Nella vecchia cucina, la brace ardeva nel camino e un profumo di pane caldo mi faceva sorridere, la grossa pagnotta era ricoperta dalle foglie di castagno che nonna Teresa metteva sempre sopra all’impasto prima di mettere il tutto sulla calda brace, dentro ad un “testo” che aveva la funzionalità di un forno, il pane era sempre eccellente.

Quel piccolo paesino dell’entroterra ligure dal nome, che a me sembrava così buffo, Ne, era meta delle nostre vacanze e di tutte le feste che venivano a seguire fino a che i nonni sono rimasti in vita. Ricordo nonna, alta con i suoi abiti un po’ lunghi e larghi, tenuti in vita da un grosso grembiule dal tessuto pesante. Lo teneva sollevato quando arrivava dai campi, perché al suo interno un giorno erano verdure appena colte per il minestrone, un giorno era frutta e quant’altro. Le sue giornate erano dedicate alla pulizia della vecchia casa dove i pavimenti venivano sempre bagnati per non sollevare troppa polvere quando doveva spazzarli, erano in cemento e in tavole di legno. Doveva bagnare e pulire dalle erbacce l’orto, pulire stalle, galline, conigli, mungere le mucche. Fortunatamente nonna Teresa aveva l’aiuto di un’altra figlia, zia Carmelita, un personaggio particolare, di poche parole, solitaria e zitella, raramente ti faceva un sorriso ma comunque una gran lavoratrice.

Il latte veniva a ritirarlo alla sera con una vecchia ape e bidoncini in alluminio, una piccola parte ogni tanto lo teneva per fare il formaggio. Nonno Vittorio e lo zio Andrea, suo figlio, si occupavano dei lavori più pesanti; le vigne da legare o potare, le olive da battere, campi di patate da arare. Ma non mancavano anche lavori di manutenzione, muri o recinzioni da rifare, buche da ricoprire. Il lavoro non finiva mai. Una parte dei raccolti, come gli animali che allevavano, mucche, vitelli, maiali, venivano in parte venduti, anche l’olio e il vino. Non dimenticherò mai gli insaccati del nonno, troppo buoni, e i giorni in cui macellavano con l’aiuto dei contadini vicini, per loro era una festa ma io scappavo, mi nascondevo nella cascina della legna insieme a Lillo un cane fantastico, che, quando sentiva che stavamo per arrivare, ci veniva incontro lungo i sentieri e quando partivamo per rientrare a Genova ci accompagnava alla fermata della corriera e non si muoveva fin quando non eravamo saliti.

Zio Andrea sapeva dove e perché scappavo, così arrivava con pane e formaggio per consolarmi e farmi compagnia. Dopo un po’ riusciva a mettermi a cavalluccio sulle sue spalle e riportarmi a casa.

In quel breve tragitto immaginavo di essere su un bellissimo cavallo bianco trasportata in un mondo di favole dal mio principe azzurro. Mi sentivo una vera principessa ma ben presto tornavo alla realtà. Dopo avermi fatta scendere con una pacca sul sedere mi risvegliavo da quel mondo fantastico creato dal mio sogno di bambina.

Nel paese si conoscevano più o meno tutti; ricordo Giorgio, un omone sulla quarantina, con una folta e lunga barba, automunito che metteva a disposizione il suo mezzo uso taxi per accompagnare in città chi aveva bisogno, ad un modico prezzo.

I momenti più belli, trascorsi durante i miei brevi soggiorni dai nonni, erano le serate nella vecchia cucina. Anche in piena estate nonna accendeva la stufa, aspettando che la legna diventasse brace, si dava da fare con una pastella che poi distribuiva in piccoli testaroli e posava dentro la stufa, uno sopra l’altro, una volta cotta la condiva con pesto o formaggio o pomodoro o verdure cotte, il tutto da leccarsi i baffi. Nonno Vittorio si sedeva sempre sulla panca vicino alla finestra con il suo sigaro toscano e un buon bicchiere del suo vino. Era un uomo alto, dal fisico asciutto, muscoli ben definiti e irrobustiti dal suo lavoro manuale, il volto stanco ma sereno.

Io sempre in braccio a zio Andrea che mi coccolava, mi raccontava storie sui suoi animali e mi faceva il solletico. Qualche volta mi portava con lui a raccogliere le olive, a bagnare le verdure dell’orto e immancabilmente bagnava anche me.

Per loro non esistevano feste e riposo se non qualche banchetto, a fine giornata, insieme ad altri contadini quando venivano in aiuto per tagliare l’uva o raccogliere le olive.

La domenica mattina non mancavano mai alla S. Messa ed era l’unico momento che vedevo nonni e zii senza abiti sporchi di terra, scarponi o stivali ma in abiti della festa puliti e ordinati; ad essere sincera mi facevano un gran effetto, non sembravano nemmeno le stesse persone.

Dopo la funzione gli uomini si fermavano sulla piazza a chiacchierare, scambiarsi pareri o consigli ma il loro argomento era sempre il lavoro, i campi, gli animali. Ascoltavo e osservavo curiosa quei personaggi immaginando di vederli vivere nei boschi, tra enormi alberi che usavano come abitazioni, con falci e piccozze affrontavano vermi e parassiti per difendere le loro coltivazioni ma, per incanto, un raggio di sole e una polvere di stelle veniva in loro aiuto proteggendo il duro lavoro.

Tenuta per mano dallo zio Andrea si faceva ritorno a casa, avrei voluto che quel momento non terminasse mai. Tra tutte le feste, quella più attesa, per me, era il Natale. Ci riunivamo tutti a casa dei nonni, tra figli cugini e nipoti, eravamo un bel numero. Il grande tavolo in legno della sala vicino alla vecchia cucina era imbandito a dovere, nonna ci pensava parecchio tempo prima preparando apposite scorte. Non ricordo il classico albero di Natale ma svariate decorazioni che nonna e zia Carmelita preparavano il giorno prima con lunghi fili di spago dove infilavano rametti di olivo, ginepro, noci, alloro e poi arrivava nonno Vittorio che appendeva qualche fila di salame diventando motivo di discussione con nonna Teresa che lo trovava inadeguato e il loro discutere in genovese mi divertiva, erano buffi.

Passarono gli anni, nonna era venuta a mancare e nonno ormai vecchio e stanco non lavorava più nei campi. Tante cose erano cominciate a cambiare, io ormai ero una signorina. Zio Andrea aveva costruito una casa grande e confortevole, il lavoro era meno pesante con l’aiuto di qualche macchina agricola acquistata. I giovani studiavano o lavoravano in città. L’ orto e l’allevamento era solo a consumo personale, in pochi avevano continuato il lavoro degli anziani contadini anche se c’erano più mezzi per fare meno fatica. Le belle serate nella vecchia cucina non esistevano più. Ricordo che una sera, vedendolo stanco e invecchiato, chiesi allo zio se non rimpiangesse nulla della sua vita o cosa avrebbe voluto cambiare. La sua risposta fu ferma e precisa. Per niente al mondo avrebbe voluto una vita diversa, lui era felice. “Io dipendo solo dal tempo, dalle stagioni e dal clima. Mi arrabbio con la grandine con la pioggia e il freddo ma non mi danno l’opportunità di discutere, devo solo accettare”. Questa la sua risposta in un immenso e sereno sorriso.

La mattina seguente entrai nella casa di pietra. La casa delle mie favole, i sogni di una principessa, di un principe e del suo cavallo bianco. Il profumo di pane caldo.