Racconto di Simona Campanella

(Prima pubblicazione)

 

 

Carla sale in macchina, poggia la piccola tracolla e la borsa medica sul sedile del passeggero, quindi allaccia la cintura di sicurezza. Imposta sul navigatore l’indirizzo dell’ultima visita di dieci giorni di sostituzione del collega in ferie. Guarda il percorso colorarsi di blu nel reticolo di vie della mappa stradale. Il paziente aveva parlato di una villetta, poco fuori città, ma Google Maps indica 8 km.

Percorre i viali sorpassando le macchine per fare in fretta, arriva alla statale, la segue per cinque chilometri, sbirciando di tanto in tanto l’itinerario sul display del cellulare. Svolta a sinistra: via dei cipressi.

Si ritrova in una traversa in discesa, male asfaltata, con le buche che mettono a dura prova gli ammortizzatori della sua Panda bianca. Mentre continua a scendere, osserva sobbalzare – come in preda a un fastidioso singhiozzo – il portachiavi appeso allo specchietto retrovisore: un omino in camice bianco, lo tiene lì da quando si è specializzata in medicina.

Dopo pochi metri, la strada diventa stretta e scivolosa: ottimo qui sembra avere pure piovuto, pensa mentre aumenta la temperatura dell’abitacolo, infastidita da un freddo improvviso.

Procede lentamente: il declivio è tutto una curva, leggera ma interminabile. Aumenta ancora di un grado la temperatura. Siepi incolte sbucano dalle recinzioni e le impediscono di guardarsi intorno. Sporge la testa sul lunotto e alza gli occhi al cielo diventato grigio.

Il navigatore annuncia che la destinazione si trova a trecento metri e, in effetti, nota un cancello marrone aperto e arrugginito, alla cui destra è appeso un cartello di legno mezzo ammuffito con il numero sei scritto con un pennarello rosso.

La Panda supera il cancello e si fa strada sul viale coperto di fogliame putrido. Nelle aiuole, da una parte e dall’altra, solo siepi rinsecchite, alberi spogli, con rami spezzati che toccano la terra scura, rampicanti con foglie marce.

Tutto è abbandonato, freddo, morto.

In fondo al vialetto si apre uno spiazzo, costeggiato anch’esso da siepi malridotte, al centro del quale campeggia la sagoma nera di un edificio a due piani: sembra una vecchia casa patronale abbandonata. Non c’è nessun balcone, solo finestre con infissi di legno all’apparenza fatiscenti: le persiane del primo piano sono chiuse da tavole orizzontali, di legno, inchiodate; quelle del pian terreno sono aperte, alcune scardinate e penzolanti. Il portone di ingresso è di un colore marroncino sbiadito, un piccolo unico lampione acceso emette una luce fioca e gialla.

Carla posteggia l’auto davanti alla finestra più grande e malandata prende la borsa medica: le sue mani tremano leggermente; scende, esita mentre guarda un albero spoglio e minaccioso che incombe proprio dietro alla sua Panda: per un attimo pensa di spostarla, poi trafitta dal vento freddo che odora di marcio, si avvia all’ingresso stringendo il cappotto beige, senza trovare conforto.

Sfiora con le dita il legno ruvido e crepato, fa un ampio respiro, trattiene l’aria, stringe il pugno e bussa debolmente con le nocche.

«Dottoressa Lentini, è lei? La prego, entri, non riesco ad alzarmi dal letto» sente provenire da dentro.

Carla spinge la porta, che si apre, con un cigolio acuto, e rivela un atrio caldo e luminoso.

Rimane qualche attimo sulla soglia, a guardare l’interno della casa: il pavimento è di marmo bianco screziato, le pareti sono grigio chiaro con gli zoccoletti di legno bianco. Sulla sinistra c’è un tavolinetto con un grande vaso colmo di tulipani gialli: i suoi fiori preferiti: Fabio gliene aveva regalati a migliaia negli anni trascorsi insieme, l’ultimo mazzo la sera prima di essere ricoverato in gastroenterologia. Fabio, sospira, e quel ricordo, emerso dall’angolo remoto dove l’aveva relegato, le trafigge il fianco.

«Sono in camera da letto: prima porta a sinistra»: la voce maschile la riporta alla realtà.

Carla avanza, lentamente, disorientata, si guarda intorno: sulla destra, c’è una libreria di legno nero con la struttura di metallo argento, piena di libri, un giradischi pure di color argento, due casse grandi nere, una tv al led enorme, di fronte alla quale c’è un divano di tessuto grigio con cuscini grandi a righe bianche e nere e cuscini più piccoli, grigi, con margherite bianche ricamate. Quella sera in ospedale, lei vegliava il corpo oramai senza vita di Fabio, accovacciata sulla sedia di metallo, stringendo al petto lo stesso cuscino grigio dell’Ikea con le margherite bianche ricamate. Serra la mascella: di nuovo Fabio, che strano ricordarlo dopo così tanto tempo.

Si gira lentamente per chiudere la porta che, dalla parte interna, è imbottita di pelle: la fissa e poi lo sguardo è attratto da un cesto di vimini, pieno di ciliegie, posto su un mobiletto sotto una grande finestra. «Dottoressa, le ciliegie sono per lei, spero accetterà questo piccolo omaggio» dice l’uomo dalla stanza da letto. Carla ha leggero sussulto, poi sorride attratta dalle ciliege, si avvicina e istintivamente ne prende una, pregustandone il sapore dolcemente acidulo e la consistenza polposa. Quando le sue labbra toccano la ciliegia, il frutto le sembra scompaia. Lo cerca sul pavimento, vergognandosi di essere talmente ingorda da non aver avvertito che le è caduto dalle mani. Ma a terra non c’è nulla: si ferma incerta.

«Sono buone, sa, senza conservanti, direttamente dal mio giardino», prosegue la voce. Carla alza lo sguardo verso la finestra: i vetri sono puliti, immacolati, un raggio di sole penetra tra le fronde di un ciliegio rigoglioso e carico di frutti che spicca sulla terra marrone, perfettamente arata e pulita. Aiuole di fresie e tulipani costeggiano un cortile di mattoni di cemento e pietre con fughe di prato inglese, dove è posteggiata una Mercedes coupé bianca e nuovissima. Carla sgrana gli occhi: dallo specchietto retrovisore vede pendere un simpatico omino con un camice bianco: il suo.

«Dottoressa» la chiama l’uomo.

Trasalisce, ha l’istinto di fuggire via, poi si sente stupida: ha paura di cosa? Di una bella casa con un rutto giardino? Serra con le dita i manici della borsa, e procede, rigida, verso la stanza.

L’uomo è seduto sul letto, indossa un pigiama blu di buona fattura, abbottonato sul davanti.

Carla non saprebbe indovinare l’età: il viso è pallido e scarno, i capelli color argento, le labbra sottili, ma gli occhi, gli occhi sembrano quelli di un giovane: sembrano quelli di Fabio pensa sgomenta, cercando di rallentare il respiro.

«Grazie di avermi raggiunto. Purtroppo, la malattia mi impedisce di uscire», dice lui con voce docile.

«Nessun disturbo. Piacere di conoscerla, signor Rivetti», gli risponde, rifugiando lo sguardo dentro la borsa medica, che posa a terra e apre per prendere lo stetoscopio.

Respira profondamente: «posso sbottonarle un po’ il pigiama?», chiede gentile, recuperando un tono professionale. Indossa gli auricolari dello stetoscopio, si avvicina ad auscultare il cuore. Non lo sente. Riprova spostandolo un po’ più in basso: niente.

Sente il respiro che si ferma in gola panico che le risale alla gola, si sbarazza dello strumento. Mentre la sua mente si affolla di pensieri, prende la mano dell’uomo, gelida, e pone due dita sulla vena del polso. Rimane immobile sulle gambe instabili ad aspettare il primo battito per poi iniziare a contare, ma il battito non arriva.

Lascia bruscamente quelle dita esili, indietreggia, alza la testa a guardare il viso del paziente: morbidi ricci castani incorniciano un ovale disteso, labbra turgide disegnano un sorriso, e gli occhi la fissano. Carla si sente mancare. Non è possibile, non può essere: ora quello è il volto di Fabio.

Come un mare in tempesta, su di lei si abbatte il ricordo del suono dell’elettrocardiografo, delle infermiere e i medici che irrompono nella stanza, di mani che la trascinano via, di braccia che la riconducono sulla sedia accanto al corpo privo di vita, del funerale. Come può esserci Fabio lì, davanti a lei, in quella stanza? Perché questo pensiero ossessivo a Fabio oggi?

«Sei tu?» biascica con un filo di voce.

L’uomo continua a sorridere.

«Perché?» riesce a dire lei con un grido strozzato. «Perché sei qui?».

Il sorriso di Fabio si allarga, ma non c’è gioia nei suoi occhi: «perché mi hai ucciso» dice senza emozione.

«Avevi un male incurabile, lo avevo sognato. Saresti rimasto un vegetale!» grida disperata Carla, accasciandosi a terra di botto.

«E ti sembrava impossibile immaginare di aspettare che ciò accadesse, seduta su una seggiola di ospedale» continua lui distaccato.

Carla con aria supplice cerca il perdono negli occhi di Fabio.

«Volevo sposarti» piange scusandosi «comprare una bella casa, grande, con un giardino, e vivere per sempre con te»

«Lo so, cara. Per questo sono qui» risponde lui, mentre Carla sente sbattere e chiudersi a chiave, tutte le porte.