Racconto di Giulio Locascio

(Prima pubblicazione)

 

Quando anche l’ultimo avventore fu andato via, Anna spense lo stereo, uscì da dietro al bancone e andò a chiudere la porta del locale.

Nella penombra della sala non si accorse di una frase lasciata in sospeso, rimasta a mezz’aria, che le si infilò fra i capelli fastidiosamente. La tirò via gettandola sul pavimento, tanto di lì a poco avrebbe passato l’aspirapolvere.

E in effetti ce n’era proprio bisogno, il locale di sabato era sempre affollato ed anche quella sera i clienti erano stati numerosi. La sua collega aveva smontato dal turno a mezzanotte e adesso le toccava almeno un’altra ora di lavoro per sistemare le cose principali.

Infilò i guanti di gomma e armata di straccio e una spugna cominciò a fare il giro dei tavoli.

Sgomberò dai boccali e dai piatti sporchi, tirò via le parole più serie che erano rimaste attaccate come concrezioni marine fra gli aloni bagnati lasciati dai bicchieri e le mise in un sacchetto di plastica che si era legato in vita. Quello doveva essere il posto dove si era seduto l’assessore della Lega con un gruppo di suoi sostenitori, c’erano parole e frasi pesanti che erano scivolate per terra e formavano un bel grumo sotto le sedie.

Accanto, al tavolo da dodici dove alcuni ragazzi avevano festeggiato un compleanno, c’erano mucchi di canzoni colorate dappertutto, persino attaccate alle pareti.

Anna lavorava veloce, con la forza della stanchezza.

Per terra c’era di tutto.

Parole untuose e melliflue da adulatore, difficili da maneggiare, schifose, che si attaccano tra le dita e parole dure, taglienti, spinose, da prendere con i guanti spessi per non ferirsi.

Per aria, sopra la sua testa, discorsi di ragazzi, frasi leggere che erano volate sotto il soffitto e si erano impigliate come zucchero filato ai lampadari. Avrebbe dovuto prendere la scala e avvolgerle come ragnatele con lo scopettone per tirarle via.

E sparse dappertutto ce n’erano rosse di rabbia, o verdi di speranza, gialle e rosicchiate dall’invidia o nere di disperazione, parole sincere, limpide, trasparenti, da guardare come in un caleidoscopio colorato, tintinnanti e fragili, oppure false e scure come di piombo fuso.

Parole d’amore rosa fino a bisbigli osceni color porpora e tante bugie difficili da dipanare, intricate frasi che ne contengono altre all’interno, nascoste, oscure, pesanti e goffe da maneggiare.

Frasi sospese, ambigue, che si disfano al solo toccarle, fluttuanti, eteree come un vapore, impalpabili come talco, altre polverose, vecchie, stantie come di scorza, sugherose come di corteccia.

Parole di odio, disgustose, maleodoranti e nere marcite che parlano di malattia e di morte.

Quella era la parte della giornata che detestava, ma era lì ad aspettarla tutte le sere. Il sacco si era riempito rapidamente.

Prese l’aspirapolvere dal ripostiglio e incominciò a passare tra i tavoli rovesciandoci sopra le sedie a mano a mano che procedeva, cercando di non pensare a niente, ascoltando solo la stanchezza del suo corpo. Lavorava di buona lena, desiderosa soltanto di terminare e andare a casa.

Il locale apriva solo di sera, avrebbe avuto tutta la mattina successiva per lavare a dovere il pavimento e le stoviglie.

Si fermò un’istante, il fianco appoggiato a un tavolo, cercando di ricordare il motivo di una canzone che aveva in mente poco prima, ma non le riuscì.

Provò a raccogliere delicatamente senza romperle, alcune parole dolci da innamorati che si frantumarono in cristalli zuccherini appena le toccò.

Sospirando si avviò verso il retro, si sfilò guanti e grembiule e mise fuori i sacchi dell’immondizia.

Quand’ebbe finito di sistemare, spense le luci e chiudendosi la porta alle spalle, finalmente uscì nel silenzio della notte.