Racconto di Piergiorgio Andreani

(Prima pubblicazione)

 

 

 

Chicago, ottobre 1954

 

La luce del pomeriggio inoltrato filtrava appena dalla finestra della camera di ospedale. Il Professore era sdraiato sul letto. Aveva la testa e lo sguardo sollevati e rivolti a sinistra, verso il contenitore della soluzione che lo alimentava, e osservava le gocce che scendevano una dopo l’altra.

“Otto virgola tre”, mormorò, appena una finì di cadere.

“Otto virgola uno”, ripeté con voce calma, priva di emozioni, dopo la goccia successiva.

Il tumore allo stomaco che lo stava portando alla morte non l’aveva gettato nella disperazione. Anzi, era felice che non avesse aggredito il cervello. La sua capacità di teorizzare e sperimentare era sempre stata la cosa più preziosa della sua vita, l’unica a cui non avrebbe mai saputo rinunciare.

A un tratto percepì un movimento con la coda dell’occhio. Si girò verso la porta di legno bianco. Dalla piccola apertura di vetro nella parte superioreintravideun uomo, immobile nel corridoio illuminato. Sembrava indeciso se entrare o no.

In un attimo la mente del Professore fece ciò a cui era stata allenata per cinquantatré anni: ipotizzare e concludere. La persona non era alta più di un metro e settanta, vista la porzione visibile, ovvero gli occhi e il cappello, un aguadeño avvolto da un nastro di colore giallo, blu e rosso. Collegò quel copricapo così originale alle notizie che aveva sentito negli ultimi sedici anni. Il suo cuore accelerò di colpo. Osservò di nuovo quegli occhi scuri e ombrosi, solenni e fanciulleschi al tempo stesso. Non può essere, pensò sconvolto. Poi l’uomo aprì la porta e se lo trovò davanti. Era tornato.

Il Professore, come raramente gli era accaduto nella vita, non trovò le parole. Fissò il suo visitatore con gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse. Fu l’altro a salutarlo, dopo aver richiuso facendo cigolare la maniglia.

“Ciao, Enrico.”

La figura dell’uomo si completò con un vestito bianco o forse panna, una cravatta scura e una folta barba che, rifletté il Professore, era davvero una novità.

“Ettore”, rispose il malato con un filo di voce commossa. In quel momento non riuscì ad aggiungere altro. Anche l’uomo in piedi davanti a lui dovette aspettare qualche attimo prima di poter parlare di nuovo. Poi respirò profondamente e disse:

“Ho saputo delle tue condizioni e così ho deciso di fare un piccolo strappo alle regole che mi sono imposto da molto tempo. Spero che ricambierai il favore evitando di menzionare questa mia visita con chicchessia. E che tu possa perdonarmi per le scelte che ho fatto.”

“Capisco”, disse il Professore. Sua moglie era andata via da poco e di certo il suo visitatore lo sapeva. Poi aggiunse: “Il tuo cappello mi dice che c’è qualcosa di vero in tutte le storie che hanno raccontato. Senza troppo riguardo per la tua persona, aggiungerei.”

“Sì. Vivo in Venezuela.”

“Immagino che nemmeno i nostri vecchi amici sappiano nulla.”

“Nessuno di loro. Del resto mi risultano sparsi per il mondo. E poi dubito che Emilio sarebbe felice di rivedermi. Non fui delicato con lui in quella lettera. Forse ero troppo focalizzato sugli studi e poco sul lato umano, all’epoca.”

Il Professore sospirò e si lasciò andare ai ricordi. “Siamo partiti spinti dal desiderio della scoperta e, quando siamo arrivati, abbiamo dovuto scendere a compromessi con le conseguenze. Ma tu, in quella fase”, scrollò le spalle prima di continuare, “non c’eri più, se così possiamo dire.”

“Ho fatto comunque i conti con ciò che fecero del nostro lavoro. Ho visto le immagini. Mi rammaricai di aver contribuito alla creazione di un potenziale distruttivo del genere. E, ancora peggio, mi sentii potente. Troppo potente. Mi conosci, non sono a mio agio con certi sentimenti.”

Il Professore assentì.

“I tuoi princìpi mi fecero prendere in considerazione l’idea che l’avessi fatto davvero. Che ti fossi ucciso. Dicevano che tu ci eri arrivato prima di noi, che avevi previsto la bomba e il resto.”

“Sì, ho letto i mirabolanti ricami giornalistici e investigativi che seguirono. Per alcuni risi di gusto, lo ammetto. Ma quella storia mi spinse a rimettere tutto in gioco. La cosa più importante è non avere rimpianti, si dice in genere. Ho avuto il privilegio di assistere alla mia morte e, valutando la vita del caro estinto, ho deciso di aprirmi ad altro. Non ho interrotto i miei studi, se te lo stai chiedendo, ma ora ho anche interessi meno ambiziosi e più popolari. Degli amici, per esempio.”

“Sono molto felice per te. Credo sia stato molto saggio.” Il Professore rifletté per un attimo, poi azzardò:”Non c’è molto tempo tra me e l’aldilà, ormai. Posso avere l’ardire di chiederti perché te ne sei andato?”

L’uomo abbassò lo sguardo con un leggero sorriso. Sembrò provare imbarazzo.

“Fu qualcosa che nessuno avrebbe mai preso in considerazione. Ma ammetto che l’immagine di freddo accademico che diedi di me abbia contribuito notevolmente.”

Il Professore lo guardò in silenzio. Il suo visitatore continuò:

“Portai quegli appunti alla mia studentessa, come tutti sanno. Ciò che non è noto è che lo feci solo perché volevo rivederla un’ultima volta. Ero certo che non sarebbe mai stata mia. Sospettavo che ci fosse già qualcun altro all’epoca, e non mi sbagliavo. Fu tutto così infantile. Ma mi sentivo un alieno, nel senso più immaturo del termine. Forse dedicai troppo tempo alle equazioni, e troppo poco ai sentimenti. La mia tendenza alla teatralità fece il resto.”

Il Professore sorrise.

“Tutte quelle ipotesi, i complotti, le storie raccontate, così avventurose che qualcuno prima o poi ci scriverà un libro…” Distolse lo sguardo divertito, poi tornò a guardare l’uomo. “Quando la realtà era semplicemente l’amore.”

Il visitatore sorrise a sua volta. Il Professore alzò un sopracciglio. “E poi non dovremmo prenderti per una ragazza ibseniana, caro Ettore?”

Il sorriso dell’uomo si ampliò. Chiuse gli occhi per alcuni secondi, poi li riaprì:

“Mi sei mancato, Enrico.”

Per la seconda volta un leggero velo di commozione cadde sugli occhi e sulla voce del Professore.

“Anche tu mi sei mancato. Sei mancato a tutti. Anche a Emilio. E mi mancano i nostri giorni a Roma, quando eravamo giovani e ogni esperimento ci faceva sentire vivi. Abbiamo tagliato traguardi a cui nessuno si era mai avvicinato prima, ma i miei ricordi più indelebili riguardano voi. Le persone che avevo accanto.” Fece una breve pausa e poi aggiunse: “Grazie. Me ne andrò più felice ora che so che sei vivo.”

L’uomo in piedi abbassò di nuovo lo sguardo. Per un po’ rimase in silenzio. Poi rialzò la testa. Anche i suoi occhi erano umidi. Sussurrò:

“A proposito di andarsene… Ogni attimo che rimango qui è un piccolo rischio in più che corro. È meglio che vada.”

Il Professore fece un cenno affermativo con la testa. Il suo sguardo tornò sulla flebo. Una goccia cadde dall’alto. Tornò a guardare il suo visitatore:

“Visto che non ci vedremo più, credo sia meglio che tu lo faccia il più velocemente possibile. In meno di quanto passa tra una goccia e l’altra.”

“Quanto tempo ho?”

“Circa otto secondi.”

L’uomo inclinò la testa e lo guardò in atteggiamento di sfida. Mi aspetto molto meglio di così, era il messaggio. Il Professore tornò con gli occhi alla flebo:

“Secondo le osservazioni che ho fatto nell’ultima ora, la media è otto virgola due.”

“Così va meglio. Addio, Professor Fermi.”

Una goccia cadde. La maniglia cigolò. La porta si richiuse. Scese un’altra goccia. Il Professore guardò di nuovo verso la finestrella sul corridoio: l’uomo non c’era più. Una lacrima accompagnò il suo bisbiglio.

“Addio, Professor Majorana.”