Racconto di Leonardo Dragoni

(Prima pubblicazione)

 

 

 

Con le prime luci dell’alba, Louis sgattaiolò dal letto per andare nella stanza del padre. Portò con sé Pat Garrett, quattro centimetri di sceriffo in piombo, rame e ferro. Non un soldatino qualsiasi, ma colui che aveva freddato Billy the Kid, il più grande pistolero del West! Lo mise di guardia sul bracciolo del divano.

«Louis, tesoro», sussurrò il padre con la voce rotta dallo strazio, «Che ci fai qui?»

L’uomo era intorpidito, come spesso gli accadeva. La malattia gli negava il piacere di un sonno profondo, costringendolo al supplizio di una veglia mai del tutto cosciente. Soltanto sei mesi prima era stato lo sceriffo del paese. Era benvoluto da tutti.

Il bambino si avvicinò carponi al letto, a quel braccio che penzolava fuori dal materasso. Diventava sempre più esile, la pelle sempre più secca. Con lo sguardo il piccolo seguì una vena che dall’avambraccio correva verso il polso del padre, inabissandosi come un fiume carsico sotto uno strato di cute offesa dagli aghi, dentro macchie rosse e croste marroni. Con il palmo della manina afferrò l’indice dell’uomo e lo tirò piano verso il basso.

«Guarda papà, ti ho portato lo sceriffo Garrett. Lui ti proteggerà!»

L’uomo afferrò le lenzuola nei pugni e cercò di sollevarsi un po’ sui gomiti, tra smorfie di dolore. Tossì, poi fece cenno al ragazzino di avvicinarsi.

«Ho bisogno che tu mi faccia un grande favore, te la senti?»

«Sì, papà.»

«Devi prendermi una piccola scatolina che ho nascosto nella rimessa.»

«Che cosa c’è dentro?»

«Nulla d’importante, delle pastiglie per dormire.»

«Mamma ha detto che non devo darti nulla. Anche il medico ha detto che non devo darti nessuna medicina, neanche se la chiedi.»

«Lo so, ragazzo! Ma non sono medicine, sono soltanto caramelle per riposare. In cambio ti regalerò il mio orologio da sceriffo. Guarda qui. È oro massiccio, sai?»

Il bambino vacillò.

«Ti svelerò anche un segreto, d’accordo?»

Louis si arrampicò sul letto, facendo attenzione a non pesare sul padre.

«Un segreto segretissimo?»

Il padre annuì e il piccolo si morse un labbro, inquieto.

«Ma se è un segreto segretissimo non potrò raccontarlo a nessuno!»

«Se tu lo raccontassi ti chiederebbero da chi l’hai saputo.»

«Io non glielo dirò.»

«Oppure potresti dire una piccola bugia. Per esempio che te l’ha raccontato il signor Tomei.»

«Ma papà! Il signor Tomei era mezzo pazzo, e poi è volato in cielo!»

«Proprio per questo. Potrebbe avertelo rivelato prima di volare in cielo. Nessuno potrà dire che non è vero!»

I piccoli occhi di Louis brillarono. Quelli grandi del padre al contrario s’inumidirono, mentre sussurrava tra i denti una bugia: «Del resto a me questo segreto l’ha confidato proprio il signor Tomei, altrimenti non potrei saperlo.»

Il bambino discese dal letto e corse nella rimessa.

Suo padre, rimasto da solo, guardò il modellino dello sceriffo Garrett e pensò che anche in miniatura quell’uomo fosse un gigante rispetto a lui. Se fosse stato credente avrebbe trovato un palliativo nella preghiera, si sarebbe pentito per i suoi orribili peccati. Invece non gli restò che autoassolversi. L’aveva fatta franca in vita e stava per illudere perfino l’aldilà. Avrebbe dannato l’anima di un innocente al suo posto. Era forse questo il gesto più crudele, più efferato di tutti. Ma non aveva alternative. Non più. Doveva salvare l’anima del suo bambino.

Louis fu subito di ritorno con le caramelle del padre.

«Dai, papà, dimmi il segreto del signor Tomei adesso!»

«I segreti si dicono all’orecchio, vieni … ».

Si avvicinò e l’uomo bisbigliò qualcosa alle sue orecchie. Il bambino lo ascoltò con la mascella appesa e gli occhi sgranati.

***

Era circa mezzogiorno. In paese si era appena concluso il funerale dell’ex sceriffo. Molti sospettavano che si fosse suicidato, ma nessuno osava dirlo. Era morto, dicevano, a causa della malattia che lo consumava. Povero uomo, proprio non se lo meritava. Con un figlio piccolo, oltretutto.

Due chilometri a Est, dentro la sterpaglia oltre i pioppi della tenuta Tomei, uomini e ruspe lavoravano alacremente.

La mancanza di pioggia e il caldo torrido delle ultime settimane avevano trasformato la terra in sabbia e polvere, che a ogni alito di vento andava a depositarsi nei polmoni. Il vice-sceriffo Vomer era imbufalito. Eseguiva gli ordini senza perdere occasione per maledire l’intera catena di comando. A cominciare dal nuovo sceriffo, che proprio non gli andava a genio.

«Tutto questo per delle invenzioni, per la fantasia di un bambino. Cose da non credere!»

Quando ormai sembrava che il piccolo Louis avesse inventato tutto, ecco che da una delle fosse saltò fuori il capitano Torres, nascosto dietro uno spesso velo di pulviscolo e detriti. Estrasse un fazzoletto dalla tasca della divisa, si deterse la fronte, lo stropicciò sugli occhi e diede il segnale: sbracciarsi e sventolare in lungo e in largo.

I colleghi accorsero in massa. Il capitano Torres indicò al vice Vomer qualcosa nella buca. Scesero in tre nella fossa e col pennello continuarono a ripulire il reperto dal terriccio. Poco alla volta l’oggetto dei misteri prese forma, oltre i tenui colpi di setola.

«Ma cos’è?» domandò Vomer, sbalordito.

«Ossa», tossì il capitano.

Lo scenario divenne presto raccapricciante. Crani, casse toraciche, anche, femori e tibie.

Una fossa comune.

Quello scempio era la risposta alle sparizioni di quattro ragazzine, avvenute negli ultimi vent’anni nei paesini limitrofi.

Raccolsero e catalogarono tutto, anche una piccola rondella d’oro che non riuscirono a identificare. Sembrava la ruota della minuteria che attiva le lancette di un orologio.

Il signor Tomei vantava una piccola collezione di orologi da taschino. La moglie però, dopo la sua morte, li aveva buttati via. Gli inquirenti ritennero che quella rondella appartenesse senz’altro a una delle sue cipolle.

Il vice Vomer era l’unico a conservare qualche dubbio. Certo, la tenuta apparteneva al Tomei e la storia del bambino sembrava vera. C’era perfino quel pezzo d’orologio. Eppure l’istinto continuava a suggerirgli che qualcosa non quadrava.

Vomer non era però in grado di suggerire scenari alternativi, perciò di fronte al narcisismo del nuovo sceriffo, già dipinto dalla stampa locale come un novello Sherlock Holmes, non aveva osato insistere. Fino a quella mattina, almeno. Il capo era di buon umore, immerso nella lettura di un articolo sulle sue nobili gesta. Un croccante aroma di caffè pervadeva l’intero ufficio. Vomer tossicchiò diverse volte, per attirare l’attenzione del capo, che non lo degnò di uno sguardo.

Allora aveva smesso di schiarirsi la voce e aveva osato. «Capo, va bene che il signor Tomei era un tipo strano, ma addirittura un mostro… lei ce lo vede?»

Lo sceriffo, in tutta risposta, gli aveva scoccato un’occhiata in tralice.

Vomer lasciò passare dieci secondi, poi fece un ultimo tentativo.

«Siamo davvero sicuri che sia stato lui?»

Lo sceriffo chiuse il giornale, tolse i piedi dalla scrivania e sfilò la pipa dalla bocca.

Lo scrutò con aria di sfida.

«E chi altri, sennò?»

 

 

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