Racconto di Gianluigi Vanni Bettega

(Dodicesima Pubblicazione)

 

Che differenza c’è tra la corriera e il Pullman?

Chiedevo a zia Maria mentre nell’aria frizzante dell’alba salivamo gli ultimi scalini per arrivare in piazza:

La corriera, rispondeva zia, è più rustica, il pullman ha sedili molto più comodi, è meglio rifinito e, intanto che mi spiegava, sbucavamo dal culmine della scalotta di centro. Il pullman già ci aspettava, visto così, nei colori blu e azzurro come la corriera che dalla stazione di Dervio fa servizio collegando i paesi della Valvarrone mi lasciava un poco scettico, però, una volta saliti dovetti ricredermi. I sedili erano veramente comodi e spaziosi, ognuno prendeva posto dopo aver riposto soprabiti, ombrelli, cappelli e bagagli vari sopra la reticella portabagagli e controllato che non mancasse nessuno, l’autista chiuse le porte, ingranò la marcia e finalmente partimmo, destinazione: Santuario di Oropa.

Tra me e la zia immancabile la sporta, mi piaceva l’odore della sporta di zia, sentiva di un buon odore di prosciutto cotto, lo trovavo rassicurante: dopo averla annusata mi sistemai il più comodamente possibile per dormire, erano le cinque di mattina e non ero poi così abituato alle levatacce! Più che dormire riuscivo a sonnecchiare, fatti pochi chilometri una signora anziana iniziò a recitare il Rosario, cinquanta Avemarie in latino, lei le recitava fino al fructus ventris tu Jesus e noi tutti in coro recitavamo il resto. Intanto che biascicavo la mia parte riflettevo sul fatto che tutte le preghiere non sono altro che richieste, in questo caso si chiede a Maria di chiedere clemenza per noi peccatori, pensavo tra me e me sarebbe stato più gradito a Maria e anche al Signore che li si ringraziasse, scorrendo tutte le preghiere che conoscevo non mi riusciva di trovare una sola volta la parola “Grazie”, sì, nell’avemaria in italiano c’è “piena di grazie” ma ha un altro significato. Intanto mi ricordai di quella volta che ringraziai il Signore, fu quando avevo gli orecchioni: entrò mamma nella stanza con aria mesta mi disse che era morta la mamma di Emilio. Pensai quanto fosse brutto perdere mamma e, la sera, nella mia preghiera ringraziai il Signore per la fortuna che avevo nell’avere appresso mamma.

Mamma morì qualche mese dopo, sicché pensai che il Signore segue un suo programma e non tiene conto né delle richieste né dei ringraziamenti. Intanto, finite le cinquanta avemarie si era passati al Salveregina. In hoc lacrimarum valle, in questa valle di lacrime. Finita la salveregina cominciarono le litanie: una sfilza di aggettivi, sempre in latino, cui bisognava rispondere “ ora pro nobis” e io, nel mio dormiveglia mi immedesimavo nella Madonna, seduta su un trono , sotto di me un pullman di orapronobis mi sentivo come quando a pranzo mi arrivano tutti i gatti di casa sotto la seggiola a chiedere un boccone miagolando insistentemente, dopo qualche minuto mi verrebbe voglia di prenderli a pedate: chissà quanto sia lusingata quando la chiamano Turris eburnea o domus aurea! (Lo so che ne parla Joyce, però c’ero arrivato anch’io da solo). Poi, manica di ingrati, con tutte le cose belle che son state create, definire la terra una valle di lacrime non è altro che un ingrato piagnisteo, mi basta aprire la finestra della cucina in un mattino di una giornata serena, il lago ancora calmo in attesa della breva, il sole che finalmente illumina il Bregagno che, vanitoso, si specchia nel lago riempiendolo di riflessi dorati. Rompe il silenzio l’abbaiare di un cane, forse a Pianello e lo sciacquio dei remi immersi da Paco che sta rientrando con i suoi pendenti e il suo pescato. E tutto ciò lo chiamate valle di lacrime?… Ma andate a… Finita la recita del Rosario con tutto il contorno si intonò Mira il tuo popolo, un inno a ritmo di valzer, in italiano ma ancor meno comprensibile del latino: Mira il tuo popolo / o bella signora / che pien di giubilo / oggi ti onora. Anch’io festevole / corro ai tuoi piè/ o Santa Vergine / prega per me. Comunque è un inno che si adatta perfettamente alle gite di pellegrinaggio, più che ritmo di valzer, sembrerebbe a ritmo di pullman! Intanto s’è fatto giorno. È ora del panino al prosciutto, zia si versa un poco di caffè dal thermos, a me un bicchiere d’acqua. Un uomo stura un fiaschetto di vino, poi, finito il rinfresco, qualcuno intona “il capitan della compagnia” che ferito e sta per morire, distribuisce i pezzi del suo corpo tra i suoi soldati e la sua bella (siamo in epoca molto precedente Mogol / Battisti)! Infine, immancabile, il mazzolin di fiori, in tre versioni, la prima classica, poi quella lenta, “spianata” che chiude le strofe con “e hop la curva: infine la velocissima con ripetizione dell’ultima parola.

Così, tra preghiere, canti liturgici e canti profani, si arriva finalmente al Santuario. Il pullman si ferma davanti al portone del Santuario, scendono tutti fuorché l’autista che, una volta scesi tutti si avvia per parcheggiare il mezzo.

Tutti in chiesa, di nuovo il Rosario, Salveregina, litanie con orapronobis poi la zia mi dette cinquanta lire per accendere una candela votiva, infine ce ne uscimmo sul piazzale. Lì stazionava una infinità di bancarelle, variopinte vendevano ricordini: c’erano piccole fotografie unite tra loro che si ripiegavano a fisarmonica, macchine fotografiche giocattolo con dentro delle diapositive che ad ogni scatto cambiavano veduta, binocoli anch’essi con le diapositive ma anche binocoli giocattolo che però ingrandivano veramente. Mentre pensavo all’episodio di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio, chiesi a zia uno di quest’ultimi. Il viaggio di ritorno lo trascorsi dormendo. Il giorno successivo per un poco giocai con il binocolo, però, francamente, a occhio nudo vedevo più distintamente gli autobus delle poste svizzere benché il binocolo ingrandisse mi risultava a occhio nudo più nitida la croce rossa sulla fiancata. Nel giro di qualche settimana il giocattolo fu distrutto, mi rimasero solo le lenti, quelle che ingrandivano e le piccole che rimpicciolivano. Nel frattempo avevo messo da parte il materiale che mi interessava per un progettino che da tempo avevo in mente. Per prima cosa, determinai la distanza focale della lente grande, proiettando l’immagine della lampadina sul tavolo della cucina, presi la misura della distanza della lente dal tavolo: quella era la distanza focale per una proiezione su uno schermo distante quanto distava la lente dalla lampada. Costruii allora una scatola in legno poco più corta della distanza focale, con il cartoncino cilindrico residuo di un rotolo di carta igienica costruii un obbiettivo, in centro, nella parete anteriore della scatola eseguii un foro del diametro dell’obbiettivo, avevo tenuto da parte l’impianto di una abat jour e lo sistemai fissando la lampadina a peretta proprio sotto l’obbiettivo, avevo lasciato una feritoia tra coperchio e parete posteriore per poter inserire figurine, fotografie o cartoline, infine fissai un pesante drappo nero per impedire la troppa diffusione della luce. Fu così che inventai un nuovo gioco con le figurine: prima di giocarcele col lancio a muro, le proiettavo! Tra le tante ricordo nitidamente la figurina di Montuori, un oriundo argentino con la maglia viola della fiorentina che da poco aveva perso un occhio a causa di una moneta lanciata dalle tribune. Questo episodio mi aveva toccato al punto che da allora ho perso completamente l’interesse per il gioco del calcio.