Racconto di Delia Giordano

(Terza pubblicazione)

 

 

Il giorno in cui andò ad abitare in quella casa, alla periferia di Napoli, la prima cosa che notò era che le pareti erano talmente sottili che ogni piccolo rumore, proveniente dall’appartamento adiacente arrivava nitido e chiaro. Alida si era abituata a fare tutto in punta di piedi, per non disturbare quei vicini tanto silenziosi, che abitavano lì dapprima che lei si trasferisse con il marito. Una coppia di giovani, probabilmente del nord Africa, con un figlio piccolo. Lei viveva in casa, molto appartata e di rado la incontrava sul pianerottolo, sempre sfuggente, non alzava mai lo sguardo, quelle rare volte che la incrociava.  Rientrando dopo il lavoro, Alida alzava la testa verso il balcone del secondo piano dove abitava, e più di una volta, trovandola seduta con il bambino in braccio, aveva accennato un gesto di saluto, ma lei si alzava di scatto e subito rientrava senza ricambiare. Capitava spesso che dall’altra parte non arrivasse nessun rumore, totale silenzio, nonostante il piccolo. Allora Alida accostava l’orecchio alla parete e riusciva a sentire il vagito flebile del bambino o una ninna nanna appena accennata. Del marito udiva solo i passi pesanti per la casa e qualche parola incomprensibile. Quando la mattina sentiva la porta sbattere, immaginava che lui uscisse per andare al lavoro. Allora, si avvicinava alla parete e aspettava di sentire qualche rumore. La donna, rimasta sola in casa, parlava sempre sottovoce al bambino mentre metteva in ordine. Quel bambino non piangeva mai. Eppure, era così piccolo. La sera quando, nel silenzio più assoluto, cenava con suo marito, con lo sguardo fisso sulla tv, Alida prestava attenzione ai rumori oltre la parete.

– Cosa è stato? – Chiese una di quelle sere al marito.

– Cosa? Non hai sentito un lamento?- Disse ancora dirigendosi verso la parete, nell’indifferenza totale del marito. Si mise in ascolto ma dall’altra parte, come sempre, c’era un silenzio assoluto. Restò attaccata alla parete, non so per quanto tempo, dimenticandosi per un momento dell’uomo che era di là e che, anche stasera, aveva bevuto troppo. Per tutta la notte, comunque, restò sveglia, non riusciva mai a dormire quando suo marito beveva, non avrebbe potuto. La mattina successiva avvicinò l’orecchio alla parete e sentì il bambino. Respirò profondamente e si sentì sollevata dal brutto pensiero che aveva in testa. Ormai quella donna e quel bambino facevano parte della sua vita. Quando era a casa tendeva l’orecchio e ascoltava ciò che succedeva oltre la parete; ma era come se in quella casa la vita si fosse fermata. Una notte, una di tante insonni, Alida sentì un rumore come di un corpo che cade a terra. Si alzò e si mise in ascolto vicino al muro. Udì un flebile lamento, pesanti passi per la casa e colpi sordi come attutiti da un cuscino o un asciugamano e poi il silenzio. La mattina presto, appena sentì la porta sbattere, senza nemmeno pensarci andò a bussare.

“Aprimi, sono io” disse sottovoce, accostando il viso alla porta. “Ti puoi fidare di me”, aggiunse. La donna esitò ma poi apri lentamente. Alida vide ciò che aveva temuto: il viso era irriconoscibile, lo zigomo destro rotto e l’occhio completamente chiuso e gonfio, le labbra spaccate. Alida, allora entrò lesta senza attendere di essere invitata e chiuse la porta dietro di sé. “Non puoi entrare, se sa che sei stata qua mi ammazza” le disse in un italiano stentato, portandosi una mano al volto come per nasconderlo.

– Mi chiamo Alida- disse porgendole la mano. – Io Amina – rispose l’altra. Le due donne si sedettero sul divano restando per un po’ senza parlare.

– Io so cosa stai passando- disse Alida.

– Non credo che tu lo sappia- sussurrò Amina.  – Io vivo in un inferno sulla terra dal quale non riesco a scappare, sono sola, la mia famiglia è lontana e pure se fosse con me, non mi aiuterebbe -. Aggiunse tutto d’un fiato, quasi che stesse aspettando quel momento. Alida senza parlare iniziò lentamente a sbottonarsi la camicia, scoprendo il petto e le spalle. Amina rimase a fissarla senza capire ma poi gli occhi si riempirono di lacrime: il corpo di Alida era ricoperto di lividi e cicatrici. Alcune ormai erano vecchie, altre più recenti.

– Mio marito si ubriaca e sfoga su di me la sua rabbia. Mi colpisce dove non si vede, perché io ho un lavoro e sto in mezzo alla gente. Mi tappa la bocca e mi ripete di non urlare, altrimenti mi ammazza. E so che un giorno lo farà. Perché non denuncio? Perché non scappo? perché sono sola, proprio come te. Perché se denuncio lui mi cerca e mi ammazza. Ho paura, come te -. Mentre le lacrime le rigavano il viso abbracciò forte Amina. – Ma ora non siamo più sole, ora possiamo farcela, il tuo bambino ha diritto ad una vita migliore -.

– Bambina – disse Amina. – Si chiama Fatima- . Alida si alzò di scatto, come animata da un pensiero urgente. Prese il cellulare e compose il numero del centro antiviolenza, guardò Amina negli occhi e intuendo le sue intenzioni, lei annuì, senza parlare.

Due giorni dopo, all’alba le volanti della polizia vennero a prelevare i due uomini e mentre li portavano via, i loro sguardi si incrociarono; chissà se uno dei due intravide negli occhi dell’altro la vergogna e il disgusto per ciò che aveva fatto.

Amina e Alida cercarono di ricostruirsi una nuova vita, lontano dall’inferno che avevano vissuto, ma dentro di loro sapevano che un giorno, uno di quegli uomini, probabilmente sarebbe tornato per finire ciò che aveva cominciato.