Racconto di Damiano Meloni
(Prima pubblicazione)
Mario si fece largo tra la calca e si diresse verso i binari, gli auricolari pendevano al collo e sobbalzavano a ogni passo. Un fiume di pendolari strepitava per riversarsi sul diretto delle diciotto per Milano, in ritardo al binario uno. Strinse le spalle, sgusciò tra due ragazzi e si fermò con uno scarpone sulla linea gialla.
Un cinquantenne in completo grigio batteva il piede scrutando l’orologio da polso nella speranza che le lancette accelerassero. Da quel che Mario poteva intuire, quella patacca valeva almeno quanto la topaia dove lui abitava con la moglie e la figlia. L’irritazione che quel pallone gonfiato lasciava trapelare era molto simile a quella del suo ex datore di lavoro il giorno della protesta contro i licenziamenti, come se fosse solo una seccatura per lui. Chissà se anche questo imbecille starà trasferendo l’azienda in Polonia?
Abbassò lo sguardo sul suo Casio tarocco con il cinturino di Topolino regalatogli dalla figlia. Quel topo gli scaldava il cuore ogni volta che lo vedeva, ma gli ricordava anche che era al verde e che era molto vicino alla definizione di “fallito” che si era creato in mente. Afferrò la manica del giubbotto e la strattonò a coprire quel sorcio impertinente. Prese gli auricolari e se li infilò: la voce del telecronista gli ronzò nella testa, a malapena distinguibile tra il vociare della piattaforma. Lo speaker radiofonico stava elencando i pronostici della corsa.
Dall’altra parte dei binari, una ragazza cingeva il collo di quello che probabilmente era il fidanzato e lo attirava a sé, una mano dietro la nuca a premerlo contro le sue labbra; lui la teneva stretta per i fianchi, come se lei potesse volar via da un momento all’altro e dal trattenerla lì con lui ne valesse della sua stessa vita, entrambi erano impacciati dallo zainetto che il ragazzo teneva sul davanti. Quand’era stata l’ultima volta che sua moglie lo aveva stretto così, con quella fame? O che il suo sguardo lo aveva mangiato di desiderio, senza quelle note di stanchezza e rassegnazione ormai fin troppo presenti? Mario rigirò la fede attorno al dito. Chissà per quanto ancora l’avrebbe indossata… Se non fosse stato per sua figlia a quest’ora l’abbronzatura ne avrebbe di sicuro coperto il segno.
La voce all’altoparlante annunciò il diretto per Milano. La massa di pendolari si risvegliò e si mosse verso la linea gialla.
Una giovane donna gli si affiancò: la bombetta nera calata sopra un caschetto castano che circondava un viso pallido e spigoloso; la montatura tonda degli occhiali rifletteva le luci della stazione. Un guanto di pelle, nera anch’essa, teneva chiuso il cappotto e con l’altro stringeva la mano di una bambina che le arrivava alla vita. La ragazzina lo salutò con un sorriso. Sembrava avesse la stessa età di sua figlia. Potrebbero anche essere compagne di scuola.
La madre spinse in su gli occhiali con il mignolo e tirò a sé la figlia. «Non importunare il signore, Isabella. E allontanati dalla linea, è pericoloso.» Incrociò lo sguardo di Mario e gli sorrise imbarazzata. «Mi scusi, mia figlia non sa proprio stare al suo posto.»
Mario annuì e aprì la bocca per dirle che non c’era alcun problema, ma quella si era già voltata dall’altra parte. Scrollò le spalle. Non c’è più rispetto di questi tempi.
Infilò la mano nella tasca del giubbotto ed estrasse la foto di Alessandra dal portafoglio: il suo cuore gli ricambiava un sorriso a diciotto denti intervallati da un paio di finestrelle nere dove le erano caduti, le lentiggini arancioni punteggiavano il viso pallido e due pupille nocciola facevano capolino dalla massa di ricci bruni che ricadevano scompigliati davanti agli occhi. Tutta suo padre… ma chi prendo in giro? Per fortuna che ha ripreso dalla madre! Era la copia sputata di Verena. E quegli occhi sorridenti gli ricordavano lo sguardo innamorato che sua moglie gli riservava ai primi appuntamenti. Ne era passata di acqua sotto i ponti, ormai. Sospirò. In fondo, non poteva biasimarla se sua moglie non era più quella di un tempo. Anche lei stava passando un brutto momento dopo aver perso il lavoro. E io non le ho reso la vita più facile perdendo soldi con le ultime scommesse. Ma questa volta sarà diverso! Bisogna prendersele, le cose, non aspettare che qualcuno ce le serva davanti.
Il cellulare vibrò. La notifica di un messaggio vocale da parte di Verena lampeggiava sul display. Aprì la chat, mise il pollice sopra l’icona di riproduzione e lo lasciò lì a mezz’aria. Ci pensò su e decise che l’avrebbe ascoltato più tardi. Non aveva intenzione di rovinarsi l’umore con il solito rimprovero da parte di sua moglie. Chiuse la chat e ripose il telefono.
Fece un profondo sospiro. Calma Mario, calma, andrà tutto bene. Si accertò che fosse tutto al solito posto: cellulare nella tasca destra, scontrino della scommessa nella sinistra, orologio occasionalmente sul polso destro e occhiali da sole in testa. La mente corse alla vincita di due anni prima, il corpo fu pervaso da un brivido di piacere al ricordo del telecronista che annunciava la vittoria del suo cavallo. Accadde proprio in quel punto, sul ciglio del binario uno, in attesa del diretto per Milano. Mario non era scaramantico, ma era da un pezzo che non veniva alla stazione e da un pezzo non ne azzeccava una, la sua vena si era esaurita e… beh, al diavolo, sicuramente esser venuto qui non potrà peggiorare le cose!
Strinse la foto della figlia tra l’indice e il pollice. Ti dimostrerò che non sono un pessimo padre come tua madre mi dipinge. Oggi vincerò e tornerò a casa con il regalo più bello di sempre. Anche Verena capirà che non sono un buono a nulla! Aveva solo bisogno di quella vincita. Dio solo sapeva quanto aveva bisogno di un bel gruzzolo che gli avrebbe permesso di risollevare la sua famiglia. Il taccuino in cui teneva tutti gli appunti sulla corsa gli premeva nella tasca posteriore. Aveva studiato per giorni i pronostici, seguito le notizie sui cavalli in gara e cercato ogni informazione possibile sui fantini. Aveva appuntato tutto e fatto i suoi calcoli. Inoltre, la dritta che aveva ricevuto proveniva da una fonte sicura, questa volta, e combaciava con le sue supposizioni. Tutto lasciava presagire che il cavallo sul quale aveva puntato avrebbe vinto, e fanculo i bookmaker che lo quotavano cinque a uno. Tanto meglio così, soldi facili. E tanti saluti debiti del cazzo.
Lo sparo nelle cuffiette annunciò la partenza della corsa e lo riportò alla realtà.
Mario premette il tasto laterale sullo smartphone e il brusio della stazione scomparve.
‘Penny è in testa!’ gracchiò la voce nasale del telecronista. ‘Il numero quattro sembra avere un demonio alle calcagna. Il favorito The King è sempre più distanziato. Penny non sembra avere la minima voglia di rallentare!’
Andiamo, bello mio, il nostro futuro è nelle tue zampe.
‘Il gruppo ormai è sfilacciato! Penny è irraggiungibile, la gara è sua, ma che dico? Il titolo è suo, signori! Mancano duecento metri al traguardo…’
Mario fece un passo indietro. Il tacco dello scarpone affondò nel piede di qualcuno che brontolò qualcosa che si perse tra i rumori della corsa. Mario mimò un gesto affrettato di scuse con la mano. Che andasse al diavolo pure lui! Aveva vinto! Cinquemila per una quota di cinque a uno: venticinquemila euro. Fanculo gli arretrati della banca, fanculo il pignoramento della casa e fanculo conto in rosso. Aveva scommesso i risparmi sul libretto postale di Alessandra, aveva rischiato il tutto per tutto, ma ne era valsa la pena! Certo, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per non confessare a Verena dove avesse preso i soldi, ma lei non si sarebbe fatta tante domande se avesse ripagato il debito. Sapeva essere pragmatica quando voleva. Anzi, lo avrebbe trattato da eroe e sarebbe tornata a guardarlo come una volta. Sì che lo avrebbe fatto! E tornando a casa le avrebbe comprato un qualcosa, un bracciale con i brillanti, e quella bambola che sua figlia desiderava dallo scorso Natale. Avrebbe reso felici le sue donne. Se lo meritavano. E se lo meritava pure lui.
‘Attenzione, che succede? Penny sta rallentando. Oh no, guardate, signori, Penny sta zoppicando!’
Le parole del telecronista erano schegge di ghiaccio che gli si conficcavano nella testa, nel cuore. Una. Alla. Volta.
‘Ripeto: Penny sta zoppicando! Che sfortuna! La gara finisce qui per il numero quattro.’ Lo speaker fece una risata. ‘Abbiamo cantato vittoria troppo presto, signori. Ed ecco The King sopraggiungere a tu…’
I rumori della stazione si eclissarono.
La voce del telecronista si spense.
Mario si perse oltre i binari.
Oltre la stazione.
Aveva perso.
Tutto.
Strappò via le cuffiette. «Vaffanculo. Vaffanculo!»
La donna alla sua destra gli lanciò un’occhiata perplessa, tirò a sé la bambina e si scostò di un paio di passi. La gente creò un cerchio vuoto intorno al lui neanche fosse un appestato.
Non è possibile, non è possibile. Non è possibile. Non. È. Possibile.
Mario abbandonò le braccia lungo i fianchi, così come il destino aveva fatto con lui. La sorte lo aveva beffato, si era portata via i suoi soldi, gli aveva rubato le ultime speranze di tenere un tetto sopra la testa, di tenere unita la famiglia, di stringere tra le braccia le sue due donne. Verena non era stupida, avrebbe scoperto che quei risparmi erano spariti e avrebbe fatto due più due, a quel punto, nessun avvocato al mondo lo avrebbe potuto aiutare. Lei gli avrebbe portato via tutto quel poco che gli rimaneva.
Alessandra… Avrebbe strappato anche lei dal suo abbraccio.
Non è giusto!
Stritolò la foto nel pugno e la lanciò. Il volto sorridente di sua figlia scomparve, le pieghe deformarono quel sorriso in un’espressione carica di disprezzo.
Mario allungò un braccio, ma le dita si chiusero nel vuoto.
L’istantanea volteggiò e atterrò a faccia in giù sui binari, insieme alle sue speranze.
Che cosa aveva fatto? Aveva gettato via il suo cuore come una cartaccia? Aveva buttato via il futuro di sua figlia senza esitazione. Tutto ciò che aveva di più caro, l’unica persona che ancora l’amava ora giaceva sui binari. Allungò un braccio verso quelle barre d’acciaio, così fredde e dure, che potevano rivaleggiare con il peso che gli schiacciava il cuore.
Come poteva tornare a casa? Che coraggio aveva per affrontare quegli occhioni nocciola che lo aspettavano? Come poteva sorriderle sapendo di aver condannato la famiglia a vivere nella miseria?
Gettò la testa tra le mani. Le dita artigliarono i capelli. Gli occhiali da sole caddero e una lente andò in pezzi.
Stupido, coglione, stupido! Dovevo per forza giocarmi tutto, dovevo per forza scommettere! Stupido! Non potevo cercarmi i soldi come fanno tutti? Con un lavoro, o due?
Che futuro lo aspettava?
Si sarebbero separati, lui avrebbe mandato dei regali a sua figlia, le avrebbe fatto visita il giorno del compleanno, forse, ma ogni volta lei sarebbe stata più grande, matura e… e distante. Che senso aveva tutto questo? La vita, la vita senza poterle stare vicino, che senso aveva? Affrontare il suo crescente disprezzo, la compassione o… peggio di tutto, l’indifferenza.
Il fischio del treno gli artigliò le viscere, gliele torse e tirò come a volergliele strappar via. Mario si piegò in due. La foto giaceva sui binari, il viso nascosto. Alessandra non voleva guardarlo, non voleva aver più niente a che fare con lui.
Come poteva tornare a casa?
Cosa doveva fare? Fissare Alessandra negli occhi e… mentirle? Dirle la verità? Dirle addio?
Non poteva.
Il sudore gli colava lungo la schiena. Il rumore dei freni gli grattava il cervello.
Un passo. La punta dello scarpone sporgeva nel vuoto.
Un respiro.
La foto sui binari.
Lei era laggiù e lui lassù.
Non era giusto.
Chiuse gli occhi.
Il cuore batteva nel petto.
Martellava in gola.
Nella testa.
Alessandra…
«Papi, stai bene?» quella voce, quella vocina acuta. L’avrebbe riconosciuta tra mille! Era la sua, ma… come era possibile?
Una manina strinse quella sudata di Mario. «È pericoloso, vieni indietro.»
Aprì gli occhi e abbassò la testa: la sua mano era stretta attorno a una più piccolina e pallida che sbucava da un cappottino rosso, lo stesso che Mario aveva regalato a sua figlia per il compleanno. Risalì con lo sguardo lungo la manica. Due occhi nocciola lo fissavano preoccupati in mezzo a una miriade di lentiggini arancioni. Alessandra!
La locomotiva gli passò a poco più di un palmo dalla testa e Mario chiuse gli occhi per lo spavento. Qualcosa non tornava, non sentiva più quella stretta confortante. La mano era chiusa nel nulla, la aprì e la richiuse, ma afferrò solo l’aria.
La folla lo guardava esterrefatta e si ritrasse ancora di più. Qualcuno prese il cellulare. La bambina che gli aveva sorriso stava tirando il cappotto della madre e lo indicava. La bocca si muoveva, ma Mario non riusciva a sentire cosa stesse dicendo.
Il treno si fermò. Il puzzo acre di gomma bruciata gli aggredì le narici.
La madre squadrò la figlia e poi Mario, scosse la testa e afferrò la mano della bambina. «Mi scusi» mormorò e la trascinò verso la porta aperta della carrozza.
Il vagone inghiottì le due figure insieme a decine di altri pendolari. La porta si richiuse con uno scatto metallico e il treno ripartì.
Mario si voltò attorno. Il binario era deserto e silenzioso.
L’ho fatto? Sono morto?
Scosse la testa. Il mondo prese a tremare. No, era lui a tremare.
Stavo per abbandonarle… Dopo tutto quello che ho fatto, stavo per lasciarle in mezzo alla strada. Dio mio.
La stazione prese a vorticare.
Strisciò i piedi e si accasciò su una panchina, la testa gettata all’indietro, gli occhi chiusi.
Il tremore non dava cenno di voler rallentare.
Tutto per una cazzo di scommessa. Non l’avrei vista crescere, non le sarei stato vicino quando ne avrebbe avuto bisogno… Verena ha ragione, faccio schifo, come padre e come uomo. Sono un fallito. Farà bene a lasciarmi, ma io non… Si piegò in avanti e tossì. Bile acida gli risalì in gola. Mario la ricacciò indietro. Sputò e rimase con la testa tra le mani. Io non posso abbandonarle. Sarò pure un fallito, ma, ma cambierò! Cercherò qualcosa, un lavoro, e le aiuterò anche se non mi vorranno più vedere. Forse… forse un giorno riuscirò a farmi perdonare.
Si alzò di scatto, ma le gambe gli cedettero e dovette aggrapparsi alla panchina per evitare di cadere. Riprese fiato e si avviò barcollante verso l’uscita.
Un gruppo di ragazzi vociava davanti all’edicola della stazione: uno di loro teneva in mano un volume di qualche fumetto. Mario si avvicinò e scrutò la selezione di quotidiani in esposizione. Anni prima era riuscito a trovare lavoro in un’inserzione del Corriere Adriatico. Chissà se pubblicano ancora gli annunci di lavoro?
Allungò qualche moneta all’edicolante e si mise la copia del quotidiano sottobraccio. Più tardi ci avrebbe dato un’occhiata e si sarebbe candidato per ogni posizione che avrebbe trovato.
Avvertì una vibrazione alla gamba destra. Infilò la mano in tasca e prese lo smartphone.
Un altro vocale da Verena. Riapri la chat, staccò le cuffiette e fece partire la prima registrazione.
«Ciao papi, sono io.» Quella vocina… questa volta era lei, non qualche allucinazione, non qualche scherzo mentale, non qualche fantasma. Lei. Il cuore perse un battito e un groppo gli chiuse la gola. «La mami chiede se puoi passare a prendere il pane prima di tornare a casa.»
Il secondo messaggio partì in automatico: «Ehm… sono sempre io. Puoi prendere anche uno di quei paninetti piccoli e morbidi, per favore?» Il vocale continuò con qualche secondo di silenzio poi la voce di Alessandra tornò a farsi sentire. «Ti voglio bene, sei il migliore papi.»
Mario sorrise, gli occhi pizzicarono e si riempirono di lacrime. «T-Te ne voglio anch’io, cuore.» Biascicò. «Te ne voglio anch’io.»
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