Racconto di Donatella Rabiti

(Seconda pubblicazione – 16 aprile 2021)

 

 

Le tazzine sporche di caffè erano rimaste nel lavabo della cucina. Non aveva avuto la forza di volontà neppure per quel piccolo gesto. Per chi avrebbe dovuto compiere le solite azioni quotidiane, che ripeteva in modo identico, meccanico, tutti i santi giorni? Oggi no, non le andava. Voleva prendersi una pausa. Tanto ne aveva di ore davanti prima che facesse sera, di tempo che girava a vuoto, senza uno scopo per cui valesse la pena impegnare le proprie energie. Attorno vedeva solo un grigio velo di quotidianità che si stendeva opaco su tutto, persone, cose, luoghi.
La prima volta in cui qualcuno le aveva parlato di depressione aveva da poco compiuto vent’anni, e per spiegarle in cosa consistesse il disturbo che l’aveva colpita lo psicologo le aveva raccontato di come una grande scrittrice, Natalia Ginzburg, avesse definito quello stato di prostrazione mentale come una caduta “dentro al pozzo”. Dal vero, di pozzi, lei non ne aveva mai visti. Forse sua madre e sua nonna li avevano utilizzati quando abitavano in campagna, prima di trasferirsi in città.
Marco era già ritornato in ufficio. Lei, di malavoglia, aveva sparecchiato. Dopo avere avviato il programma di lavaggio della lavastoviglie si era accorta delle due tazzine rimaste nel lavandino. “Che m’importa? Ora vado a stendermi”.
La medicina antidepressiva le toglieva ancora più le forze. Ogni pomeriggio una soporifera sensazione di rilassamento le faceva chiudere gli occhi appena si stendeva sul letto, sopra la coperta di ciniglia fucsia, regalo di sua madre, che a sua volta l’aveva ereditata dalla nonna.
“E io? A chi la lascerò questa coperta?” Che domanda stupida, un oggetto così insignificante. Era meglio non avere nessuno a cui regalarla. Non avrebbe voluto costringere qualcuno ad accettare un dono non richiesto, come lei aveva dovuto fare, spesso, per compiacere chi le stava accanto. Dopo la sua morte sarebbe stata ripiegata e messa in un baule; o più probabilmente gettata in un cassonetto.
Adesso poteva anche pensarle certe cose, non si sarebbe sentita in colpa. Non aveva più nulla da perdere. Allora, a vent’anni, aveva sofferto molto per quella condizione di disagio mentale che l’aveva colta senza preavviso, da un giorno all’altro, senza darle il tempo di reagire.
Scivolò dentro al sonno e si abbandonò completamente alle immagini create dall’inconscio: sullo schermo della mente vennero proiettate scene di ricordi legati alla sua giovinezza.
E si vide felice, mentre rideva alle battute di Silvia, seduta su un pedalò sulla spiaggia di Rimini. L’amica faceva l’imitazione dell’insegnante di Italiano che all’esame le aveva chiesto Leopardi. Che vecchia arpia! Vestita con una gonna a scacchi e una camicetta a fiori “da urlo”. E si erano “beccati” lei come commissario interno, mentre tutta la classe avrebbe preferito il professore di Diritto, “uno per il verso”, che però non se l’era sentita di “portarli all’esame”. Che anno sarà stato? Ma certo, il 1983, quello della sua maturità da ragioniera. Adesso si ricordava, era un sabato di fine luglio. Avevano preso il pullman al mattino presto. “Hai proprio bisogno di correre subito al mare?” Sua madre era riuscita a guastare anche quella gioia tanto agognata di sentirsi libera dallo studio. Stava già programmando a chi inviare le domande scritte per essere assunta per un periodo di prova gratuito. Lei e Silvia si erano informate, avevano guardato le offerte di lavoro sul giornale locale di annunci pubblicitari che ogni due settimane era distribuito gratuitamente. C’erano varie piccole aziende della zona in cerca di segretarie.
Non aveva più riprovato, in seguito, una sensazione così forte di libertà come in quell’estate dei suoi diciannove anni. Quando iniziò a uscire con Marco, dopo averlo conosciuto a una festa in spiaggia la sera di ferragosto, si rese conto di essersi innamorata per la prima volta. Le risate e le chiacchierate con Silvia divennero sempre più rade: sua madre e sua nonna le dissero che ormai era fidanzata e che doveva comportarsi diversamente rispetto a prima, quando era una ragazza non impegnata. A lei non pareva vero di essere una donna con il futuro già deciso per il resto della vita: una famiglia a cui accudire, senza il pensiero di lavorare fuori casa.
Riaprì gli occhi, guardò l’orologio: poteva restare a letto ancora mezz’ora, prima di dover iniziare a preparare la cena. Fece un lungo respiro, cercando di ritornare con la mente ai suoi vent’anni.
Dopo un anno di fidanzamento, al ritorno dal servizio militare, Marco le aveva detto senza preamboli che aveva bisogno di stare un po’ da solo. I mesi trascorsi fuori, lontano da lei, gli avevano fatto capire che non era ancora pronto per un legame così impegnativo. Voleva viaggiare e fare altro, prima di sposarsi.
Lei lo aveva aspettato per tutto quel tempo, attendendo con ansia le sue telefonate dalla caserma ogni sera. E ora? Che cosa doveva fare? La sua famiglia fu severa con lei, perché se lui aveva preso quella decisione… qualcosa nel suo atteggiamento doveva averlo spinto a non volerla più.
Si sentiva sola, senza amiche, che non frequentava da quando stava con Marco, senza un lavoro, che non aveva più cercato, presa solo dal pensiero per lui. E l’ombra della depressione iniziò a farla scivolare verso il basso, al fondo del pozzo. Sua madre la fece visitare da uno specialista, e iniziò a curarsi.
Ora non aveva voglia di ricordare a come erano ritornati insieme, presi entrambi dal vortice delle premure e delle attenzioni che le rispettive famiglie avevano imbastito, in ansia per loro. In realtà, forse, avevano pensato anche ad altro, all’imbarazzo di rompere dei rapporti di “quasi parentela” che erano sorti in quell’anno di fidanzamento… forse non avevano pensato a ciò che lei e Marco volevano veramente… forse. A dir la verità, quando dopo circa mezzo anno dalla rottura sentì la voce di Marco al telefono pensò solo a cosa poteva mettersi per essere carina e uscire con lui la sera stessa. E dopo poco tempo la depressione sparì.
E le cose seguirono il loro corso: il matrimonio, il lavoro di lui all’ufficio postale del paese, la promozione a direttore dopo qualche anno, e lei perfetta donna di casa. Ma i figli non erano arrivati. Ci avevano dovuto rinunciare, dopo un lungo “pellegrinaggio” per le cliniche di tutta la regione e una diagnosi dettagliata della loro infertilità. Stranamente, allora, scoprendo di non poter diventare madre, non era ricascata nella voragine. In qualche modo se n’era fatta una ragione.
Adesso, invece, era tornata dallo psicologo dei suoi vent’anni: seppure in pensione continuava a visitare i vecchi pazienti. Ormai sapeva tutto di lei, perché altre due volte, dopo la prima, l’aveva curata: quando improvvisamente sua madre era morta d’infarto, e dopo aver scoperto che Marco aveva una storia con una collega di ufficio.
Si mise a sedere, guardò la sveglia sul comodino. Doveva alzarsi, perché presto lui sarebbe rientrato. Quella sera ci sarebbe stata la diretta della partita della sua squadra e sarebbe andato al bar, in paese, per vederla con gli amici. Sicuramente avrebbe voluto cenare presto.
Ma, a voler essere sinceri, era poi così brutto stare in fondo al pozzo? Là in basso, rintanata dentro il suo io, poteva vedere la realtà con altri occhi. Era meglio rimanere stesa sul letto a pensare, o affrontare il mondo fuori, indifferente e freddo? Qualcuno le aveva sempre messo delle lenti protettive, per evitarle il dolore accecante della luce violenta dell’esistenza. Non aveva mai vissuto veramente. Avrebbe potuto iniziare ora? “Sei fuori tempo massimo, non ti illudere” si disse.
Forse, però, per una volta, valeva la pena illudersi.