Racconto di Mattia Azzini
(Prima pubblicazione)
Ero in veranda, sullo sgabello di legno traballante, la testa appoggiata al muro. The Blue Mask era in sottofondo, come ogni giorno. Avevo trascorso l’intera giornata a sentire il clangore infernale dei macchinari, perciò mi concedevo quaranta minuti e trenta secondi di assoluta inattività.
Un prezioso rituale che si svolgeva immutato ogni giorno, dopo lavoro. Mia moglie era ancora fuori casa, e per questo nessuno poteva interrompere Lou.
All’improvviso qualcosa mi destò dal dormiveglia. Sentii dei tonfi sordi che sembravano provenire dall’interno. Era da un po’ che sentivo quel rumore, sempre alla stessa ora, ma stavolta pareva si fosse intensificato.
Pensai che potesse essere il vicino, che stava per ore in garage a restaurare mobili. Ma, riflettendo, i rumori che produceva erano diversi da quelli che sentivo: colpi secchi, monotoni e senza interruzioni.
Mi alzai e spensi lo stereo. Il rituale era profanato.
Andai in salotto. Il rumore si amplificava ad ogni passo che facevo. Sembrava provenisse dal soffitto. Se fosse un animale? Un topo, forse, pensai.
I colpi divennero più violenti.
Tum. Tum. tum.
Non poteva essere un topo. Quel suono somigliava di più a qualcuno che tirasse colpi di martello contro una parete.
Mi precipitai nello sgabuzzino a recuperare qualcosa. Trovai due bastoni da trekking: non erano molto intimidatori come arma, ma il fight-or-flight aveva già messo a tacere il raziocinio. Ne presi uno.
I tonfi aumentavano di ritmo, sembravano sincronizzati con il mio battito. Salii al piano di sopra per cercare ulteriori indizi.
Fu all’ultimo gradino che sentii un boato. Girandomi, vidi un buco enorme sul soffitto. La scala si imbiancò, era ricoperta di polvere e detriti.
Emerse una creatura deforme: un’enorme massa coperta di peli scuri, con un solo arto lungo e viscido. Aveva qualcosa di vagamente umano, ma difficile da definire. I suoi movimenti erano impercettibili e non lasciavano traccia. Solo quello stridore incessante dimostrava la sua presenza.
Mi gettai di peso sulla porta della camera da letto, sfondandola. Durante la fuga, il bastone cadde. La massa scura mi raggiunse prima che potessi chiudere a chiave la stanza, sembrava avesse la capacità di teletrasportarsi e anticipare ogni mia mossa.
Ero troppo impegnato a lanciare oggetti di qualunque tipo: un abat-jour, un profumo, un telecomando. Rimase sulla porta della camera, inscalfibile.
Mentre cercavo altri oggetti da scagliare, dovevo preoccuparmi di coprire i timpani per le grida, sempre più strazianti. Sembrava un grido umano mescolato a un fischio meccanico.
Fuggii dalla stanza e scesi le scale due gradini alla volta. Non riuscivo a raggiungere la sala, la creatura mi tratteneva: con l’unico arto a sua disposizione, mi aveva avvolto.
Chiusi gli occhi. Iniziai a dibattermi e a gridare, sferrando pugni nel vuoto.
Riuscii a divincolarmi. Lo vidi superarmi, rimbalzare da una parete all’altra mentre il suo corpo mutava. Ogni volta che il mio sguardo incontrava quella massa scura, essa aumentava di dimensione.
Si piazzò all’inizio della scala. Al centro del suo addome (anche se di addome probabilmente non si trattava) c’era una fessura da cui proiettava un fascio di luce accecante, che riuscii a scorgere per pochi millisecondi.
Una cavità si spalancò dalla sommità del capo, aprendosi in due come un cranio diviso da un’ascia. Le grida cessarono. Iniziò a sputare biglie multicolore, che rotolando si avvicinavano a me. Fu l’ultima cosa che vidi.
Mi accasciai. La luce proiettata dalla creatura era insopportabile, peggio che provare a fissare il sole ad occhio nudo.
Le biglie multicolore sulla scala sembravano trasmettere voci umane, creando così un’intricata orchestra di conversazioni e monologhi intervallati da risate, pianti e grida. Queste mi colpirono ancora più profondamente delle urla laceranti della creatura.
Con le mani sulle orecchie e la testa nel petto, come se cercassi di rientrare in un guscio immaginario, rotolai giù per le scale.
Sdraiato sul pavimento freddo, le biglie aleggiavano sopra di me. Le voci si moltiplicarono, istillandomi un desiderio irrefrenabile di gridare per sovrastare il chiasso. Sentii un suono familiare, ma non riuscii a identificarlo.
Fu allora che il mio vicino spalancò con veemenza la porta d’ingresso, trovandomi riverso, nell’atto di gridare, come se stessi cercando di avvisare qualcuno di un pericolo imminente. Si guardò intorno, con la maniglia ancora in mano, e il respiro irregolare di chi ha appena fatto uno scatto. «Io lo dicevo che c’era qualcosa di strano in questa casa.»
Rimanemmo in silenzio a guardarci per un tempo che non saprei quantificare. Il cuore mi galoppava ancora in petto e i palmi delle mani erano fradici.
Nessuna creatura intorno: solo il mio vicino, con un’espressione tra il disgusto e lo stupore.
Nel rialzarmi, notai che i due bastoni da trekking erano appoggiati al muro, fuori dallo sgabuzzino.
Dalla veranda invece, proveniva della musica. Lo stereo stava riproducendo The Blue Mask, il primo brano dell’album.
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