Racconto di Francesco Ceccacci

(Prima pubblicazione – 18 marzo 2021)

 

 

 

Mi sveglio e vedo il suo corpo emettere strane pulsazioni, fremiti improvvisi, come fosse attraversato da intermittenti scosse elettriche. L’ultimo anelito di vita sta abbandonando il suo grasso e flaccido corpo.

Miguel Suarez, è questo: un nome scritto su un cartellino di carta bianca, fuori dalla nostra cella.

Miguel Suarez faceva un riso fantastico, da leccarsi i baffi. “Mia madre mi ha insegnato a farlo.” Mi spiegò un giorno mentre la pentola emetteva sbuffi di fumo che riempivano il nostro squallido tugurio come grossi nuvoloni appena usciti dalla pipa di un marinaio. Avevano l’odore dolciastro dell’amido di riso, se chiudevo gli occhi mi sembrava di essere immerso in quel profumo meraviglioso, di poterci nuotare come fossi un falco, che attraversando le alture si immerge in bianchi batuffoli candidi.

Ogni volta che il mio palato assaporava quel manicaretto le pareti della cella si disintegravano in milioni di pezzettini, trasformandosi in enormi distese di sabbia bianca bagnata da un mare cristallino. Io mi cullavo come un neonato tra quelle dune sfiorate dalla brezza marina. Ecco da lontano comparire un veliero, batte la bandiera della Compagnia Delle Indie, ma alla guida di quella splendida imbarcazione non ci sono rudi omaccioni tatuati ma splendide dee dagli occhi azzurri che concedono al vento di arruffargli i folti capelli.

Non riesco a capire se sono sveglio o sto dormendo. I sonniferi che ho ingurgitato rallentano la mia risalita verso la realtà e così continuo a guardare Miguel. Il corpo è ormai immobile, gonfio, penzola come un piombo per muratori a pochi centimetri da terra.

Ha la lingua di fuori, come volesse mandare affanculo per un’ultima volta tutto il genere umano, e puzza, puzza come se si fosse cacato addosso e probabilmente è proprio così, ma non sarò io ad accertarmene, su questo potete metterci la mano sul fuoco. La zona del collo è viola come una melanzana, di quelle che vengono su col caldo torrido quando il sole spacca le pietre e le lamiere delle macchine diventano roventi.

Gli occhi sono vuoti, vitrei, sembra quasi che io possa guardarci attraverso. Quei grossi bulbi sporgono all’infuori come un uomo che si affaccia dal balcone. “Miguel, Miguel!” Lo chiamo ma non risponde. Scendo dalla branda con un salto ma la poca lucidità mi fa atterrare in malo modo la caviglia mi si storce e così sbatto la testa al muro. Queste maledette celle sono così maledettamente strette. Maledetto sia chi le ha progettate e maledetto me!

Impreco sottovoce finché il dolore non comincia a scemare scuoto e agito con forza quell’enorme massa di grasso.

“Cazzo Miguel non fare scherzi! Svegliati brutto panzone puzzolente, brutto ammasso di adipe appiccicoso ti pare che sono scherzi da fare questi?”

Prendo il coltello che Miguel usava per cucinare. Non è proprio un coltello è una sottile anima di legno appuntita ricavata dalla parte superiore dello sgabello, questi carcerati se ne inventano una più del diavolo! Con questo attrezzo rudimentale Miguel ci affettava le cipolle che era una meraviglia tanto da non sentire la mancanza del buon vecchio coltello seghettato, insomma, afferro quel pezzo di legno e taglio quella fottuta corda.

Miguel cade con un tonfo per terra. La sonnolenza mi gioca ancora una volta un brutto scherzo, non calcolo bene le distanze e rimango schiacciato dal mio pachidermico compagno di cella morto. Il pavimento trema come se due placche tettoniche si fossero mosse proprio sotto di noi. Intontito dalla botta mi immagino per un attimo come deve sentirsi la fidanzata di Miguel, incastrata in quell’ammasso gelatinoso di adipe, grasso e ossa, alla recondita ricerca di una boccata d’aria. Il fiato comincia a mancarmi. Sono schiacciato dal peso del cadavere e respirare sta diventando sempre più difficile.

“Guardia!” urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni che si svuotano come un tubetto di dentifricio all’ultima strizzata. Provo a riprendere aria ma questa non riesce ad entrare. Sto per lasciarmi andare, qualche altro secondo e probabilmente seguirò Miguel nell’aldilà, nel Valhalla, nel paradiso o in qualunque altro posto l’anima scelga di andare dopo la morte. Forse non c’è niente dopo, solo un buio eterno o un bianco eterno o un bel niente cosmico.

Sento i tacchi dell’appuntato che attraversano il vecchio ma pulito corridoio. Tic toc, sembrano le lancette dell’orologio. Si muovono senza fretta, come se fosse il mondo a girare intorno a loro invece che il contrario. Sto per lasciarmi andare cullato da quel ticchettio così dolce, così soave che mi accarezza le orecchie come una leggera brezza estiva.

“Che cazzo state a fa voi due?”

Queste parole mi riportano alla realtà. Sbircio sopra al pachiderma che mi è crollato addosso e vedo l’appuntato, con l’ultima  riserva di aria soffio fuori la mia richiesta di aiuto.

Sento il rumore di chiavi: dlen dlen. Quel suono ha qualcosa di magico, di spirituale di escatologico, di ritualistico, di religioso. Scandisce la vita di un carcerato, lo accompagna in tutta la sua pena, mattina e sera, come un fedele compagno fino all’ultimo giorno della sua condanna. Appena la guardia capisce che il mio cellante è moribondo i suoi occhi si allargano come le natiche di una donna poco prima di toccare la seggiola.

“Infermiere! Serve subito un infermiere al secondo piano!” sputa rabbiosamente dentro la radiolina poi si lancia sul corpo di Miguel cercando di spostarlo.

Con i miei ultimi attimi di lucidità percepisco i muscoli della guardia vibrare come rotaie del treno. Le sue gambe come pistoni tonanti rombano sotto lo sforzo e poi finalmente questa lunga gestazione finisce! Assaporo nuovamente l’aria, me ne riempio la bocca. Mi inebrio di questo gas delizioso mentre ne percepisco tutte le sue sfumature.

“Allora che è successo?” mi urla addosso l’appuntato.

“Non so cosa diamine sia successo, dormivo e quando mi sono svegliato l’ho trovato attaccato come un salame alle grate della finestra.” Il secondino rimane in silenzio, continua a guardarmi con due occhi fradici, penso di farmi un caffè, ma poi me li sento addosso.

Che cosa dovrei fare? Dovrei mettermi a piangere? Non ce la faccio, le lacrime non escono e poi chi è Miguel? Uno dei tanti.

Questa non è una cella ma un porto di mare, c’è un via vai continuo, altro che via del corso.

Ogni volta mi tocca ricominciare tutto da capo: da dove vieni? Cosa hai fatto? Come ti chiami? Hai i soldi nel libretto? E si perché sennò addio spesa, senza soldi tocca mangiarsi il vitto, c’è poco da fare. Certi manicaretti, te li raccomando, delle polpette che sanno di cibo per cani e una pasta buona per tirarla al muro.

Afferro la caffetteria con la mano destra e aggiusto la guarnizione fatta con la stoffa del lenzuolo.

“Cosa stai facendo!?” mi urla l’appuntato quando mi vede con la macchinetta in mano.

Io rimango immobile, come se Medusa mi avesse incantato con il suo sguardo pietrificante.

Con nonchalance ripongo la macchinetta del caffè sul tavolo e mi sposto in un angolo della cella aspettando.

Aspettare non è una cosa facile. Fuori, dove la gente respira aria pura, cammina, passeggia libera dalle restrizioni, libera di chattare su Facebook alle nove del mattino o alle undici di

sera, lì fuori insomma, le persone non sono più abituate a non fare niente, al vuoto cosmico, al nulla più assoluto, all’eco sorda della propria mente e ad essere costretti a conviverci.

In carcere, invece, aspettare diventa un’arte, uno sport, una disciplina agonistica. Si potrebbero indire dei campionati.

Quando sei in isolamento, recluso in una cella fredda senza tv, sopra un letto umido, indossando solo le quattro mura fradice che ti circondano, abbellite da orride scritte sgrammaticate, il tempo diventa il tuo peggior nemico e il saper aspettare la tua religione, il tuo mantra, il tuo credo spirituale, ciò che ti aiuta a tirare avanti, a non sbattere la testa contro il lavandino per vederla distruggersi in mille pezzi.

Sento altri passi, questa volta irregolari e zoppicanti, è l’infermiere che si presenta con una chioma scarruffata, un grembiule zozzo e delle scure borse sotto gli occhi.

“E’ morto.” dice dopo avergli tastato la vena giugulare.

“Dobbiamo spostarlo da qui.” risponde l’appuntato.

A quel punto i due prendono il cadavere e richiudono la cella.

Io mi siedo sul letto di Miguel. Se lo avessi fatto qualche ora prima mi sarei preso una sonora strigliata d’orecchi e probabilmente anche un ceffone. Miguel teneva quel letto come una reliquia, quello era il suo piccolo tempio. Ogni mattina lo rifaceva con attenzione meticolosa, al millimetro, come se la sua vita dipendesse dalla federa messa male o dal lenzuolo leggermente tirato verso sinistra. Amava il suo letto come si ama un cane o un gatto, lo coccolava, lo accarezzava, se avesse potuto gli avrebbe dato anche da mangiare. Nessuno ci si poteva sedere. Miguel e il suo letto erano una cosa sola, erano amici per la pelle. Ora che lui non c’era più anche il suo letto sembrava aver perso la vita. Con una mano sfioro il copriletto colorato; è morbido e sa di pulito, probabilmente glielo aveva regalato la sua Maria. Quante lacrime avrà versato quella santa donna su questa trapunta, quanta commozione e amore avrà visto quel morbido pezzo di stoffa senza neanche poter ricambiare o almeno consolare i suoi due padroni. Lo accarezzo un’ultima volta cercando di carpirne i segreti ma lui rimane muto, non parla, se li tiene per sé.

Probabilmente domani lo venderò per un paio di pacchetti di tabacco.