Racconto di Marco Leonardi

(Sesta pubblicazione)

 

Mi lecco le labbra guardandoti, mentre aspetto che, come sempre, il destino si compia.

E infatti eccoli, ora, i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, dentro di me…

…Quando tremando ti eri nascosto tra gli alti papaveri pallidi, conficcati nel campo di tuo padre come denti nel collo, mentre intorno correvano i diavoli venuti da oltre i monti e c’erano urla e belati, pianti e muggiti, polvere e pale d’elicottero sulla testa…

…E ancora, nella madrassa, le nerbate del maestro sulla tua schiena, quando non ricordavi le Parole del Libro, il bruciore sulla pelle e il dolore nelle ossa, e quello della vergogna nel tuo cuore.

E mentre di te mi nutro, di me ti faccio dono, figlio d’uomo.  Dei miei pensieri, desideri, ricordi…

ricordi amari, perché così era la tua faticosa vita immortale: amara come il sangue notturno.

Perché chi si incontra, quando il sole finalmente si nasconde?

Pochi e quei pochi: assassini, ubriaconi, drogati, papponi. Prostitute e i loro clienti. Amanti vogliosi, poi soddisfatti e svuotati. O insoddisfatti e rancorosi… Amaro era il loro sangue, amaro e scarso. Te lo facevi bastare…

…Poi, i figli degli uomini impararono a costruire macchine volanti e luoghi da dove partissero, dove arrivassero. Aeroporti li chiamarono e anche lì a Kabul, città di sassi e vento che mai seppe l’odore del mare, ne sorse uno.

Là, nascosta, aspettavo paziente che il sole tramontasse, che i voli notturni vomitassero le mie prede.

Poche persone, ma venivano da lontano, cariche di novità. Mi bastavano per godere un po’, dopo millenni di sangue sempre uguale, sangue di pastori e contadini. Di anime chiuse, montanare…

… Poi anche là arrivarono i diavoli con le loro bombe. Altri diavoli, venuti da oltre il grande mare lontano. Colpirono l’aeroporto, fecero a pezzi uno dei tanti edifici sorti al suo interno; e le macerie bloccarlo o il passaggio verso il tuo rifugio…

Le stelle stavano sfocando, ormai, quando arrivarono le bombe. E già albeggiava, mentre cercavo a mani nude di spostare le macerie, ma nulla. Debole come una femmina umana, stavo diventando, no, di più. Poi, mentre il maledetto sfrigolava sulla mia pelle, solo pochi minuti prima liscia seta senza macchia, ecco la salvezza.

Una donna, sola.

Avvolta nel burqa, sapeva di latte acido e stallatico, di aglio e sudore.

Una donna forte, una contadina. Con mani due volte le mie, con mani quasi d’uomo spostava le pietre e piangeva e piangendo chiamava: Ashraf! Ashraf!

Il suo sposo? O chi?

Dopo pochi attimi, non importò più.

Perché silenziosa scivolai alle sue spalle, alzai una pietra.

Non pesante, ma aguzza.

Colpii.

La polizia si scervellò per alcuni giorni cercando di capire perché qualcuno avesse ucciso una poveraccia, unicamente per rubarle il vestito.

Fu solo per la calda oscurità di quella veste pregna di odori, che sopravvissi…

E anch’io lo feci, quel freddo autunno del 2001. Allah me lo concesse, nella sua infinita misericordia, perché diventassi un suo soldato.

E finalmente, dopo più di vent’anni, ero pronto. Vestivo il bianco dei martiri e pregavo prima di immolarmi, qui, nel silenzio azzurro della moschea di Hazrat Alì, nel cuore di Mazar i Sharif, quando ti vidi. 

Era un incedere nero e ammaliante, il tuo, sopra il blu delle maioliche intarsiate e i tappeti decorati, anticipo di paradiso.

Troppo tardi ricordai che alle donne era vietato l’accesso, nella moschea dei miscredenti… 

che tentarono di fermarmi, all’ingresso. Due guardie inutili, bastarono il mio sguardo e la mia voce a sedurli e, mentre varcavo la soglia, riandavo con la mente a Kabul, la Kabul che da tre mesi avevo lasciato alle spalle.

Perché la gente cominciava a farsi domande per me scomode, su certe morti strane, su cadaveri pallidi come la luna con due segni sul collo.

E a te pensavo, Ashraf, che da anni cercavo. E, finalmente, eccoti, laggiù nella penombra. Nel silenzio ancora vuoto della moschea, il tuo cuore rimbombava al ritmo dei miei passi…

che si fermarono, a un niente da me. Come erano immensi i tuoi occhi, o incarnata goula, che mi fissavano neri come la stoffa attorno. E come forti quelle fredde e pallide mani, quando le mie tremanti strinsero e lentamente guidarono al tuo petto, mentre labbra morbide e bollenti mi appoggiavi al collo.

Poi furono aguzzi carboni ardenti, i denti tuoi… 

…Avesti un brivido, quando li affondai nella tua debole carne umana, poi sentii le tue mani sul mio seno allargarsi e stringere, stringere e allargarsi, al ritmo del mio suggere, mentre il tuo latte d’uomo colava sui miei piedi nudi.

E ora sei mio e in questi brevi tuoi ultimi istanti anche io sono tua, mentre il tuo viso si fa bianco come la veste che indossi e si ferma il rivolo di sangue che dal collo ti scende alla clavicola destra.

Ti guardo per l’ultima volta, Ashraf, poi lascio che il tuo corpo inerte scivoli ai miei piedi e esco da quel luogo.

Alla porta, le due guardie stanno tremando nell’attesa di me, le accontento, mi fanno pena.

Un piccolo morso sulle labbra di entrambe, un minuscolo frammento di me in loro e godono come mai con le loro donne, mentre ordino: “Dimentica!”

Arrivo nella piazza mentre il muezzin cantilena la preghiera del mezzodì e sto male, al pensiero di ciò che farò tra poco, ma devo.

Stavi fumando appoggiato al muro, quella notte a Kabul di vent’anni fa, Ashraf.

Eri bello, caldo e giovane in te correva il sangue e ancora più gustoso lo rendeva il rischio, perché a oriente già il cielo di blu si colora a.

Ti presi alle spalle, arrovesciai il tuo collo contro la mia bocca, era morbida la tua giovane carne sotto i miei denti, prima che l’esplosione ci sparasse, prima che le

macerie ti seppellissero.

Da vent’anni ti cercavo, mio diletto, per concludere ciò che quella notte era tra noi iniziato.

E dopo tutte quelle lune, con quell’accenno del tuo sapore perennemente in me, come potevo contenermi, poco fa, nella moschea?

Così, troppa anima ti presi e troppa te ne donai, perché la tua morte faccia morire la mia brama di te, la tua di me.

Se non agisco ora, quando spunterà la luna ti chiamerei e tu da me verresti, non vivo, non morto.  Ci ameremmo, mi daresti un figlio.

Un figlio, una stirpe, mia.

No, non qui.

Non così lontano da casa.

Ho umane lacrime agli occhi mentre ricordo i miei giochi di un tempo lontano.

… I tuffi nei laghi di Titano. Guardare Saturno seduta sugli anelli. Farsi stirare le membra dal buco nero galattico, cavalcare una cometa…

Scaccio quei pensieri inutili, e quando la folla variopinta ha finalmente affollato la moschea per la jumi’a muovo i fili sottili ma tenaci che legano la mia anima alla tua, il tuo corpo ancora caldo al mio.

Lontano, il tuo braccio destro si alza, la mano preme il detonatore.

Insieme al boato si alza in cielo un volo tubante di piccioni.

Quando il frullio delle loro ali scompare e rimane silenzio, rovina polverosa e azzurre macerie, mi incammino. Così, appena lo sconcerto farà posto alle grida, ai lamenti e all’ ululare delle sirene io, chiusa nel burqa, mia privata notte, sarò là.

China sui corpi da te, mio Ashraf, dilaniati: perché mai l’anima è tanto succulenta, lo so, come quando la vita d’improvviso si schianta.

Note:

Il padre di Ashraf coltivava papaveri da oppio, i diavoli venuti da oltre i monti sono i sovietici, quelli da oltre il mare gli americani, che nel novembre 2001 bombardarono l’aeroporto di Kabul

La moschea di Azrat Alì, sciita per cui di miscredenti per i talebani, fu distrutta da un attentato nel 2022.

Curiosamente, adiacente ad essa esisteva una piccionaia simile a un minareto.

Goula o ghoula è uno spirito della tradizione medio orientale che si nutre di sangue e/o anime a seconda delle tradizioni.

La joum’ia è la preghiera che si recita in moschea il venerdì dopo mezzogiorno

-°-

https://www.ibs.it/dialoghi-sette-percorsi-narrativi-libro-vari/e/9788874706525

https://www.tomarchioeditore.it/2022/05/04/come-fiori-sul-ciglio-della-strada-aa-vv/