Racconto di Mitia Chiarin

(Prima pubblicazione – 26 dicembre 2018)

 

Ho ancora addosso questo stupido vestito rosso. Il vomito ha sporcato la pelliccia bianca e i polsini non sono più immacolati, ma macchiati di fango. Cosa volete da me? Che vi fornisca le mie generalità? Mi chiami Gianni che va bene lo stesso. Cosa ci facevo nel vicolo? Vomitavo, ho bevuto troppo stasera. Veramente bevo troppo da mesi, da quando è arrivata la riconferma del contratto. Me ne stavo tanto bene a casa mia, con mia moglie e i miei animali, nel freddo del mio paese. Invece questo schifoso contratto di lavoro mi costringe ad andar via tutti gli anni e passar settimane nel vostro mondo caotico, inquinato, iper-tecnologico. Partire è un po’ morire e io, ogni anno che passa, mi avvicino alla mia fine. A pensarci sto male e bevo per anestetizzarmi dal fastidio di dover partire, di dover venire ad allietare le vostre ipocrite vite. Bevo per non pensare che sto morendo. Bevo per crepare prima. Perché ho picchiato quel barbone? Mi ha preso in giro. Diceva che ero un pallone gonfiato. E ho colpito duro quella faccia da clown ridente, finché l’alcol che avevo nello stomaco non mi ha costretto a fermarmi a vomitare. Finché non ha smesso di sorridere così.
Ma me lo dite cosa volete ancora da me? Non credete nella mia professionalità, per voi non valgo niente, salvo poi chiamarmi tutti gli anni a far il buffone alla vostra corte. E io che dovrei fare, obbedire? E’ vero, c’è un contratto, e mi pagate pure così il resto dell’anno me ne posso star a casa mia. Ma io non ce la faccio, mi chiedete cose, pretendete che vi sorrida, che sia amabile e buono. Ed ogni anno che passa, il sorriso diventa finto. Mi sento vuoto, sfiancato. Volete che vi ricordi quel che voi non siete più. E così berrò, fino a farmi scoppiare il fegato, che è quel che voglio. Il brutto è che con tutto sto rosso che ho addosso, se il fegato mi si spappola davvero e comincio a sanguinar dalla bocca, il sangue sul rosso del vestito manco si nota. Insomma, per voi sarebbe lo stesso. A meno che non si sporchi anche la candida pelliccia che mi passa attorno, lungo i bordi del vestito, e che ora è macchiata di vomito scuro. Ho fatto le prove generali. Vi fa schifo, vero? Non sono presentabile così? Ma che posso farci… se la pelliccia candida si macchia del mio sangue, non rosso, ma nero, a grumi con tracce bluastre, allora sì che sarà un bel vedere. Il mio sangue è nero, coagulato dal mio schifo personale. Sia chiaro, commissario, se crepo io non cambia niente. Ma almeno sarà un bel morire. Le telecamere verranno a filmare il mio cadavere, il volto bianco e ossuto, la pancia gonfia da mesi di super-alcolici, mica dal grasso pacioso della serena abbondanza, la pelliccia devastata dai grumi neri del sangue vomitato dalla mia bocca, fino ad asfissiarmi. Lo sguardo atterrito, dallo spasimo finale del dolore. Si immagina, commissario? Che servizi, con i commentatori in orgasmo dialettico, gli psicologi a porsi domande, le aziende a listar a lutto gli alberi di Natale. Durerà il tempo di due giorni, massimo tre. Sono pur sempre uno famoso, una faccia nota. Poi mi lascerete in pace. Passate undici mesi a burlarvi di me, dicendo che pensar che io esista è roba da bambini, da creduloni. Ma io esisto solo per far sorridere i vostri figli e voi l’avete dimenticato. Così come avete dimenticato di insegnare ai vostri figli il piacere di regalarsi un sorriso. Questi bambini oggi mi tirano la barba, mi tirano calci allo stomaco per veder se sono finto, mi guardano come se fossi un fenomeno da baraccone. Non mi chiedono giocattoli ma cose da grandi, che costano. E non mi sorridono più. Io che ogni anno arrivavo con i miei sacchi ho dovuto cambiar distributore, cercar la merce alla moda, la stessa ovunque. Voi la chiamate globalizzazione, io la definisco una stronzata da terzo millennio. Roba da grandi messa in mano ai bambini. Cellulari, computer, roba che costa tanto e che si rompe in fretta. E vestiti da donne per le bambine. E Iphone da 500 euro per i maschietti. Tutto è peggiorato quando i giocattoli mi sono stati cancellati all’ultimo rinnovo del contratto. Nessuno ha pensato manco di recuperarli per darli a quei piccoli che nel mondo se la passano peggio dei vostri figli, senza cibo, senza scarpe, senza genitori. Loro sanno sorridere ancora davanti ad un pallone o una bambola di pezza. Il datore di lavoro, invece, li ha mandati tutti al termovalorizzatore, considerandoli fuori moda, inutili balocchi del passato. Li ho visti bruciare, e con loro ho visto morire centinaia di sorrisi. E per evitare di gettarmi nel fuoco a recuperarli, ho preso una bottiglia di whisky e ho mandato giù lunghissimi sorsi. Per anestetizzarmi. E ho camminato per ore, bevendo e basta, fino a quel vicolo. Per spegner la rabbia, il fastidio, lo schifo. Meglio annientarmi in un litro di whisky che cedere, pensare che quel che faccio va ancora bene, che è giusto. Volevo lasciare da tempo ma la mia campagna ghiacciata non mi permette di mantenere me e i miei animali. E così sconfiggerò il ricatto, lavorando, ma morendo, lentamente. Tanto dentro sono già un encefalo quasi piatto, che risponde oramai solo agli stimoli e ai doveri essenziali. Bere, pisciare, camminare, distribuire, pisciare, bere, andare a cacare, bere, pisciare, vomitare, bere, consegnare, sorridere, defecare, vomitare e bere. Ok, commissario, a lei non interessa nulla di quel che le sto raccontando. Vuole solo le mie generalità per poi spedirmi in cella stanotte. L’accusa? Lesioni. Puzzo di vomito, è vero. Non ho addosso un bell’odore, lo ammetto. Ma anche quello stronzo, non puzzava meno di me. Sì, ok, ho cominciato prima io.
Mi chiami come vuole, le ripeto. Sì, assomiglio a Babbo Natale. Ma lei ci crede? No. Ecco, appunto, lasciamo stare. Mi chiami pure Gianni.